Palermo, 19 luglio 1992: la strage in via D’Amelio in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta

Farfalloni di stato

Riccardo Lo Verso
Tra umori e sentito dire: le funamboliche verità di pentiti senza più credibilità ma sempre sotto protezione. I ricordi a rate, un tratto distintivo dei collaboratori di giustizia che amano i colpi di scena. Nei verbali c’è di tutto.

"La mia mente è come una vite arrugginita che si svita lentamente”, diceva il boss palermitano Salvatore Cancemi. Mica era l’ultimo dei mafiosi, ma il primo componente della commissione di Cosa nostra a saltare il fosso. Cancemi ha fatto scuola.
I ricordi a rate sono divenuti un tratto distintivo dei pentiti che amano i colpi di scena. Fanno leva sul buonismo di uno stato, spesso permissivo, che si accolla il rischio di sacrificare una parte di credibilità sull’altare della ricerca della verità. Solo che i pentiti, protetti e coccolati, la verità che dovrebbero contribuire a raggiungere finiscono, a volte, per intorbidirla. Se due decenni dopo le lacrime e il sangue delle stragi si parla ancora di misteri i collaboratori di giustizia non possono essere esentati da responsabilità.

 

Sotto l’ombrello della protezione di stato alcuni pentiti della vecchia mafia, nella migliore delle ipotesi, si sono tolti qualche sassolino dalle scarpe o, nella peggiore, hanno regolato conti in sospeso. Era una stagione diversa e il pentitismo un fenomeno tutto da scoprire. Se non ci sono più i mafiosi di una volta, figuriamoci i collaboratori di giustizia. I nuovi danno l’impressione di procedere a briglie sciolte. I verbali sono diventati contenitori prolassati di dichiarazioni. Dentro c’è di tutto: sensazioni, impressioni, umori e ciò che si conosce per sentito dire – tecnicamente si definisce de relato – e va a ingrossare il capitolo del “praticamente impossibile da verificare”. Come si verifica, ad esempio, il racconto di un picciotto di mafia, il quale dice di avere saputo da un amico che Matteo Messina Denaro avrebbe “salvato” il pubblico ministero Antonino Di Matteo e il senatore Beppe Lumia. Qualcuno (?) voleva ucciderli, ma il capomafia di Castelvetrano si sarebbe opposto perché “lui ce l’ha con lo stato”. “Ma forse è meglio che si ci allea con lo stato e il discorso è finito qua”, avrebbe detto Iddu, il latitante. Una rivisitazione, in chiave moderna, della trattativa stato-mafia, quella che Francesco Mesi, fratello di una vecchia fiamma di Messina Denaro, riferì a Salvatore Lo Piparo del clan di Bagheria. Solo che quando Mesi parlava “si vedeva che era tutto ubriaco”.

 

Tonnellate di ricordi. Se fosse consentito violare per un istante la sacralità dell’autorità giudiziaria che verbalizza le dichiarazioni si potrebbe addirittura parlare di spazzatura. Che, però, una volta messa a verbale – le apparenza possono essere ingannevoli – va censita. Come si fa nella raccolta differenziata. Questo sì, questo no, questo forse. E’ un dovere cercare i riscontri. Figuriamoci quando ci si misura con nuove, nuovissime dichiarazioni sui misteri d’Italia. Roba da fare tremare i polsi, segreti confessati a distanza di anni dall’inizio della collaborazione. A dire il vero il legislatore – che parolone – un paletto lo ha pure piantato: il pentito deve raccontare tutto ciò che conosce entro 180 giorni in un verbale riassuntivo. Riassuntivo e illustrativo, poi si scenderà nei dettagli e si valuteranno attendibilità, novità e completezza delle dichiarazioni. Solo che ogni giorno che passa la memoria si rinnova, ben oltre i 180 giorni. Le maglie del concetto di riassuntivo sono fin troppo larghe. Un tema accennato per linee generali può comprendere mille ricordi particolari. E poi ci si può sempre trincerare dietro l’inflazionato “nessuno me lo ha chiesto prima”. E così Carmelo D’Amico, uno di più loquaci pentiti dei nostri giorni, si è spinto a dire che la norma dei 180 giorni va rivista. Il legislatore di cui sopra se ne faccia una ragione.

