Il selfie di colpa
C’era una volta la multinazionale dei ben pasciuti del pianeta che si riversava sulla culla di antiche civiltà in shorts e con le creme abbronzanti. Il turismo tacciato di essere un esperimento feudale condotto dai membri dei paesi democratici e ricchi nelle nazioni povere e soggette a dittature, il moro, il fellah o il primitivo. Il turismo come dominio economico di colossi internazionali (trasporti aerei, catene alberghiere, agenzie di viaggio), causa di una “penetrazione culturale” davanti a cui le tradizioni e le strutture sociali di rado sono in grado di resistere, perché ogni piede bianco che si posa sul suolo africano è come uno scarpone militare, e la macchina fotografica è il surrogato moderno del fucile.
Adesso si è passati dal fardello dell’uomo bianco di Kipling, la missione civilizzatrice, al fardello del turista bianco, il turista-salvatore che va in vacanza per farsi un selfie fra i poveri ed espiare il senso di colpa. Lo chiamano “volonturismo” ed è l’ultima moda dei narcisi piagnoni che si imbarcano in grottesche vacanze umanitarie. L’industria di questo “turismo del volontariato” ha un valore di circa 173 miliardi di dollari all’anno, è forte di trecento associazioni che organizzano viaggi per due milioni di turisti ogni anno. I partecipanti inviano selfie con i bambini indigenti e utilizzano hashtags come #InstagrammingAfrica. Si imbarcano in spedizioni che hanno slogan tipo “You Care We Care”.
E’ la riedizione di quello che è passato alla storia, altrettanto goffamente, come “turismo equo-solidale” (Giovanna Melandri ne era una paladina) e “turismo sociale”. Nel frattempo è nata anche una “Associazione italiana turismo responsabile” che promuove questi viaggi della speranza. C’è chi sceglie di occuparsi degli animali, dall’Africa alle Bahamas, chi invece degli orfanotrofi e delle bidonville. Spesso la vacanza si appoggia a strutture extralusso. Per non farsi mancare nulla. Sull’isola indonesiana di Bali questo è un settore fiorente e c’è anche un orfanotrofio apposta per i turisti, che visitano l’isola un paio di volte l’anno e sono disposti a pagare per l’istruzione dei bambini. Numerose ricerche in Sud Africa e altrove hanno rilevato che “il turismo degli orfani” – in cui i visitatori occidentali fanno da badanti per i bambini i cui genitori sono morti o comunque non li possono sostenere – è diventato così popolare che alcuni orfanotrofi funzionano più come imprese opportunistiche che come enti di beneficenza.
Il modello di Barbie Salvatrice, emula dei turisti dell’umanitarismo
Per questo Responsibletravel.com, il sito che promuove i viaggi umanitari, ha pubblicato questo annuncio: “I volontari degli orfanotrofi, contrariamente alle loro migliori intenzioni, rischiano di diventare essi stessi un problema, invece di essere d’aiuto ai bambini più poveri del mondo”. Molti “orfani”, si era scoperto, hanno genitori vivi e gli arrivi e le partenze costanti di volontari sono stati collegati a disordini di comportamento nei bambini. L’Unicef ha rivelato, infatti, che esiste un rapporto causa-effetto tra la crescita del turismo etico e l’aumento nel numero degli orfanotrofi: a Bali sono addirittura raddoppiati; in Ghana, il novanta per cento dei bambini non sono affatto orfani, ma sono esche per i gonzi occidentali; in Cambogia dal 2005 a oggi gli orfanotrofi sono aumentati del sessantacinque per cento. L’Unicef ha anche scoperto che meno di un terzo del denaro donato a orfanotrofi è speso per l’assistenza all’infanzia. In Cambogia e Nepal questo business sta effettivamente portando all’abbandono o anche al rapimento di bambini da parte dei genitori per alimentare il boom di turisti desiderosi di essere buoni e altruisti. Ci sono stati numerosi altri casi in cui ai bambini è stato negato l’accesso alle loro famiglie e ai diritti umani fondamentali. Molti sono chiamati “orfani di carta” a causa della dichiarazione solo formale di essere senza genitori. In un rapporto del 2008, l’Unicef e l’organizzazione di aiuto per bambini Terre des Hommes hanno stimato che l’85 per cento dei sedicimila residenti in orfanotrofi in Nepal hanno almeno un genitore vivente.
Il settimanale tedesco Spiegel ha appena dedicato una inchiesta a questa industria: “Quando aiutare diventa un fardello”. Il mondo in via di sviluppo è come un campo da giochi di nuovi samaritani della middle class occidentale. Per l’occasione, anche Barbie ha abbandonato il suo costume da ballerina e ha viaggiato in Africa per aiutare le persone lì, pur riuscendo a rimanere sempre “alla moda”. E’ nata così “Barbie Salvatrice”. Scavare trincee in zone rurali dell’India è diventata una moda e un rito di passaggio per migliaia di giovani occidentali ogni anno. Holland America ha lanciato il viaggio “Cruise with Purpose”: i passeggeri si imbarcano in navi di ricerca per raccogliere campioni di acqua e controllare le temperature dell’oceano. A Cancun, in Messico, gli ospiti vanno a ristrutturare una scuola.
