Delegati alla Conferenza di Bandung che si svolse dal 18 al 24 aprile 1955 (foto Getty)

Stati particolari

Angiolo Bandinelli
Modernità, tradizione e identità collettiva: oggi solo piccole dispute localistiche. Negli anni 50 lo scontro che definì il terzomondismo. Un vivace saggio di Maurizio Bettini (“Radici”, il Mulino, 2016) analizza con ricchezza di argomentazioni – alleggerite peraltro da un pizzico di ironia – la questione del rapporto fra “tradizione e identità”.

Un vivace saggio di Maurizio Bettini (“Radici”, il Mulino, 2016) analizza con ricchezza di argomentazioni – alleggerite peraltro da un pizzico di ironia – la questione del rapporto fra “tradizione e identità”. “L’associazione tra i due temi – sostiene l’autore – ricorre sempre più frequentemente nel nostro dibattito culturale/politico, quasi che l’identità collettiva – l’identità di un certo gruppo – dovesse essere concepita come qualcosa che deriva direttamente e unicamente dalla tradizione… L’identità si fonda sulla tradizione”. Bettini discute l’assunto partendo dalla fin troppo abusata immagine delle “radici”, e ne trae conclusioni articolate e convincenti, anche se non sempre condivisibili. Meritano senz’altro un dibattito ad hoc.

 

Quello che vorrei in questa sede subito contestare, o contenere, è l’affermazione iniziale di Bettini secondo la quale il tema, o l’intreccio dei temi, ricorre “sempre più frequentemente” nei nostri dibattiti. Di sicuro se ne dibatte, e anche molto, ma a me pare che gli esempi e gli argomenti che oggi vanno per la maggiore riguardino episodi poco rappresentativi, poco più che frattaglie, infiammazioni localistiche non molto significative e pochissimo incisive sulle vicende e le aspettative del mondo globale, se si esclude il tema dell’islam (anch’esso un fenomeno identitario fondato sulla tradizione) che un discorso a parte lo richiede certamente.

 

C’è stato un momento, invece, in cui l’avvento sul palcoscenico mondiale della “tradizione” e dell’“identità” fu davvero prepotente e assunse un ruolo centrale, scuotendo convizioni, valori e omportamenti a livelli impensati. Il dibattito, anzi lo scontro, tra “occidentalizzazione, “modernità”, “normalizzazione”, “omologazione” da una parte e “tradizione”, “diversità”, “reviviscenza del passato” dall’altra, si apriva a dimensioni mondiali. Fu con l’affacciarsi sulla scena di quella tendenza culturale/politica che si definì “terzomondismo” ed ebbe il suo momento forte con la Conferenza di Bandung, un convegno internazionale organizzato da Indonesia, Birmania, Pakistan, Ceylon (Sri Lanka), cui parteciparono 29 paesi che avevano di fresco raggiunto l’indipendenza liberandosi, in vari modi, dal giogo del colonialismo. La Conferenza si svolse dal 18 al 24 aprile 1955 in Indonesia, a Bandung. I paesi partecipanti coprivano circa un quarto della superficie terrestre, con una popolazione totale di – più o meno – un miliardo e mezzo, forse un terzo dell’intera popolazione di allora del globo. Obiettivo della grande e inedita assemblea fu di promuovere e privilegiare la cooperazione economica e culturale tra quei paesi, e di opporsi a ogni ulteriore forma di colonialismo o di neocolonialismo (il termine venne coniato in quel torno di tempo). La conferenza fu un momento importante della costituzione del Movimento dei paesi non allineati, vale a dire svincolati da ogni forma di appoggio o compromesso con l’una o l’altra delle due Grandi potenze, gli Stati Uniti e l’Unione sovietica, che allora controllavano gli equilibri geopolitici globali gestendo e promuovendo la “modernità” lungo parametri adeguati al loro livello di sviluppo complessivo.

