Globale e poco europeo, così il cristianesimo sopravvivrà
E’ tutta questione di ripensare la presenza, trovare nuove forme, lavorare d’ingegno. Benedetto XVI l’ha ribadito al suo biografo Peter Seewald, quando ha rapidamente risposto circa la scristianizzazione dell’Europa nelle “Ultime Conversazioni” (Garzanti e Corriere della Sera), il suo testamento spirituale. E’ un’evidenza, ma forse più che passare in rassegna l’elenco delle chiese vuote e chiuse e dismesse, magari convertite in mercati ortofrutticoli o saloni da ballo con ottimo parquet – tutte cose che ormai conosciamo a memoria – sarebbe utile capire che il problema è la fede, assopita e distratta. Ripartire insomma da qui, dalla questione centrale e fondamentale dell’essere cristiano. Testimoniare cioè in modi diversi, il che non significa che essi debbano essere trasgressivi. Anche perché la storia secondo cui il cattolicesimo ( o addirittura il cristianesimo) è in agonia, destinato a morte certa, è in realtà una boutade buona per titoloni di giornale e discussioni di qualche circolo luterano cinquecentesco.
Philip Jenkins, tra i massimi esperti di storia e scienze delle religioni, l’ha scritto di recente sul Catholic Herald. Ma quale fine, quale estinzione. Sì certo, le folle tra i banchi lignei delle chiese (dove ci sono ancora, non sostituiti da tristi seggiole) sono rare, le processioni hanno seguito altalenante, ma tutto questo è relativo all’Europa. Qui sta il problema, nella tesi di Jenkins: pensare il cattolicesimo come a qualcosa di meramente europeo, legato alla teoria delle sue immense e antiche cattedrali, ai riti d’un tempo che fu, al catechismo somministrato in dosi massicce a bambini di cinque-sei-sette anni ogni santa mattina dopo la messa e prima di andare a scuola. Che poi quei bambini, il più delle volte, sono quelli che oggi – slegati dai doveri imposti – sono i primi che in chiesa non ci mettono più piede e non ci portano i figli. Qualche anno fa, nel 2011, l’American physical society aveva pubblicato un corposo e dettagliato dossier che si concludeva con la sentenza inappellabile: il mondo avrebbe fatto a meno delle religioni (di tutte, compreso l’islam oggi immerso nella fratricida lotta tra sunniti e sciiti per la supremazia sulla umma) entro il 2100 e in cima alla lista dei paesi pronti ad abbandonare ciò in cui per secoli avevano creduto svettavano l’Austria e l’Irlanda. Cioè due delle realtà che più hanno dato alla causa cattolica, benché oggi anche lì si soffra e non solo per scandali sessuali e finanziari – per quanto concerne l’Austria, è sufficiente rileggere il discorso disperato che il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, fece tre anni fa al clero milanese, raccontando di una situazione che costringe la diocesi a vendere al miglior offerente le chiese (quando va bene, agli ortodossi), vuote e finanziaramente insostenibili. “Cosa posso fare?”, si domandava il cardinale, descrivendo una situazione a suo dire irrimediabilmente compromessa.
Lo studio applicava complicati modelli matematici che portavano tutti alla stessa conclusione: “In gran parte delle moderne democrazie secolari, c’è una tendenza secondo cui il popolo si identifica con nessuna religione. In Olanda siamo al quaranta per cento, mentre il livello più alto si è registrato in Repubblica Ceca, con il sessanta per cento di coloro che si dichiarano non affiliati ad alcuna religione”. Da qui a profetizzare come Cassandre la fine della religione entro una manciata di decenni, però, ce ne passa, anche perché la fede individuale è ancora una delle poche cose che sfugge alla classificazione in database o formule Excel. Insomma, che a Praga non ci siano più cattolici può dispiacere a chi s’emoziona nell’udire il suono delle campane medievali, ma non può in alcun modo segnare il destino d’una religione.
