Glory, e così sia
E’ il 24 agosto, mancano meno di quarantotto ore all’uscita di “Glory”, il suo ultimo disco. Il nono. Ai microfoni di una trasmissione radiofonica della Bbc, Britney Spears racconta di essere quasi annegata, alle Hawaii, un paio di settimane fa. “Dov’è la mia security? Mi lasceranno morire qui?”, dice di aver pensato mentre un’onda, bellissima e feroce, le impediva di tornare in superficie. Dopo quasi cinque minuti di panico e lotta contro l’Oceano Pacifico, è riemersa ed è tornata a casa. Senza che la security muovesse un dito, un bracciolo, un bagnino. Ha postato un video su Instagram (lei e i suoi due bambini si tuffano da un panfilo modesto, con addosso modesti costumi) ed è andata a dormire. So godney (crasi di God e Britney, dall’urban dictionary).
“E’ l’inizio di una nuova èra”, ha twittato i primi di agosto, quando il lead single di “Glory”, “Make Me”, uscito a metà luglio, dopo aver superato i 3 milioni di visualizzazioni e ascolti e conquistato il podio di iTunes in 55 paesi in poche ore, era già rotolato al ventiquattresimo posto della classifica di iTunes e alla diciassettesima di Billboard negli Stati Uniti. Soffusi barbagli, se si fa qualche paragone con le sue colleghe (quattro settimane di dominio incontrastato della classifica iTunes per “Dark Horse” di Kathy Perry, attualmente la più seguita al mondo su Twitter e Instagram con 90 milioni di follower; dieci settimane per “Hello” di Adele; 1,2 miliardi di visualizzazioni su Vevo per “Black Spance” di Taylor Swift). Tutto fa pensare che non ci siano ragioni per ipotizzare che “Glory”, in vendita da ieri (in Messico si sono sbagliati e la scorsa settimana era già nelle vetrine: inconvenienti che possono capitare, ma non a una principessa del pop, una a cui Madonna passò il testimone con bacio a fior di labbra, sul palco degli Mtv Video Music Awards del 2003), farà meglio.
La nuova èra di Britney è un’acqua di naufragio.
“Sei la fiamma senza cui non posso stare… Voglio solo che tu mi faccia entusiasmare, qualcosa di sensazionale”: canta in “Make Me”, l’ennesimo me (Hit me baby one more time, 1999; “Piece of Me”, 2007; “Me Against the Music”, 2003; “Gimme More”, 2007) della sua carriera così povera di I (“Oops !… I Did It Again”, 2000), come se il tempio intorno al quale negli anni Novanta era ancora ammesso danzare ammiccando ai maschi sparvieri sbattendo le ciglia non fosse mai crollato. Come se le dipendenze (dal fumo, dalle proteine, dall’ozio, dall’amore, dai dislivelli) non fossero state rigettate nell’antro dell’immoralità più vicino all’illegalità. Come se il pubblico fosse ancora, com’era quindici anni fa, sornione e inattivo, analfabeta davanti alle etichette con l’origine dei prodotti, passivo davanti al marketing, avviluppato nel capitalismo, indifferente alla coerenza dei propri beniamini, alla loro correttezza, al loro stile di vita, alla loro indipendenza. Come se alle ragazze si potesse ancora proporre di aspettare il contributo maschile per fare qualcosa di sensazionale, mentre sono ormai anni che nel sangue di tutte c’è Emma Watson che in “Harry Potter” anima bacchette magiche e sconfigge troll col semplice ricorso ai suoi libri e al suo cervello.
Mentre questo decennio diventava neofemminista e incompatibile con il puttanpop (genere battezzato da popslut, esilarante blog italiano che di Britney è sfegatato seguace e che così lo teorizza: pop i cui ingredienti fondamentali sono lo showbiz, il culto del personaggio, qualsiasi forma di sgualdrinaggine, reale o simulata), Britney era impegnata a non finire come Amy Winehouse, cioè a non morire di anoressia e fegato spappolato da alcol e droga, a recuperare la custodia dei suoi figli, dimagrire, scolpirsi gli addominali, incidere dischi che ricordassero, uno dopo l’altro, che era ancora capace, ancora lei, ancora guizzante e sbarbina, ma nuovamente responsabile e pulita. Stare al passo coi tempi le avrebbe rallentato una così onerosa tabella di marcia. A David Lachapelle, iconico fotografo dell’incavo tra l’eccentrico e il kitsch, era stata affidata la regia del video di “Make Me” ma Britney, scontenta, ha voluto apportare modifiche e ne è venuto fuori un guazzabuglio girato da qualcuno che sembra aver trascorso gli ultimi dieci-quindici anni in Tibet e non aver assistito all’emergenza delle brave ragazze con le palle, disinteressate alla seduzione, al pizzo, ai pomeriggi con le amiche in cui passare gli uomini in rassegna.