 

Si noti l’accento posto a Bandung sul tema della cooperazione “culturale”. Bandung si proponeva infatti la rivendicazione delle diversità culturali dei paesi coinvolti, dinanzi al rischio di una occidentalizzazione mortificante e – ovviamente – livellatrice. All’epoca era usuale vedere, negli scali aerei di mezzo mondo, gruppi di delegati, funzionari, uomini d’affari e turisti povenienti dai paesi del “Terzo mondo”, appunto, avvolti nei costumi caratteristici dei loro paesi, la djellaba araba e mediorientale, i colorati paludamenti delle nigeriane, il sari indiano o il turbante dei sikh, lo sciamma o la futa eritrei, ecc. Era l’aperta, orgogliosa rivendicazione di una storia civile “indigena”, di una specificità culturale ed etica salvatasi dalla triturazione coloniale e pronta finalmente a dire la sua, in forme originali, nelle vicende internazionali. Il movimento terzomondista prese largamente piede anche in Europa e in Italia. L’idea di porsi come “terzi”, equidistanti di fronte al duopolio Usa/Urss esercitò un largo e forte fascino: la cifra politica – l’appello promosso da quei terzomondisti – fu il “neutralismo”. Il neutralismo si opponeva in primo luogo all’“atlantismo” sotto il quale si raccoglievano i liberali, i moderati e comunque i non filo-comunisti e filo-Urss. Le forze politiche si divisero lungo questa linea di frattura, e fu necessaria una forte consapevolezza e durezza di intenti per evitare che il movimento diventasse maggioritario e arrivasse alla guida del paese. Occorre ricordare che il movimento puntava sulle sinistre ma anche su una forte e vivace minoranza cattolica, mentre tennero duro i cattolici più responsabili; giocarono un ruolo di resistenza importante forze minoritarie ma culturalmente forti, cioè le aree laiche di stampo liberale: nel fondo, i “terzomondisti” erano una diversa, ma omologa, espressione dell’antiamericanismo (e antioccidentalismo) che connotava le sinistre. Ovviamente Mosca aveva interesse a che i legami e i rapporti dei paesi occidentali con Washington fossero quanto più labili possibile, e appoggiò le forze che sostenevano il neutralismo.

 

Sono passati pochissimi decenni, e le scenografie terzomondiste sono scomparse dagli aeroporti, tranne che per piccole isole etniche, o per momenti di particolare solennità e significato ufficiale (per i quali noi abbiamo i carabinieri, con elmo e corazza…). Le nuove generazioni, le le nuove classi dirigenti di quei paesi che avevano partecipato a Bandung hanno recepito le mode occidentali e tengono a farsi vedere in T-shirt o con cravatte italiane. L’assorbimento del sistema occidentale fin nelle più intime fibre non è stata una imposizione neocolonialista, ma scelta libera, desiderata e irrevocabile. Lo “scontro” di culture si è dissolto.

 

Il terzomondismo di quegli anni lontani si legava facilmente, e politicamente in modo forte, con il nostro meridionalismo – o un certo nostro meridionalismo. Il meridionalismo assurto a vera e propria ideologia marcò a lungo la politica italiana: il Partito comunista, parte della Democrzia cristiana (quella di “sinistra”) e di un mondo cattolico che oggi definiremmo “fondamentalista” si opposero con vigore a una concezione culturale che, invece, privilegiava il confronto e il dialogo con l’Europa e le sue culture laico-liberali. Ricordo (perché vi collaborai) la napoletana (e, ovviamente, crociana) rivista di Chinchino Compagna, Nord e Sud, baluardo dell’europeismo; ma anche – sul fronte opposto – Cronache meridionali, nata per la spinta di figure come Giorgio Amendola, Francesco De Martino, Mario Alicata, Giorgio Napolitano e Rosario Villari (c’era anche una rivista cattolica che tentava di proporre una sua linea, non ne ricordo il nome).