Jenkins non parte da pregiudizi, lui stesso ha scritto un libro (“La storia perduta del cristianesimo”, Emi) per dire che “le religioni muoiono” e che “nel corso della storia, alcune religioni svaniscono del tutto, altre si riducono da grandi religioni mondiali a una manciata di seguaci”. Insomma, non sarebbe una novità. Ma stavolta la prognosi infausta non ha ragione d’essere. Perché la chiesa cattolica, che “è già la più grande istituzione religiosa del pianeta”, sta godendo di una crescita globale senza precedenti. I numeri: nel 1950, la popolazione cattolica ammontava a 347 milioni individui. Vent’anni dopo, erano 640 milioni. Nel 2050, secondo stime per difetto, saranno 1,6 miliardi. E allora? Anche qui, si tratta di ampliare gli orizzonti e guardare al di fuori del contesto meramente occidentale. “Ho parlato di crescita globale, e l’elemento ‘globale’ richiede enfasi”, scrive infatti Jenkins. “La chiesa ha la pretesa di avere inventato la globalizzazione, il che spiega perché i suoi numeri sono in piena espansione. Nel corso della storia ci sono stati tanti cosiddetti ‘imperi mondiali’, che in realtà erano confinati principalmente all’Eurasia. Solo nel Sedicesimo secolo gli imperi spagnolo e portoghese hanno abbracciato davvero il mondo. Per me – scrive lo studioso, docente emerito alla Penn State University – la vera globalizzazione è iniziata nel 1578, quando la chiesa cattolica ha stabilito la sua diocesi a Manila, nelle Filippine – come sede suffraganea di Città del Messico, dall’altra parte dell’immenso Oceano Pacifico”.
Il fatto è che “oggi siamo abituati a pensare al cristianesimo come a una fede tradizionalmente ambientata in Europa e nel Nord America, e solo gradualmente apprendiamo lo strano concetto che quella religione si propaga su scala globale, poiché il numero dei cristiani sta aumentando velocemente in Africa, in Asia e in America latina”, scrive Jenkins. “Il cristianesimo – proseguiva – è talmente radicato nel patrimonio culturale dell’occidente da far sembrare quasi rivoluzionaria una simile globalizzazione, con tutte le influenze che essa può esercitare sulla teologia, l’arte e la liturgia. Una fede associata principalmente con l’Europa deve in qualche modo adattarsi a questo mondo più vasto, ridimensionando molte delle proprie premesse, legate alla cultura europea”. Il discorso, allargato al cristianesimo vale a maggior ragione per il cattolicesimo.
Dinanzi a tutto ciò, è naturale domandarsi se “questo nuovo cristianesimo globale o mondiale rimarrà pienamente autentico, come se le norme europee rappresentassero una sorta di gold standard”. Interrogativi legittimi ma senza senso, “quando ci si rende conto di quanto sia artificiosa l’accentuazione del carattere euroamericano nel contesto più ampio della storia cristiana”.
Anche perché oggi i grandi serbatoi del cattolicesimo sono altrove: Brasile, Messico, Filippine. In quest’ultimo caso, i cattolici sono destinati a crescere fino a toccare quota cento milioni entro il 2050.
Qui, nell’ultimo anno, ci sono stati più battesimi che in Francia, Spagna, Italia e Polonia messe assieme. L’obiezione è facile: le tendenze demografiche spiegano le ragioni della crescita massiccia. Dove nascono più figli, crescono più cattolici, se il sostrato (benché coperto da cumuli secolarizzanti e laicisti) è presente. Dove ciò non accade, il cattolicesimo rinsecchisce. Non proprio, osserva Jenkins: basta andare in Africa per capire che le cose non stanno così. Nel 1900, nell’immenso continente africano vivevano forse dieci millioni di cristiani (inclusi i cattolici, stimati in un paio di milioni), che costituivano il dieci per cento dell’intera popolazione. Oggi, di cristiani lì ce ne sono mezzo miliardo (200 milioni i cattolici) e raddoppieranno nel prossimo quarto di secolo. E l’Africa non rappresenta di certo la culla del cattolicesimo, se si eccettua la lontanissima radice nordafricana poi recisa brutalmente da invasioni, occupazioni e islamizzazione più o meno forzata.
