Ritratto Teju Cole © Martin Lengemann

Il diario in cammino di Teju Cole

Giuseppe Fantasia
La fotografia e una scrittura fatta di immagini per una mappa del mondo. "Punto d'ombra" è il suo ultimo libro, un’esclusiva italiana. "Città aperta", un vagabondare per New York con il distacco dell'outsider, la profondità dell'intellettuale e l'agio del flâneur.

Camminare è vivere, conoscere e rallentare, è riequilibrare il nostro corpo in modo univoco, agendo su tutti i piani, da quello fisico a quello emozionale, facendo scomparire, anche se solo per poco tempo, i pensieri negativi ossessivi che ristagnano nella nostra vita stanziale. E’ proprio quel movimento – il vivere nel presente e rispecchiarlo – che ci pulisce la mente dai malesseri, dalle depressioni, dalle ansie, dalle paure e dalla rabbia, e a volte quel camminare diventa un peregrinare, un vagare qua e là da un luogo all’altro, fuori dalla propria terra. Lo sa molto bene Teju Cole – scrittore, fotografo e storico dell’arte di origine nigeriana che da anni vive negli Stati Uniti e che scrive in inglese – un quarantenne che ha fatto delle camminate il suo stile di vita, un punto da cui partire per osservare, per ricominciare ogni volta e per migliorarsi. Quelle di Julius – lo studente all’ultimo anno di specializzazione in psichiatria, protagonista del suo libro più conosciuto, “Città aperta” (Einaudi), tradotto in tutto il mondo e vincitore di prestigiosi riconoscimenti (tra cui il Pen/Hemingway Award e il Rosenthal Award) – iniziano da Morningside Heights, “un punto incastrato fra la cima di Central Park e il fondo di Harlem”, e non sono altro che “un contrappunto alla frenesia delle giornate in ospedale”, un vagabondare per la città di New York fatto con il distacco tipico dell’outsider, con la profondità dell’intellettuale e con l’agio del flâneur. In ogni pagina, il protagonista/narratore si muove nelle geografie newyorchesi incontrando persone di ogni classe e cultura e permettendo che ogni sua impressione, vissuta come immaginata, vada a depositarsi sul fondo della coscienza fino a far germogliare idee per il nostro tempo.

 

Ama camminare anche il protagonista di “Ogni giorno è per il ladro”, l’altro libro di Cole pubblicato in Nigeria nel 2007 e poi in tutto il mondo sette anni più tardi (in Italia, sempre da Einaudi, tradotto, come tutti i suoi libri, da Gioia Guerzoni). La sua è una peregrinazione affascinante e inquieta: dopo essere fuggito da Lagos quasi di nascosto, vi torna al termine di quindici anni vissuti nella Grande Mela, e di fronte a quella metropoli enorme che non riconosce più, prova un sentimento misto a rabbia e amore, “la coppia che definisce il loro rapporto”. Con i suoi sedici milioni di abitanti, Lagos “è difficile da vedere”, tanto che nelle piccole foto in bianco e nero che troviamo alla fine di ogni capitolo, essa è sempre sfocata o nascosta – dalla griglia di un recinto, da una tenda, da un finestrino bagnato dalla pioggia o da una ragnatela di un vetro rotto – in netto contrasto con le parole del narratore che sono sempre lucide, spietate e capaci di far emergere appieno la malinconia, l’irrequietezza e il rancore di chi è stato tradito.

 

Sono quasi cento le fotografie che ritroviamo poi in “Punto d’ombra”, il suo ultimo libro, un’esclusiva tutta italiana realizzata dalla casa editrice Contrasto per la collana “In parole” ideata da Roberto Koch, una serie di scatti e parole che, come le pagine di un diario visivo, seguono e testimoniano i diversi viaggi di Cole e le sue peregrinazioni in giro per il mondo. “Sono nato negli Stati Uniti, ma quando ero molto piccolo mi sono trasferito di nuovo in Nigeria, la terra dei miei genitori”, racconta al Foglio. “Dopo aver finito lì le superiori – aggiunge – sono tornato in America per fare l’università e a eccezione dell’Inghilterra, quello era il mondo che conoscevo. Negli ultimi quindici anni, tante cose sono cambiate e il viaggiare è diventato una parte molto più attiva della mia esperienza di vita”.