 

Cronache Meridionali evocava le tesi arcaizzanti di Carlo Levi e del suo “Cristo si è fermato ad Eboli”, con la loro rappresentazione idilliaca di un mondo “subalterno” ricco di valori profondi – quelli che Ernesto De Martico riscavava nelle sue bellissime ricerche antropologiche ed etnografiche e che erano cantati da Rocco Scotellaro, il “poeta contadino”, nel suo ”L’Uva puttanella, contadini del Sud” o dal poeta risuscitatore di un oscuro, semiscomparso dialetto, Albino Pierro – “Natèe a Tursë”: “Strùffüe e crespellë / nd’u piatte cch’i rusette”, / dìcene n’ata vòte: / ‘Iè Natèë’…” – che, al di là del giusto riconoscimento ai suoi versi, sfiorò, per la fama europea guadagnatasi, il Nobel per la letteratura. La “cultura” del dialetto come contrapposizione – persino “avanguardistica” – alla lingua spenta e amorfa della “borghesia” era al centro dell’attenzione degli intellettuali di sinistra e progressisti, e a lungo fu incerto quale dei due partiti avrebbe vinto. Alla rivendicazione della “tradizione” arcaica e contadina contribuì non poco (e, anzi la nutrì) la tesi dei difensori del “Risorgimento tradito”; tradito da quei borghesi che, cedendo alle tesi capitalistiche, avrebbero respinto la grande idea della rivoluzione agraria come fondamento della iniziativa e del moto risorgimentale. Ispiratori ideali delle due opposte concezioni erano Antonio Gramsci e Benedetto Croce. A confutare quel gramscismo fu sufficiente un piccolo libro di Rosario Romeo, “Risorgimento e capitalismo” (1959), denso di cifre e dati che ribadivano la logicità e la modernità (anche in chiave europea) della scelta dei borghesi risorgimentali, di ricorrere anche alla dolorosa pressione di un fisco particolarmente oppressivo sulle classi povere per cercare di avviare quella capitalizzazione, quella “accumulazione primaria” che consentisse di raggranellare un plus di capitale da investire sulla unità e la modernizzazione del paese.

 

Queste concezioni – oggi dismesse e dimenticate ma comunque forti, complesse – del “tradizionalismo” hanno un precedente storico/teorico essenziale, che vorrei identificare con il nome di Edmund Burke (12 gennaio 1729 – 9 luglio 1797). Nativo d’Irlanda (Dublino) Burke fu scrittore, politico e statista, saggista e filosofo. Fu membro del Parlamento inglese per molti anni, militando nel partito Whig. Appoggiò fermamente la causa della Rivoluzione americana, fu favorevole alla emancipazione dei cattolici ma si oppose alle svolte liberticide della Rivoluzione francese, diventando il leader della frazione conservatrice del suo partito, da lui soprannominata “Old Whigs” in contrapposizione all’ala filofrancese dei “New Whigs”, guidata da Charles James Fox. L’essenza della sua filosofia politica è in queste poche parole: “La Rivoluzione [si riferisce alla Rivoluzione inglese del 1688] fu fatta per preservare le nostre antiche, saldissime leggi e libertà, e quella antica istituzione di governo che è la nostra unica sicurezza per quel che concerne legge e libertà. La sola idea di mettere in piedi un nuovo governo è sufficiente per riempirci di disgusto e orrore. Noi guardiamo con desiderio al periodo della [nostra] rivoluzione, e ora desideriamo di poter far discendere tutto quello che possediamo come eredità ricevuta di nostri antichi. Abbiamo posto ogni cura per non iniettare alcun innesto alieno rispetto alla natura della pianta originaria. La nostra più vecchia Riforma è la Magna Charta (…), ‘pedigree’ delle nostre libertà. Quel documento null’altro è se non la riaffermazione dell’ancora più antica legge in atto (…), la famosa legge indicata come la ‘Petition of Right’: il Parlamento dice al Re: ‘Your subjects have inherited this freedom’, rivendicando le loro franchigie (diritti) non su astratti principi tipo ‘i diritti dell’uomo’ ma come ‘i diritti degli inglesi’, come un patrimonio ricevuto dai loro avi (‘forefathers’)”.

 

A questi livelli, la rivendicazione della “tradizione” ha un senso valido, significativo, persino – per chi lo apprezzi e voglia farne una bandiera – alternativo: ben diversamente da quanto vediamo accadere ai nostri giorni, con il confuso accavallarsi di rivolte che raggiungono il diametro sì e no di una regione e appaiono, con tutta evidenza, soprattutto segni di una profonda insofferenza verso élites logore e “caste” inaccettabili. Che è altro, e andrebbe discusso seriamente, perché è forse la questione centrale del nostro tempo, non solo in Italia.