Nicolas Sarkozy e Angela Merkel al vertice di Deauville, in Normandia, nell’ottobre 2010. Mentre la crisi greca si acutizza, tra le due visioni quella tedesca esce di fatto vincente

Lo scontro nella civiltà

Marco Valerio Lo Prete
La flessibilità è un pretesto. L’euro è in crisi per un conflitto culturale irrisolto sull’asse Parigi-Berlino. Lo scisma sommerso da secoli: federalismo tedesco o centralismo francese, regole o discrezionalità, moral hazard o solidarietà.

E’ il momento di smetterla di far finta che gli europei e gli americani abbiano una visione condivisa del mondo, o anche solo che vivano nello stesso pianeta”. Così scriveva nel 2003 Robert Kagan, descrivendo l’occidente diviso nella reazione agli attentati dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti. Gli americani interventisti venivano da Marte, disse allora lo storico statunitense, e gli europei pacifisti invece da Venere. Nemmeno dieci anni dopo, con l’arrivo della Grande recessione, “anche l’Europa ha scoperto di avere al suo interno la propria dose di reciproca incomprensione”. E’ quanto sostengono Markus K. Brunnermeier (economista all’Università di Princeton), Harold James (storico dello stesso ateneo della Ivy League), e Jean-Pierre Landau (economista all’ateneo Sciences Po di Parigi e già vice governatore della Banque de France), in un libro che sta per uscire per Princeton University Press intitolato “The Euro and the Battle of Ideas”.

 

E se è vero che esistono europei che sembrano vivere su un pianeta ed europei che di pianeta ne abitano un altro, ogni schermaglia tra i nostri capi di governo va vista sotto una nuova luce. Anche l’estenuante dibattito post terremoto e pre legge di Stabilità sulla “flessibilità” che Roma intende strappare a Bruxelles, così come la battuta d’arresto del trattato di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti (Ttip), non paiono più questioni di decimali di deficit in più e o di chimica personale tra i leader del continente, ma discendono da più profonde differenze filosofiche tra i paesi fondatori dell’euro, in particolare Francia e Germania. Uno scontro nella civiltà europea sul modo di intendere il mercato e la politica economica.

 

Le bozze del saggio di Brunnermeier, James e Landau sono già passate tra le mani di Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco, che ha fatto sapere di aver “profondamente apprezzato” le tesi con cui gli autori spiegano “gli approcci molto diversi alla politica economica e fiscale in Europa”. Le loro tesi sono fondate su conoscenza diretta di fatti e persone, interviste e confidenze raccolte, accesso ai documenti riservati e sistematizzazione teorica. “Quella che sta al centro del nostro libro è una guerra di idee – scrivono i tre – Si potrebbe essere portati a pensare che ciascun paese combatta esclusivamente per i propri interessi materiali. Una prospettiva così angusta, tuttavia, trascura un aspetto anche più importante: gli interessi sono sempre interpretati attraverso le lenti delle idee, attraverso cioè delle visioni del mondo”. Tali Weltanschauungen confliggenti tra Francia e Germania non nascono oggi, ma la crisi economica più grave che si sia vista dal 1929 le ha fatte riaffiorare.

 


Wolfgang Schäuble con Angela Merkel (foto LaPresse)


 

Finora infatti tra le classi dirigenti del motore franco-tedesco aveva prevalso un atteggiamento che i tre studiosi giudicano “panglossiano”: al punto che in alcune fasi storiche sono state utilizzate le stesse parole per definire concetti differenti e quindi dissimulare – anche a se stessi – le proprie diversità. L’espressione “governance economica”, per esempio, dal punto di osservazione dei tedeschi indica una progressiva convergenza attorno a una cultura della stabilità comune, mentre in Francia è stata storicamente intesa come un insieme di iniziative condivise per dirigere lo sviluppo economico. In maniera simile, la moneta unica è stata interpretata dai tedeschi come una versione avanzata del più antico Accordo europeo di cambio (Sme), costruito attorno alle virtù del Deutschmark, mentre i francesi hanno visto l’euro come una nuova valuta globale e uno strumento per mettere in campo politiche di stimolo keynesiano più efficaci.