 

Le ultime roboanti dichiarazioni le ha rese Nino Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria. Il Nano, così è soprannominato, aveva omesso dei particolari. Quisquilie, banalità di nessuna importanza. Sapeva, ma non lo ha detto prima, che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato l’ex poliziotto Giovanni Aiello, alias Faccia da mostro, personaggio su cui si è concentrato l’imbuto dei misteri. Glielo confidò anni fa Pietro Scotto quando erano in carcere all’Asinara e anni dopo lo stesso Aiello che – altro fatto che gli era sfuggito di mente – avrebbe pure partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio nel 1989. Le sue dichiarazioni, rese a Reggio Calabria, sono state trasmesse alle procure siciliane. Chi è Lo Giudice? Il suo curriculum merita un riassunto. Si pente la prima volta nel 2010. Nel 2013 evade dagli arresti domiciliari in una località segreta.

 

Scrive due memoriali accusando la cricca, così la definisce, composta da Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Renato Cortese (allora rispettivamente procuratore, aggiunto e capo della Squadra mobile di Reggio Calabria) di averlo obbligato a raccontare un mucchio di balle. Le balle invece erano le sue. Farlocchi erano i memoriali in cui accusava Pignatone, Prestipino e Cortese (che poi sono sono i tre che, quando lavoravano a Palermo, hanno arrestato Bernardo Provenzano). Sei mesi dopo la fuga Lo Giudice viene scovato e arrestato in una villetta a Reggio Calabria. Silenzio assoluto per alcuni mesi, poi si pente di nuovo e fa marcia indietro. Si scusa, ma la colpa è dei servizi segreti. Due uomini lo hanno avvicinato a Macerata e gli hanno tappato la bocca. Sapevano che Lo Giudice aveva parlato di Faccia da mostro alla fine del 2012 al procuratore aggiunto della Dna, Gianfranco Donadio. Donadio è il protagonista di un’indagine “parallela” che solo pochi mesi fa, a distanza di anni dal suo inizio, è stata stoppata e denunciata.

 

Se n’è andato a lungo in giro per le carceri italiane ad ascoltare indagati e pentiti con l’obiettivo di trovare la sua chiave di lettura sulle stragi di mafia del ’92. Eppure già cinque procure – Palermo, Caltanissetta, Firenze, Catania e Reggio Calabria – lavoravano e lavorano sugli stessi fatti. E così su Donadio, che nel frattempo è diventato consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro, è stato avviato un procedimento disciplinare, promosso dalla Procura generale della Cassazione. Sono stati i procuratori di Caltanissetta Sergio Lari (oggi procuratore generale) e di Catania, Giovanni Salvi (oggi procuratore generale a Roma) a chiedere l’intervento del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti perché l’indagine parallela di Donadio avrebbe finito per pregiudicare l’esito delle inchieste già aperte in giro per l’Italia. Una delle conclusioni a cui Donadio diceva di essere giunto è quella secondo cui, per l’Attentatuni di Capaci, sarebbe stata utilizzata una doppia carica esplosiva grazie all’intervento dei servizi, segreti e pure deviati. Una ricostruzione scartata dai pm di Caltanissetta, gli stessi pm che hanno smontato le imposture dei falsi pentiti e demolito i processi sulla strage Borsellino costruiti sulle bugie.