A Jakarta, in Indonesia, si aiuta in un rifugio per i bambini di strada della città. Negli Stati Uniti, quasi un viaggiatore su venti ha compiuto un viaggio per aiutare i meno fortunati o sostenere una causa umanitaria, secondo la società di ricerca Y Partnership. Questo tipo di viaggio è cresciuto in popolarità dopo la distruzione della costa del Golfo con Katrina. Ma gli esperti citano un altro motivo per la sua ascesa: “E’ molto alla moda”. Chi non vorrebbe eguagliare Angelina Jolie in tour nei campi profughi in Darfur? Il gruppo Greenforce offre per 2.150 dollari un corso per il salvataggio dei pinguini vicino a Città del Capo, in Sudafrica. Ma ci sono anche uscite in mountain-bike. Si possono anche cavalcare gli elefanti salvati dall’industria dell’avorio. Un numero della rivista Wilson Quarterly critica così il fenomeno: “Il volonturismo è nato come una forma di commercializzazione mantenendo l’illusione di volontariato pulito”. Se l’Africa sub-sahariana è la destinazione principale per i volontari, questi sono in primo luogo gli studenti bianchi provenienti da Europa, Nord America, Australia e Nuova Zelanda.
Proposti come un “cambiamento di vita”, le agenzie di viaggio in Europa offrono sempre di più questi pacchetti di volontariato. Il “volonturismo” è il settore dei viaggi in più rapida crescita. Non partono soltanto i ventenni, ma anche i professionisti tra i quaranta e i cinquant’anni, e i pensionati. Lavorare in una regione sottosviluppata dovrebbe tradursi in un cambiamento significativo e un ampliamento della propria visione del mondo, non in una nuova immagine del profilo Facebook. Nella rivista Pacific Standard, Lauren Kascak sostiene che il volonturismo “in campo medico ha portato alle comunità locali più male che bene”. I ghanesi sono meno propensi ad acquistare l’assicurazione sanitaria perché sanno che ogni pochi mesi ci sarà una nuova brigata di volontari bianchi e annoiati a portare il farmaco, lasciando così la comunità esposta alle malattie durante gli intervalli.
Per chi ha un forte interesse per la conservazione della fauna selvatica, il viaggio del volontario costa più di tremila dollari, compresi i voli, e si va a lavorare in un centro di riabilitazione degli animali in Costa Rica. Salvo poi scoprire che non era un centro di riabilitazione degli animali, ma uno zoo mal gestito. Spesso, i volonturisti sono esibizionisti. In una fotografia scattata da un volunturista in Ghana si vede un bambino con i piedi nudi che scava nel fango. Le sue mani tirano su la camicia per esporre un’ernia ombelicale, la pancia gonfia, e una biancheria intima troppo grande. Il cuoio capelluto mostra segni di patologia dermatologica o di una carenza nutrizionale, forse entrambe le cose. Dietro di lei, solo le erbacce crescono. Gli antropologi Arthur e Joan Kleinman hanno fatto notare che simili immagini suggeriscono che ci sono comunità incapaci o disinteressate nella cura per il proprio popolo. Queste fotografie “giustificano atteggiamenti e politiche paternalistiche”.
Il volonturismo riguarda in definitiva la realizzazione dei volontari stessi, non necessariamente le comunità che si visitano. Alla fine, l’Africa dei volonturisti non è un posto reale. Si tratta di una geografia immaginaria i cui paesaggi sono forgiati da una buona dose di narcisismo. “E’ un altro tipo di uscita dalla monotonia”, scrive sul New York Times la giornalista pakistana Rafia Zakaria. “Ma a differenza dell’edonismo a breve termine di una crociera o di una vacanza in spiaggia, il volonturismo capitalizza un altro desiderio occidentale: la ricerca di senso”. La povertà diventa uno spettacolo visibile. “Le photo oppportunities, gli abbracci con i bambini e i pasti con la gente del posto sono parte di questo pacchetto.
La povertà e le sue reali umiliazioni lasciano il posto a una nuova forma di sfruttamento: coloro che soffrono sono messi in scena per provocare gratitudine per la vita ordinaria del volonturista che torna a casa”. Jean-Pierre Gamier, in un articolo per il Monde diplomatique dell’agosto 1980, li chiamò “i globe-trotters che conoscono l’arte di far correre i deliziosi brividi dell’esotismo in un pubblico avido di evasioni per procura, offrendogli su un vassoio, sotto forma di episodi bellamente congegnati”. E’ bello giocare a fare i poveri “with the best intentions”, come li chiamano in inglese, in questa specie di set cinematografico della cattiva coscienza occidentale.
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