 

All’inizio, i suoi erano soprattutto soggiorni di ricerca, che faceva per completare la formazione di storico dell’arte, ma con il passare del tempo, dopo la pubblicazione dei suoi libri, ha viaggiato per lavoro e per piacere, fino a decidere di viaggiare appositamente per fotografare luoghi specifici. “Iniziai con dieci paesi, poi con venti e poi, ancora, con trenta: il numero aumentava e ormai aeroporti e stanze d’albergo erano la mia casa”, ci precisa quando lo incontriamo a Roma, dove di recente è stato ospite del Museo Maxxi. “Senza nemmeno accorgermene, stavo tracciando una mappa del mondo”, ha aggiunto questo autore che è anche critico fotografico per il New York Times Magazine e che ama – ricambiato – il nostro paese, dove ha passato diverso tempo tra un festival letterario e l’altro, dalle Conversazioni a Capri (il festival ideato da Antonio Monda e Davide Azzolini) alla Milanesiana di Elisabetta Sgarbi fino a Letterature, il festival internazionale di Roma ideato da Maria Ida Gaeta e ospitato in quella suggestiva cornice che è la Basilica di Massenzio.

 

“Punto d’ombra” – che fino allo scorso giugno è stato anche una mostra nello spazio Forma Meravigli di Milano a cura di Alessandra Mauro – lo ha scritto dopo un periodo di semicecità. “Una mattina del 2011 mi sono svegliato e non ho visto più da un occhio a causa di minuscole perforazioni della retina, chiamate papilloflebite”, ci spiega. “Vedere con un occhio solo ostacola la nostra percezione della profondità, cambia lo spazio in cui ci si muove ed è difficile persino camminare, sicuramente è diverso. Lo spazio cambia se non puoi vedere le sue estensioni, non è così facile mettere un piede davanti all’altro e il passo di una persona, il ritmo dei suoi passi, deve cambiare per adattarsi alla visione alterata, ma inevitabilmente c’è una distorsione corrispondente nel pensiero”. Quella condizione temporanea da lui vissuta, lo ha spinto a riflettere su tematiche legate alla visione, tanto da far cambiare completamente il suo modo di fotografare così come il suo modo di guardare ciò e chi lo circonda, perché – ci precisa – “era diventato necessario ritrovare l’orientamento”.

 

Nelle foto del libro – impreziosito da una sentita prefazione della scrittrice sua amica Siri Hustvedt – ci sono spazi interni ed esterni, dettagli metropolitani e naturali, case e hotel, oggetti, mobili, alberi e persone qualunque: nell’insieme, sono dei piccoli pezzi di un puzzle, delle istantanee grazie alle quali Cole è riuscito a costruire una riflessione, un ricordo o anche una piccola storia, dei racconti brevi e poetici insieme. Anche se il progetto ha delle connessioni evidenti con le opere di autori come John Berger, Chris Marker e W. G. Sebald, questo libro è qualcosa di diverso, perché è un lavoro originale e coraggioso che è riuscito a combinare la poetica fotografia di paesaggio dell’autore con la sua prosa, sempre lirica, allusiva e impegnata. Tutta la sua scrittura è fatta di immagini, scattate mentalmente o con una macchina fotografica durante i suoi viaggi e per Cole scrivere significa sempre “collegare le parole con le idee”, perché scrivere – come ha più volte dichiarato e come ci conferma anche durante il nostro incontro – “è un modo di preservare per il futuro”. “In ogni paese in cui ho viaggiato, ho usato la macchina fotografica come un’estensione della memoria”, precisa. “In seguito, ho scoperto che le immagini che avevo catturato erano qualcosa di più che semplici foto turistiche, e al contempo, qualcosa di meno”. Ad affascinarlo è stata sempre “la continuità dei luoghi” e “la linea del canto che li collega tutti”, tanto da essere riuscito a evocare quella linea in forma di saggio lirico che unisce fotografia e testo.