“Make Me” è stato pensato come se fosse il copione di “Che fine ha fatto Baby Jane” e non l’ultima chance di Britney Spears per dimostrare di essere qualcosa di più di una cariatide da spettacoli per turisti nei casinò di Las Vegas (sorte munifica ma bara che spetta alle vecchie glorie statunitensi tipo Celine Dion, che però non ha mai limonato con Madonna, né rivoluzionato il pop occidentale o conturbato immaginari: si è limitata ad avere una bella voce, prestarla alla colonna sonora di un kolossal come “Titanic” e dimostrare 56 anni dal suo trentesimo compleanno in poi), facendola strisciare tra pareti inondate di luce con addosso biancheria bianca e nera e made in China, conversare con le sue amiche illanguidita in una camicetta bianca di pizzo e una coda alta tenuta altissima da un elasticone di spugna beige in modo che sia chiaro che lei ha 34 anni e le altre dieci di meno, dirigere provini per una serie tv in cui è abbastanza evidente che non prenderà mai il ciccione che spicca per simpatia, sebbene sia il solo che degna di interazione – la sua scelta ricadrà su un adone sulle gambe del quale andrà a sedersi, indicandone i muscoli alle colleghe.
E le luci e gli effetti e il trucco e i filtri ad addolcirle le forme che le sono rimasta acerbe e su cui ha scioccamente lavorato con gli attrezzi, per scolpire una donna dall’appeal colonizzato da un coacervo di canoni in cui è impossibile riconoscere alcunché se non una nostalgia noir per la soavità implorante di “hit me baby one more time”. “Colpiscimi ancora, la mia solitudine mi sta uccidendo, quando non sei con me sono perduta”: era il 1998, fine settembre, e una ragazzina tonica e sexy con un nome e cognome da Barbie e accessori fucsia, entrava nella vita degli americani con questi versi, cantandoli e ballandoli con addosso una divisa sexy da high school destinata a ispirare le collezioni di moda per adolescenti – Onyx, Phard, Fornarina, Benetton – per gli anni a venire. Aveva una voce commerciale e unica, infantile ma non capricciosa, bassa ma non black: nessuno ha mai pensato che fosse la sua forza o il suo quid e invece era entrambe le cose. Altrimenti, oggi, sarebbe stata diversa. L’America la venerò immediatamente. Seguì il resto del mondo.
Quando uscì il disco omonimo, pochi mesi più tardi (gennaio 1999), Britney era già una star ed era ancora minorenne. Vendette 30 milioni di copie: ancora oggi, imbattuto, figura al primo posto degli album femminili più venduti di sempre. Beyoncé, Adele, Madonna, Kathy Perry: le ha ancora in pugno e questo, se paragonato ai risultati che ora raggranella, la invecchia drammaticamente. Gli Stati Uniti erano un paese più difficile da scandalizzare, facevano i conti con la propria ipocrisia: Bill Clinton aveva già tradito Hillary e il ’99 sarebbe stato l’anno di “American Beauty”, il film del dito medio alla vita borghese dei self made man e delle donne in carriera, agli omofobi gay latenti, ma non alle ragazzine maliziose che, alla fine, si svelavano in tutta la loro ingenua debolezza, crollando da femme fatale a biondine insicure e sole coi loro pon pon. Era l’America di Eminem, che di Britney Spears fece parodie ingiuriose. Di Marilyn Manson, che di Britney Spears disse che aveva un cerotto sui genitali. Degli Offspring e del punk che aveva assorbito gli yankee. Era l’America che guidava l’occidente senza sensi di colpa ideologizzati. Le sue magagne morali riempivano i libri di Bret Easton Ellis, dove echeggiava il mondo lercio degli anni Ottanta di Jay McInerney (entrambi poco misericordiosi, nei loro giudizi sulla reginetta, capostipite di quella che Ellis, non troppo tempo fa, ha definito la “wuss generation”, cioè la generazione debole, inefficace).
Britney, però, più che una capostipite, è stata un simbolo. Una bambola dalle bamboline d’oro. Con 40-50 paparazzi assiepati davanti casa (numero immutato, da allora), pronti a spolpare la sua intimità, corteggiandola con la notorietà di cui era, naturalmente, ghiotta. Ci mise poco, Britney, a diventare carne da tabloid, offrendo esattamente la parabola che da lei ci si aspettava: la ragazzina arrivista, la Lolita spregiudicata (ahilei, se davvero lo fosse stata, nemmeno un esercito di Beyoncé l’avrebbe spodestata: le Lolite vere sono impervie, indistruttibili, se proprio cascano, si premurano di farlo sopra una coltre di spasimanti pronti a difenderle, sorreggerle), la brava ragazza che, accecata dal successo, non riusciva a non svelare subito di essere il contrario, cioè una bad girl corrotta. Il trio Paris Hilton (ereditiera), Lindsay Lohan (attrice), Britney Spears (icona teen pop) si costituì in un baleno e fu una zattera coraggiosa per il divismo maledetto che l’America e il mondo non vedevano già l’ora di lasciarsi alle spalle.
