Le perle del potere
Conoscete il detto: un tubino nero e un filo di perle e si è sempre a posto. Lo elencano i decaloghi per principianti dell’eleganza che trovate sul web, lo spiegano tutti i manuali sullo stile e l’eleganza. Anni fa ne ho scritto uno pure io e la buttavo sul vintage perché la lettrice ottimizzasse il contenuto dell’armadio senza spendere, certa che vi avrebbe trovato vestitino e girocollo in questione. Delle sicurezze mondane che un filo di perle regala ci ha sempre detto la mamma; di quella ultraterrena abbiamo avuto milioni di conferme osservando paramenti sacri e le statue votive che da qualche anno pure i registi italiani (Piero Messina lo scorso anno, Giuseppe Piccioni adesso), ritengono indispensabile infilare nei propri film anche se c’entrano niente, forse a imitazione di Paolo Sorrentino che a sua volta cita Fellini. Fino alla scorsa generazione, noi perle di ragazze abbiamo ricevuto il primo filo per i diciotto anni dal babbo, ed è stato il segnale che nella nostra vita ne avremmo ricevuti altri in occasioni correlate alla nostre virtù muliebri, tipo nascita dei figli o sopportazione di dolori coniugali (contestualmente, spesso, ci è stata raccontata la storia dei fili risarcitori che ornavano il collo della regina Margherita di Savoia).
In questi giorni a Venezia abbiamo visto perle anche addosso a Natalie Portman, una Jacqueline Kennedy da Leone, da Oscar e da tutti i premi che otterrà da ora in poi, a dimostrazione che la Mostra del Cinema firmata Alberto Barbera porta fortuna. La semiologia della collana di perle è piuttosto complessa, per cui lasciate perdere che il gioiello della scena madre di “Jackie” fosse un raffinato e costosissimo sautoir con pendente a ciuffo, un classico dello stile noblesse primi anni Sessanta, mentre in queste righe si andrà a dibattere del giro semplice ma tenacemente agganciato al collo di Paola Muraro, l’assessora del Comune di Roma indagata per reati ambientali, oltre che del doppio filo borghese di media lunghezza indossato dalla sindaca Virginia Raggi, sicuramente un prestito di mammà perché mi rifiuto di credere che una trentenne compri monili da matrona del Fayyum. Il punto è il valore intrinseco ma soprattutto immaginifico della perla, e dunque la nostra predisposizione a fidarci di chiunque ne indossi anche solo una.
Prendete il doppio filo della Raggi. La prima volta lo indossò per il dibattito in cui rese noto agli italiani di avere la cellulite “come tutte”, informazione non richiesta e per di più irritante per le migliaia di donne che evitano la pizza al taglio alla scrivania alle dieci di sera e che vanno in palestra alle sei del mattino evitando di ammorbare i conoscenti con la lagna che “c’hanno altro da ‘ffa”, riuscendo dunque a mantenersi toniche. La Raggi però si mise a giocare col doppio filo, lì sul palco, e fece centro. Le perle hanno a propria disposizione un arsenale simbolico e un potere taumaturgico che i diamanti migliori amici delle ragazze si sognano, tanto che nel computo generale di quell’asset intangibile che si chiama immagine di marca, il trinomio tubino nero-perle-cellulite sfoggiato dalla Raggi al primo accavallamento di cosce era indubbiamente vincente; forte al punto di inscriversi come la seconda fra le azioni più rassicuranti compiute dopo la visita del figlioletto a Montecitorio, capolavoro della retorica del piezz’e core e di cui il filo di perle è, non a caso, parte integrante. Haec ornamenta mea, avete presente il genere: il vero ornamento della mia bellezza siete voi, miei cari elettori, a dir le mie virtù basta un sorriso e un modesto filo di perle.