 

A quando si può far risalire questo scisma sommerso nel cuore dell’Europa, con l’enfasi su regole, rigore e ferma coerenza da una parte (al nord) e invece il bisogno di flessibilità, adattabilità e innovazione dall’altra (al sud, ça va sans dire)? Quando sono state poste cioè le fondamenta dello scontro tra regole e discrezionalità? I due paesi confinanti hanno condiviso in fondo svariate tradizioni politiche, ed entrambi i loro modelli giuridici sono influenzati dal diritto romano e non dalla common law. Detto ciò, “la spiegazione più semplice della divergenza di pensiero tra Francia e Germania discende dalla cultura politica. Il cameralismo, cioè il modello che nella prima modernità prescriveva una guida burocratica dell’economia, poteva essere una filosofia attraente per uno stato ma richiedeva un qualche grado di direzione centralizzata.

 

La Francia, fra tutti gli stati moderni, assomiglia di più all’idealtipo dello stato unitario centralizzato. (…) Gli storici non a caso hanno letto gli impulsi centralizzatori dello stato francese come una caratteristica di lungo termine e una forma di continuità che colma le grandi distanze che pure ci sono state tra dinastie e ideologie, dai missi dominici di Carlo Magno e dei Merovingi agli intendants di Luigi XIV di Borbone, fino alla struttura dei dipartimenti con i prefetti nominati dal centro dopo la Rivoluzione e Napoleone, per arrivare alla Restaurazione monarchica, alla Repubblica del 1848, al Secondo Impero, alla Terza Repubblica e così via”. Al contrario la Germania moderna ha sempre avuto un impianto simil-federale, con l’eccezione dei dodici anni della dittatura nazista che invece implementò la Gleichschaltung, la politica della centralizzazione. Prima del 1806, i territori in cui si parlava la lingua tedesca erano organizzati in un’associazione abbastanza lasca, il Sacro Romano Impero; dopo il 1815, la Confederazione tedesca era composta di 38 stati; anche l’Impero, che nacque nel 1871 su iniziativa della Prussia di Bismarck, rimase una lega di principati, con i tre maggiori stati del sud – Baden, Baviera e Württemberg – che addirittura mantennero i propri eserciti.

 

“La tradizione tedesca enfatizzava l’idea del Rechtsstaat, lo stato di diritto, o più precisamente la regola delle regole”. Madame de Staël voleva dire ciò quando, nel suo “De l’Allemagne”, contrapponeva l’“abilità nel fuggire i doveri” dei paesi latini alla “onorevole necessità di regole e giustizia” dei tedeschi. Nel mondo degli idealtipi, per ragioni euristiche, si eclissano le contraddizioni che pure non sono mancate nei secoli: nella nota parabola tedesca, il povero contadino risponde “c’è un giudice a Berlino!” al re di Prussia Federico il Grande che vuole espropriarlo del suo mulino; ma il drammaturgo francese François Andrieux aggiungeva sempre, riferendosi all’occupazione della Slesia da parte dello stesso re prussiano, che tra i tedeschi “on respecte un moulin, on vole une province”, cioè si rispetta un mulino ma intanto si ruba una provincia.

 

Comunque è indubbio che il dna federalista della Germania moderna abbia avuto conseguenze sul rapporto tra stato e mercato, spingendo gli stati federati a esigere meccanismi serrati per controllare l’attivismo fiscale dello stato centrale e restringere la creazione di moneta, limitando dunque l’uso di quelle leve di politica economica che potevano generare artificialmente squilibri tra i diversi contraenti del patto federale. Il sistema finanziario non fu immune a questa tendenza: fortemente concentrato quello francese, che addirittura dopo la Seconda guerra mondiale è stato in parte nazionalizzato e i cui investimenti sono stati a lungo coordinati dal Tesoro; più regionalizzato invece quello tedesco, se si fa eccezione per alcune Grossbanken trasferitesi a Francoforte dopo la guerra (Deutsche Bank e Commerzbank). Non solo federalismo: il libro “The Euro and the Battle of Ideas” ripercorre la nascita della contrapposizione tra il tessuto economico diffuso tedesco (Mittelstand) e la culla francese dei campioni nazionali, così come lo sviluppo di relazioni industriali collaborative in Germania e invece avversariali in Francia.