 

Di Lo Giudice spuntò anche un video in cui rinnegava di conoscere Giovanni Aiello. Non era vero, come disse a Donadio, che lo aveva pedinato e fotografato. Agli atti resta la frase – “Domani stesso le farò avere quelle foto” – pronunciata al magistrato, all’atto di chiudere il verbale del 2012. Si può ipotizzare, e c’è chi lo fa, che dietro la sua promessa non mantenuta ci possano essere le pressioni dei servizi segreti. Attenendosi alla cronaca i dati certi sono che delle foto non c’è traccia e che Lo Giudice, pur dichiarando di avere incontrato e conosciuto Aiello personalmente, di lui non parlò con i pubblici misteri della Procura di Reggio Calabria quando decise di pentirsi e prima che gli 007 lo zittissero.

 

La paura è una costante per i nuovi pentiti. Per paura, ed esempio, ha tenuto la bocca chiusa su certi argomenti anche D’Amico, pentito della mafia messinese di Barcellona Pozzo di Gotto, quello della critica al legislatore. All’improvviso ha ricostruito temi delicatissimi. Ha detto di essere informato sul progetto di attentato ai danni di Di Matteo, uno dei pm del processo sulla trattativa stato-mafia in corso a Palermo. “Lo vogliono morto a tutti i costi. Ce l’hanno con lui perché ha dato filo da torcere a Cosa nostra”, ha riferito ai pm messinesi e allo stesso Di Matteo che era andato a interrogarlo.

 

D’Amico ha iniziato a collaborare nell’agosto del 2014. Le notizie le avrebbe apprese qualche mese prima, ma le ha messe a verbale solo nel febbraio 2015. La lista work in progress dei suoi ricordi è piuttosto ricca: il boss palermitano Nino Rotolo gli confidò in carcere che fu Provenzano, sotto dettatura di Riina, a scrivere il papello con la richieste di revoca del regime carcerario del 41 bis e l’alleggerimento delle norme sul sequestro dei beni; “Andreotti, con altri politici, e i servizi segreti sono i mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio”; sempre da Rotolo seppe che l’urologo Attilio Manca, dopo avere curato Bernardo Provenzano, fu ucciso dai servizi segreti per eliminare un testimone scomodo. Dichiarazioni rimaste nel cassetto della memoria durante i 180 giorni e pure nel corso dei processi in cui era stato chiamato a testimoniare. Dichiarazioni che ora si fa a gara per definirle choc. E spunta sempre l’attenuante della paura che l’ex pm Antonio Ingroia, oggi legale della famiglia Manca, non ha esitato a riconoscergli: “E’ comprensibile che di fronte a uno scenario così terribile non se la senta di dire certe cose in dibattimento”.

 

Non in dibattimento, ma davanti al microfono di un giornalista, affiorarono i ricordi di un altro pentito palermitano, Michelangelo La Barbera. Dietro l’uccisione di Giovanni Falcone “non c’è solo la mafia”, ma “un uomo dei servizi segreti”. E dire che fu lui stesso, testimoniando al processo sulla strage del Rapido 904, a spiegare che per “ogni strage e ogni delitto eccellente, nell’ambiente di Cosa nostra si diceva sempre che erano stati i servizi segreti per deviare, ma sono solo dicerie”. Le parole di La Barbera sollecitarono la memoria di Francesco Di Carlo, pentito con la filosofia del “procedere per gradi, perché un sacco vuoto non si regge in piedi”. Secondo La Barbera, le stragi furono decise dieci anni prima del ’92 in una villa del Circeo. Secondo Di Carlo, non si discusse di stragi, ma di un golpe. Di Carlo è il collaboratore che qualche mese fa ha rispolverato la storia di Bernardo Mattarella, padre del capo dello stato Sergio, dipinto come uomo d’onore della vecchia Cosa nostra della provincia di Trapani. Ha ribadito storie già dette due decenni fa, infarcite con i ricordi che “vengono a galla”. “Fandonie di un uomo che non sa nulla”, ha tuonato il legale dei Mattarella.