Le perle sono infatti il monile delle donne di cui ci fidiamo fin dall’infanzia, maestra elementare inclusa, prof di matematica del liceo esclusa e che infatti sfido a vedere ornata di qualcosa di diverso da un gioiello in argento o, secondo possibilità, oro bianco di design. Al prossimo colloquio, date un’occhiata a che cosa indossa la docente di vostro figlio e vedrete se non ho ragione. Le gilde e le confraternite sono scomparse da secoli, l’ingresso delle donne ne ha scardinato i codici, ma i segni di appartenenza si leggono ancora fra le pieghe delle giacche e la lunghezza dei colletti, e le perle sono patrimonio delle prof di lettere, dispensatrici di storie, di belle espressioni, e delle metafore grazie alle quali arricchiamo il nostro bagaglio metaforico sulla perla.
Denti come perle da cui sgorgano perle di saggezza, splendore e candore: tutti argomenti sui quali la metafora lirica si esercita da millenni, ma che anche gli italiani ignari del “Cantico dei Cantici” e della Laura di Francesco Petrarca conoscono per averli visti riassunti in un’immagine cara alle ultime tre generazioni: la casalinga del doppio brodo Star. Quella donnina elegante che assaggia il consommé è inscritta nel nostro Dna insieme con tutto il glutammato che abbiamo sorbito prima di scoprire quanto facesse male: chiunque potrebbe descriverla meglio di me, dalle punte dei capelli all’insù fino al filo di perle alto sul collo, sullo stesso modello della collana indossata dalla Barbie quando ancora si chiamava Millicent Rogers come la famosa icona di stile americana e della Cenerentola di Walt Disney, anche lei con collana di perle infilate dai topolini. I sogni son desideri e “Ogni perla è una stella avvolta nei sogni”, come cantava Glenn Miller. Della “donnina del brodo”, denominazione aziendale, il grafico Gino Pesavento che l’aveva disegnata negli anni del piano Marshall ritoccava appena appena, ogni stagione, i tratti e la pettinatura. Un anno con i capelli più corti, un anno con gli occhi e la chioma leggermente più dorata, un anno con le labbra più sottili. Come nei quesiti della Settimana enigmistica, per capirne le trasformazioni bisogna guardare i disegni in fila, altrimenti è impossibile cogliere le differenze fra un packaging e l’altro. In apparenza cambia nulla; in realtà, l’unico elemento fisso sono le rassicuranti perle. La donnina del brodo doveva infatti assomigliare al modello di successo femminile dell’epoca: la casalinga borghese che, se pure non spolverava e non faceva il bucato perché “ci aveva la servitù fra cui il Girolamo che ha smesso” come l’Adalgisa del Gadda, sorvegliava con attenzione la propria casa e i pasti serviti ai componenti della famiglia, da cui l’assaggio pubblico del brodo di dado, un surrogato spacciato per segno di benessere in tempi ancora avari di bistecche a prezzi popolari.
Con quel collier che il lessico tuttora in voga definirebbe “semplice ma raffinato”, e un mantello di visone pagato dal marito cash, certamente non vinto con il concorso delle calze Omsa (“La donna chic se vuole in tutti provocare uno choc, un’arma dura ed infallibile avrà e l’arma eccola qua, madames voilà”), la casalinga borghese della Star suggeriva alla massaia dei quartieri popolari che il brodo di dado era un piatto da ricchi, da servire con orgoglio, incuranti delle proteste di mariti e figli che al posto di quell’imitazione del consommé, chiaro e salato, avrebbero preferito un bel brodo sostanzioso di coda di bue, con le bolle di grasso affioranti in superficie. Qualche anno dopo sarebbero arrivati i Caroselli e la donnina del brodo Star, trascurata dal marito, avrebbe sostituito le perle con una serie di dozzinali completini di raso e il piumino da spolvero dell’immaginario erotico più scontato. Un errore grossolano, se si considera che perfino le puttane honeste della Serenissima si facevano ritrarre con il vezzo di perle al collo, segno di castità dello spirito se non proprio nei modi, e che una delle “grandi orizzontali” più famose, Esther Lachmann, sposa d’un giorno del marchese de Paiva di cui ambiva sfoggiare il titolo, era nota per l’abilità nel farsi regalare le perle più costose, oltre che per lo splendido hotel particulier costruito sugli Champs Elysées nello stesso punto in cui un amante l’aveva sbarcata brutalmente dalla carrozza negli anni d’esordio e che dal 1980 è classificato monumento storico, caso unico di sigillo culturale applicato alla residenza di una cortigiana e nel quale, datemi retta, anche quella cascata di perle c’entra qualcosa.