Tre viziate senza arte né parte (così le giudicavano) che furoreggiavano per le strade a bordo di bolidi, libertine sbarazzatesi dell’eredità di Thelma & Louise, di festino in festino, scambiandosi vestiti, flirt, pasticche, cocktail, dichiarazioni d’amore, sorellanza, lealtà. Tre bionde frivole, ricche, di successo, orgogliosamente spudorate (Paris pubblicò il diario della sua cagnolina, l’ineguagliabile Tinkerbell che non amava andare al parco perché pullulava di cagnacci medio-borghesi e che è morta lo scorso anno, dopo 15 anni di stravizi accanto alla sua padroncina, che ne ha annunciato il decesso su Instagram, sconvolta come mai il mondo l’aveva vista). Erano ragazzacce magnifiche: più il numero dei loro nemici cresceva, più s’inorgoglivano. Britney, però, aveva una carriera artistica da portare avanti. Una famiglia (due bambini e una madre e un padre che su di lei si erano arricchiti: Paris godeva della situazione opposta). I concerti. Gli album (un successo dopo l’altro, comunque: era ancora la principessa, aveva fatto strame della concorrenza di Christina Aguilera, sua antagonista e di Jessica Simpson, suo clone). La riprovazione sociale cominciava ad avere un peso e l’America era pur sempre il paese che covava la pratica che oggi legittima chiunque a rimproverare un padre o una madre che passeggino per strada con un figlio in una mano e una sigaretta nell’altra.
Dal 2003 al 2007 non riuscì a tirar fuori uno straccio di album: si limitò a una tournè senza infamia e senza lode, un greatest hits, un cammeo in “Fahrenheit 9/11” di Michael Moore. Fu però prolifica di profumi: ne lanciò sul mercato cinque. Nel 2007 entrò in un salone di parrucchieri, a Los Angeles, afferrò un rasoio elettrico e si rasò a zero, nello sconcerto generale. Erano settimane che entrava e usciva, a ritmo schizoide, dai centri di disintossicazione per vip disturbati e troppo ricchi (i rehab, dove Janis Joplin si sarebbe rifiutata di mettere piede e che per Amy Winehouse sono stati del tutto inutili), combinava disastri: perfino la cara amica Paris, accanto alla quale si era fatta fotografare più volte senza mutandine, dava segni di cedimento e, al suo fianco, arrossiva. La foto di Britney Spears calva, incrudelita, assente, gira ancora per il mondo. E’ un meme, una gif, una profile pic.
Quell’anno, per la settima volta di fila, il suo nome fu la parola più cercata su Yahoo e, confessò a David Samules dell’Atlantic uno di quei 50 paparazzi che stazionavano davanti a casa sua, fotografarla quando rientrava dall’ospedale o dal tribunale alimentava un giro di soldi che ogni anno, in quel periodo tanto disgraziato per lei, ammontava a 100 milioni di dollari.
Alla fine del 2007, Britney tornò in classifica con “Piece Of Me”, il secondo singolo del suo quinto album, “Blackout”. Cantò al mondo “Sono miss Sogno degli americani da quando avevo 17 anni, non importa se sono presente sulla scena o se me ne vado nelle Filippine, i giornali continuano ad avere foto del mio sedere. Volete un pezzo di me?”. Un bel colpo. Britney è tornata, si leggeva ovunque. Ed era vero. La celebrità non l’aveva uccisa, lei era pronta per il riscatto, ma non sembrava intenzionata a dare all’America lo scandalo, la bad girl. E neppure la mammina ripulita (almeno in questo, non era ingenua: sapeva che non avrebbe funzionato). Voleva espiare.
Nel 2009, aprì i concerti della tournée di “Circus”, sesto album, proiettando un video in cui Perez Hilton, uno dei magnati del gossip in rete, ammetteva di aver esageratamente lucrato su di lei e avvertiva che lo spettacolo sarebbe stato un “freak show”, più adatto agli adulti che ai bambini. Affidare a uno dei suoi aguzzini l’apertura del tour del rilancio non era, però, un segno di vittoria. Piuttosto, un’espiazione che toccava tanto a lei quanto al pubblico. Sull’Atlantic, a marzo del 2009, Sasha Free Jones commentò così: “Verranno nuovi album, altre hits, ma lo show di Britney è finito”. Disinnescata dalla sua stessa vergogna, impossibilitata a smacchiarsi dei reati di: scorribanda fiera e amorale nel pieno della giovinezza, mortificazione del corpo, scellerata gestione del ruolo materno, sregolatezza senza genio e quindi surrettizia.
Sulle feconde ceneri del suo show che mai sarà araba fenice, hanno poi preso a prolificare le ragazze non cattive. Beyoncé, Rihanna, Miley Cirus, Kathy Perry. Sane e terribilmente palestrate. In forze e incorruttibili. Quelle che anticipano i paparazzi, essendolo loro di loro stesse, con una naturalezza che incanta milioni di follower e che, invece, a Britney davvero non riesce (persino le foto dei suoi toast preferiti, su Instagram, sono sciatte, vecchiotte), ma che la restituisce se non all’iconologia dominante, alla resa a quel momento della vita in cui si ha dentro l’acqua di naufragio e si giustifica e perdona tutta la vita mascalzona. E si sembra vecchi sui social, essendo, più semplicemente, antichi, cioè, forse, più facilmente eterni.
Il Foglio sportivo - in corpore sano