 

Le diverse tradizioni intellettuali in materia di economia hanno fatto il resto nell’allontanare i due paesi alla vigilia della crisi contemporanea dell’euro. Con il paradosso però, opportunamente rilevato dagli autori del libro, che nella parentesi tra la fine del Diciannovesimo secolo e la prima metà del Ventesimo secolo la Francia a livello intellettuale era dominata dal liberalismo economico mentre la Germania era a maggioranza statalista. La filosofia economica del laissez-faire, in quella fase, era degnamente rappresentata da pensatori come Jean-Baptiste Say (1767-1832) e Fréderic Bastiat (1801-1850), i quali reagivano al colbertismo dilagante dai tempi di Luigi XVI. Contemporaneamente gli economisti tedeschi sviluppavano invece il concetto di Staatwissenschaft, nel quale l’autorità pubblica è chiamata a risolvere i problemi connessi all’azione collettiva; e mentre la pratica politica di Bismarck erodeva il principio del Rechtsstaat, pensatori come Friedrich List (m.1846) bollavano il free trade come un cinico meccanismo di sopraffazione nelle mani degli inglesi.

 

Negli anni 30 dello scorso secolo, l’economista francese François Perroux rifletteva così sulla distanza tra le scuole di pensiero dominanti in Francia e Germania: “Il pericolo maggiore è quando due alleati non parlano lo stesso linguaggio e hanno valori morali e intellettuali differenti”. Nello specifico, Perroux sottolineava come la Francia insistesse sulle regole e sui contratti, mentre la Germania prediligesse una visione feudale della buona fede, facendosi “beffe di contratti e firme”. Dopo il 1945, però, tutto cambia: in Francia, al non-interventismo pubblico nell’economia furono addebitate sia la scarsa crescita sia l’arrendevolezza fiscale e morale di fronte all’invasione nazista; in Germania, invece, al nazismo furono associati gli eccessi dell’arbitrarietà di uno stato interventista. Così, nel Dopoguerra, i canoni intellettuali dominanti in campo economico si allineano di nuovo alle correnti politiche profonde: al centralismo e alla predominanza della discrezionalità francese si associano le fortune accademiche dei keynesiani, mentre al federalismo e al dominio della regola tedeschi si lega l’affermazione dei pensatori ordoliberali e affini.

 

Accanto alla faglia già vista – regole vs. discrezionalità – nel Dopoguerra se ne affianca dunque un’altra di ampia portata: responsabilità vs. solidarietà. Per il tedesco Haftungsprinzip, se rompi le regole ne sei responsabile; tutte le entità che sono libere di agire devono anche rispondere delle conseguenze delle loro azioni. Invece l’enfasi franco-meridionale sulla solidarietà, l’impegno a condividere il fardello dei più deboli, è rintracciabile già nel paragrafo 21 della Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen del 1793: “I soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini disgraziati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a quelli che non sono in età di poter lavorare”. Dagli anni 50, dunque, il processo di integrazione comunitaria è riuscito soltanto a celare alcune di queste differenze di principio. L’attenzione dell’establishment intellettuale tedesco è tutta per le fondamenta legali, morali e politiche del mercato basato sulle regole; responsabilità finanziarie dei singoli attori di mercato vanno a braccetto con l’accountability fiscale dei politici di fronte agli elettori; l’azzardo morale generato negli stati da una politica monetaria sregolata è un’ossessione che spinge Berlino a criticare pubblicamente anche uno dei primi salvataggi del Fondo monetario internazionale, quello del 1994-’95 in Messico.

 

Il consensus di governi ed economisti francesi è di tutt’altro tipo: le regole sono per definizione soggette al processo politico e quindi a una eventuale rinegoziazione; la gestione di una crisi richiede risposte flessibili; limitare la possibilità di un governo di agire (e quindi di indebitarsi) sarebbe non democratico; la politica monetaria deve essere al servizio di obiettivi più grandi della sola stabilità dei prezzi, come la crescita economica. Questo scisma del pensiero economico nel cuore dell’Europa, a un tratto, da sommerso è diventato tuttavia conclamato. C’entrano la crisi dell’economia greca nel 2009, i conti pubblici truccati alle spalle di Berlino e di tutti noi, le regole fin lì stabilite che paiono all’improvviso scritte sulla sabbia, la fiducia reciproca tra stati che s’incrina, e più prosaicamente una grave recessione in un piccolo paese il cui pil pesa il 2 per cento di quello di tutta l’Eurozona e che però i grandi leader europei non riescono ad arginare. La tregua filosofica tra Kant (cioè la Germania) e Machiavelli (la Francia e il fronte meridionale) – scrivono gli autori del saggio – finisce ufficialmente nel 2010. Mentre la crisi greca si acutizza, le due visioni entrano in collisione e quella tedesca ne esce di fatto vincente.