 

“L’esperienza umana varia enormemente nella sua forma esterna, ma a livello emotivo e psicologico abbiamo molte similarità gli uni con gli altri”, scrive nell’introduzione. “Che fossi in un borgo di Vals in Svizzera o in un grattacielo che torreggiava su milioni di persone a San Paolo, il mio pensiero costante era sempre come mantenere quella linea. Il viaggio è per me un privilegio e una responsabilità e in ogni istante sono intensamente consapevole che guardare è vedere solo una frazione di ciò che si osserva. Anche nell’occhio più attento c’è un punto d’ombra – lo spazio che esiste tra un pensiero e l’altro, tra uno scatto e l’altro, tra la parola e l’immagine – e c’è sempre qualcosa che si perde”.

 

Ispirato, come ci confida, dalle fotografie di Henri Cartier-Bresson, dai dipinti del Caravaggio, dai film di Fellini e dalle composizioni di Mozart, Teju Cole ha deciso di trasformarsi in un Odisseo contemporaneo e seguirlo nei suoi molteplici spostamenti e soffermarsi a leggere con attenzione le sue documentazioni quotidiane delle diverse realtà con cui è entrato in contatto, non può che essere un piacere. Nonostante i problemi alla vista, ha deciso di star via per più di un anno da Brooklyn, per fotografare, scrivere e camminare, non per forza in quest’ordine. “Il camminare è un’azione così ordinaria che è facile dimenticare quanto sia difficile. Cosa c’è di più intenso del desiderio di tornare a muoversi con naturalezza quando quella semplice azione viene impedita?”, si chiede. Se in “Città aperta” la migrazione degli uccelli era una suggestione sul “miracolo dell’immigrazione in natura” e se i cartelli che annunciavano la chiusura della catena Tower Records facevano da contraltare alle meditazioni sulla musica amata (Mahler su tutti), in “Punto d’ombra”, l’immagine di un uomo sdraiato fuori da una chiesa, a Lagos, è un’occasione per riflettere sul sonno, che ha tra i suoi effetti “la scomparsa degli occhi”, oltre alla “sensazione di essere trasportati”.

 

Un oggetto banale come può essere un paio di forbici, “è una maschera senza viso”, il paesaggio – presente in ogni forma – “è pieno di segni nascosti”, i miti e le storie greche si respirano in tutto il testo e quando ci parla di città al plurale,“è come se fossero una cosa sola”. “Nei tanti posti che ho visitato, soprattutto nelle grandi città, ho camminato senza sapere se ero un gigante in?un paesaggio in miniatura o un nano circondato da una metropoli colossale e ogni frammento è il suo microcosmo con un cumulo di prodotti luccicanti”. In quella progressione di città che troverete nel libro, la cosa più interessante è trovare le differenze di consistenza meno ovvie, i segni, i marchi, gli insiemi,?le cose che si nascondono pur essendo in piena vista in?ogni paesaggio urbano: il modo in cui cambiano i cartelli stradali e l’illuminazione pubblica, i caratteri tipografici?più comuni, le leggere variazioni nei codici degli edifici, le pubblicità effimere, il modo in cui le pareti sono dipinte,?le evidenti variazioni nella gamma di tonalità che la gente indossa, il colore dell’assenza umana, l’equilibrio tra i prodotti industriali e quelli fatti a mano, i vari livelli di rifinitura e la melodia visiva dell’infrastruttura che interagisce con il terreno. “Tutto questo è ovunque, ma è ovunque leggermente diverso”, tiene a precisarci. “L’epoca dell’essenzialismo è finita. Questa è l’epoca della specificità”, aggiunge, dopo averci ricordato che il tempo – compagno fondamentale nel suo lungo cammino – è per lui come un bambino confuso “capace di collegare ogni cosa, ma con una logica nascosta, indistinguibile dal capriccio”. In ogni sua fotografia, scattata sempre in modo spontaneo, quasi casualmente, ci sono pensieri, scatti momentanei che fissano ed eternizzano: c’è la luce – “assolutamente necessaria” – ma c’è anche l’oscurità – “che non è vuota, ma è un’informazione latente”.

 

Vedere è trafiggere con lo sguardo ed è la selezione delle foto il vero lavoro – ci ripete prima di salutarci Cole, “un non-poeta”, come ama definirsi, perché i veri poeti “sono quelli che sanno organizzare il linguaggio per darci una nostra epifania”.

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