Le perle suggeriscono purezza sia quando devono regalare l’aura della verginità a donne rotte ad ogni intrigo, vedi Elisabetta I di Inghilterra, tremila sterline spese in una sola collana che è poi quella a doppia ansa dipinta in tutti i ritratti ufficiali, sia quando devono smorzare caratteri eccessivamente volitivi, pensate a Margareth Thatcher a cui lo misero addosso a forza per controbilanciare l’effetto dell’acconciatura rigida, solida e compatta da guerriera. Le perle funzionano infatti e tuttora anche sugli uomini: un tempo dondolavano dal lobo destro di sir Francis Drake, oggi compaiono sui gemelli senza suscitare la stessa diffidenza che farebbero dei diamanti, segno di ricchezza troppo sfacciata. La perla è discreta anche quando vale milioni di dollari, quest’estate avrete letto la storia del pescatore filippino che ne aveva pescata una da trentaquattro chili dieci anni fa e per tutto questo tempo se l’è tenuta sotto il letto come porte bonheur. Fosse stato un corallo o un rubino, sarebbe corso a capitalizzare. Giambattista Valli, stilista di riferimento delle jeunes filles en fleur mondiali, non toglie mai la collana di grosse perle naturali che porta al collo, feticcio degli esordi; Pete Doherty ne indossa una lunga da infante della ritrattistica Velázquez, benché nessuno vi faccia più caso da quando Kate Moss ha mollato la presa.
Il lessico del filo di perle è fatto di sfumature, e quello che funziona meglio è ancora lo stile da prof di lettere della Muraro, panoplia invincibile se abbinata alla messimpiega casalinga e alla giacca senza revers, a sacchetto, che da qualche mese indossa anche Hillary Clinton. Un filo unico onesto e senza pretese; esclusi dunque i collier de chien fine Ottocento prediletti dalla marchesa Casati, che il gusto attuale definirebbe troppo fetish, o le rivière da regina di Inghilterra e non c’è bisogno di spiegare il perché. Dunque, perle non troppo piccole da essere invisibili o da richiedere montature costosissime per ben figurare, e non così imponenti da ingenerare sospetti di falsità, dell’oggetto e per proprietà transitiva del suo possessore, benché dai fili falsi di Coco Chanel in poi alla perla basti il simulacro per produrre ottimi risultati. Siamo talmente avvezzi al suo lessico da accontentarci dell’idea. Quasi sempre almeno. Noi milanesi che, a differenza della romanità sgargiante, a perlucce borghesi e mezzi tacchi siamo cresciute, delle ragazze che sfoggiano il filo di perle nel 2016 ci fidiamo pochissimo. Lo ammiriamo con affetto sulle nostre nonne, ma già ci stupiremmo di vederlo addosso alle nostre mamme, che ormai dai Settanta “dei rapimenti” e senza essersi mai davvero riprese, lasciano i gioielli di famiglia nelle cassette di sicurezza e sfoggiano bigiotteria, meglio se etnica. Sulle giovani, il filo è talmente inadatto che sospettiamo secondi fini, diciamo il tentativo di darcela a bere, anche perché nessuno che abbia una minima conoscenza delle perle le indosserebbe mai d’estate, quando si rischia di intaccarne lo splendore per via dell’azione combinata delle creme di protezione e del sudore e la sera ci si vede costrette a metterle a bagno in una soluzione salina. Per questo, le perle in piazza sotto il sole della Raggi ci hanno insospettite: mi sorge il dubbio che non siano nemmeno un prestito della mamma, ma il suggerimento uno di quei volonterosi stylist di moda di cui la capitale è affollata. Per le prossime volte, alla Raggi mi sentirei di consigliare un costumista del cinema. A Roma ve ne sono molti, sono colti e raffinati, vestono non solo le attrici ma anche imprenditrici e grand commis. Talvolta, vincono pure l’Oscar.
Il Foglio sportivo - in corpore sano