 

All’Ecofin del 16 marzo di quell’anno, il governo tedesco sfida a sorpresa le posizioni di Parigi e della Banca centrale europea (Bce) aprendo a un sostegno del Fondo monetario internazionale nel salvataggio di Atene, al fianco della Commissione e della Bce: una decisione maturata nel più stretto entourage della Merkel, in cui allora c’era anche il futuro governatore della Bundesbank Jens Weidmann, e dettata dalla sfiducia verso l’eccessivo permessivismo delle istituzioni comunitarie. Il 18 ottobre dello stesso anno, al vertice di Deauville in Normandia, il presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, strappa alla cancelliera  Merkel un lieve annacquamento del potere della Commissione Ue di perseguire i paesi membri che fanno troppo deficit e in cambio acconsente a infliggere perdite ai creditori privati al momento dell’haircut del debito pubblico greco. L’allora presidente della Bce, il francese Jean-Claude Trichet, in un colloquio privato disse ai due leader: “Così distruggerete l’euro”.

 

Le conseguenze economiche di quella scelta sono ancora dibattute. Non tutti condividono la tesi che sia partito da lì il contagio speculativo sui debiti pubblici di Spagna e Italia, fatto sta che il famigerato spread con i Bund prese a salire e ciò collimava con la visione tedesca delle regole e della responsabilità: i mercati  devono assicurare un minimo di disciplina ex ante per evitare eccessi fiscali. Nel 2010 si assistette dunque, secondo Brunnermeier e colleghi, a una duplice traslazione di potere: prima dalle istituzioni comunitarie all’asse intergovernativo Parigi-Berlino, e poi – all’interno di questo asse – uno spostamento verso Berlino. Parigi infatti, complice un declino relativo della sua economia rispetto a quella tedesca, aveva nel frattempo perso peso politico all’interno del motore dell’integrazione.

 

“La sola istituzione europea che ha guadagnato una certa influenza attraverso l’eurocrisi, in maniera lenta ma significativa, è stata la Banca centrale europea”, scrivono gli autori, tra i quali – vale la pena sottolinearlo – c’è quell’Harold James che per primo, scrivendo il suo “Making the European Monetary Union”, ha avuto accesso agli archivi degli anni 80 dell’Eurotower. La Bce è diventata in qualche modo una stanza di compensazione, creativa, delle tensioni connaturate ai rapporti tra Berlino e Parigi. Ciò è in parte dovuto alla composizione interna della Banca: la maggioranza dei paesi che vi è rappresentata è vicina all’approccio francese della gestione flessibile delle crisi e non a quello tedesco dell’azzardo morale da limitare a suon di regole, al punto che la Bundesbank è finita in minoranza in alcuni casi.

 

Dopodiché, la scelta di fissare alcune condizionalità di politica economica in cambio dell’acquisto di titoli pubblici dei paesi membri (di cui sono stati autori sia Trichet sia il successore italiano Mario Draghi), insieme al lancio nel luglio 2012 della formula “whatever it takes” con annesso scudo anti spread o Omt (Draghi) e infine all’impulso a creare un’Unione bancaria (Draghi, sempre a partire dal 2012), hanno avuto un effetto trasformativo sul ruolo della Banca centrale europea. Il suo compito è diventato quello di stabilizzare l’economia andando oltre il mero controllo dei prezzi. “Temperando” l’idea tedesca che “le riforme nascano soltanto da circostanze inclementi” in cui si possono trovare i paesi di volta in volta. Per gli autori si è trattato di “un compromesso necessario” con la visione teutonica uscita vincente da Deauville. E non sarà l’ultimo compromesso necessario, se l’euro non vorrà diventare la vittima collaterale di uno scontro interno alla civiltà europea.

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