Eppure, la sola Africa, se la tendenza sarà costante, aggiunge lo studioso, nel 2040 avrà più cattolici di quanti ve ne fossero in tutto il mondo solo nel 1950. Dieci anni prima, più o meno nel 2030, i cattolici in Africa supereranno quelli residenti in Europa: sarà, dice Jenkins, “una pietra miliare nella storia”. Poco dopo, l’Africa contenderà all’America latina il titolo di chiesa più cattolica del continente. Tempo una generazione, nella lista dei dieci paesi più cattolici sul pianeta figureranno la Nigeria, l’Uganda, la Tanzania, il Congo. Realtà, cioè, dove il cattolicesimo ha iniziato ad attecchire in maniera decisa solo un secolo fa. Chiaro, insomma, che non tutto è spiegabile con gli istogrammi relativi alla demografia o riducendo la questione all’adagio non originalissimo secondo cui gli africani fanno più figli e quindi si spiega così perché lì vi sono più cristiani.
Certo, i dubbi sono leciti, soprattutto in relazione al numero delle conversioni e ai battesimi di massa. Sono i rischi di una chiesa giovane e ancora entusiasta. Benedetto XVI, nel 2009, lo riconobbe, quando constatò sì come l’Africa fosse “un immenso polmone spirituale per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza”, ammonendo però che un polmone può sempre ammalarsi. Un discorso analogo, anche se con numeri meno roboanti, vale per l’Asia, terreno così battuto da Francesco e non solo per la sua vocazione gesuitica nel rispondere alle sirene d’oriente. Per tornare alla domanda di Jenkins, sui rischi d’una contaminazione del cristianesimo euroamericano, considerato per ragioni varie quello autentico, la risposta sta non solo nelle masse di fedeli africani e asiatici che affollano le chiese nostrane per la messa domenicale ma anche il modo, la forma, con cui presenziano al rito. Spesso, assai più rispettosa del sacro di quanto non si veda in qualche cattedrale che pure ha il rosone splendente e i baldacchini rinascimentali e gli altari maestosi e la musica diffusa non da cd acquistati in qualche bancarella al mercato bensì da organi d’indubbia bellezza. Bastava vedere come è stato accolto il Papa a Bangui, nella poverissima Repubblica centrafricana, mentre entrava in cattedrale dopo aver aperto la Porta santa: il popolo quasi in adorazione, inginocchiato, raccolto. Altro che spintoni e parolacce per conquistarsi una foto scattata con l’iPhone, magari un selfie con il vicario di Cristo.
E’ forse anche a questo che si riferiva Joseph Ratzinger dal suo eremo del monastero Mater ecclesiae mentre commentava la scristianizzazione imperante nell’occidente dei vecchi schemi e delle vecchie tradizioni, anche stantie. Jenkins prende ad esempio Aarhus, città della Danimarca conosciuta a queste latitudini solo perché qualche lustro fa partecipava sovente alla Coppa Uefa o all’Intertoto (per chi se lo ricorda). Ebbene, lì, in un paese che di cattolico ha ben poco sia nella pratica religiosa sia nei costumi, quelle poche chiese cattoliche che ci sono vedono entrare settimanalmente gruppi numerosi di fedeli provenienti da terre lontane. Tutti a pregare, rappresentando il carattere globale (o universale, quindi cattolico) della fede.
La domanda che si potrebbe porre, semmai, è se ci siano la volontà e la capacità di cercare e sperimentare nuove forme di testimonianza e presenza, lasciando da parte i discorsi su quale sia la radice vera e autentica del cristianesimo, se la sua immagine più corretta sia quella dell’Europa che non si riconosce più o quella dell’Africa rampante e giovane.
Un’evangelizzazione nuova, dunque. Papa Francesco l’ha ribadito in un messaggio recente inviato ai partecipanti del quattordicesimo Simposio intercristiano che si è tenuto ad agosto a Salonicco. Il tema era proprio quello della rievangelizzazione delle comunità cristiane in Europa, e Bergoglio ha scritto che il continente è ormai alle prese con “la diffusa realtà di quei battezzati che vivono come se Dio non esistesse, persone che non sono coscienti del dono della fede ricevuto, non ne sperimentano la consolazione e non sono pienamente partecipi della vita della comunità cristiana”. Ecco perché la chiesa è davanti a una “sfida”: si tratta di rinnovare i legami con le radici cristiane ormai sempre meno percepite. L’obiettivo, aggiungeva il Pontefice, è di “individuare strade nuove, metodi creativi e un linguaggio adatto per far giungere l’annuncio di Gesù Cristo, in tutta la sua bellezza, all’uomo europeo contemporaneo”.
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