 

Un altro pentito da cui si attinge molto è Consolato Villani, ex killer della ’ndrangheta. Tra le cose da lui riferite c’è la sua partecipazione, quando aveva appena diciassette anni, a tre agguati contro i carabinieri. Deponendo al processo sulla Trattativa Villani ha sostenuto che le azioni punitive, avvenute tra il dicembre del ’93 e il febbraio del ’94 nei presi di Reggio Calabria, facevano parte di “un attacco contro lo stato che comprendeva anche le stragi siciliane”. Sull’attendibilità di Villani si è consumata una nuova spaccatura fra le procure di Palermo e Caltanissetta. Il 18 gennaio ’94 una raffica di mitra uccise Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Secondo i pm palermitani, non è casuale la vicinanza temporale con il 21 gennaio, giorno in cui – ha raccontato il pentito Gaspare Spatuzza – il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano gli raccontò che i calabresi “si erano mossi uccidendo i due carabinieri” e facendo poi riferimento all’attentato allo stadio Olimpico di Roma, fortunatamente fallito, come un “contributo” offerto da Cosa nostra a una comune strategia. Villani ha aggiunto che parecchio tempo dopo un suo cugino gli disse che dietro gli agguati calabresi e la stragi siciliane c’era la mano dei servizi segreti deviati. Mentre a Palermo si batte la pista dell’unica regia, a Caltanissetta non si dà peso alle dichiarazioni di Villani perché “ha riferito solo cose de relato”. Nel frattempo i fascicoli si ingrossano e le verità sul passato, nella stagione del funambolismo, diventano impossibili da raggiungere.

 

Le cose non vanno meglio per le indagini sul presente di Cosa nostra. E nel presente la figura più ingombrante è quella dell’ultimo padrino latitante, Matteo Messina Denaro. Per acciuffarlo hanno messo in campo uno spiegamento di forze mai visto prima. Sciolte le ultime reti di pizzinari, il capomafia di Castelvetrano sembra un fantasma. Ed ecco irrompere in un contesto investigativo già complicatissimo un nuovo collaboratore di giustizia, l’architetto agrigentino Giuseppe Tuzzolino. Alcuni investigatori lo definiscono “inattendibile” e addirittura “fantasioso”. Secondo altri, però, è giusto battere tutte le piste. Alcune costano impegno e soldi. L’ultimo episodio riguarda il mancato ritrovamento di un hard disk con le fotografie di Matteo Messina Denaro. Tuzzolino aveva detto di averlo lasciato nella cassetta di sicurezza dell’appartamento che aveva preso in affitto a New York nel 2012.

 

Possibile che il furbissimo e guardingo latitante si sia lasciato fotografare in Spagna, Yugoslavia e Svizzera dove l’architetto sostiene di averlo incontrato? Così come ha pure raccontato delle apparizioni del boss nel corso di alcune riunioni massoniche nel Trapanese. Tuzzolino finì coinvolto in un’inchiesta giudiziaria nel 2013 sul rilascio di una sfilza di concessioni edilizie nel comune di Palma di Montechiaro. Dopo il carcere, l’architetto trentacinquenne patteggiò una condanna e iniziò a parlare, senza freni, con i pubblici ministeri agrigentini. Messina Denaro non è l’unico nome citato nei suoi verbali. Si sa, ad esempio, che ha parlato dell’ex governatore Raffaele Lombardo e di Patrizia Monterosso, segretario generale della regione siciliana. E le sue dichiarazioni hanno del clamoroso. La Monterosso farebbe parte di una loggia massonica di Castelvetrano che incasserebbe una tangente del 5 per cento su ogni impianto fotovoltaico realizzato nel Trapanese. I soldi finirebbero in tasca alla Monterosso che avrebbe fatto da mediatore fra la massoneria di Trapani e l’ex presidente della regione. Ecco perché le dichiarazioni sono confluite nel processo d’appello a Lombardo. Dichiarazioni mai riscontrate. E così molti magistrati hanno deciso di “mollare” il collaboratore.

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