Il carcere utile
Un lavoro per tutti. Convivenza tra uomini di etnia e religione diverse. Percorsi di scolarizzazione e corsi professionali per imparare un mestiere. L’obiettivo è dare dignità e speranza a ciascun individuo, senza distinzione alcuna. Se il piano di Santi Consolo dovesse essere completato – sono tante le cose già fatte – offrirà un modello di civiltà anche per chi sta fuori. Delle carceri, infatti, si sta parlando poiché Consolo è il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Il congresso dei Radicali organizzato a Rebibbia, due ergastolani in permesso alla Mostra del cinema di Venezia per presentare un docufilm sulla vita carceraria: sono la spia di un cambiamento percepito innanzitutto dai detenuti che hanno accolto con un’ovazione il discorso di Consolo al congresso. “Perché è cambiato il rapporto che le autorità penitenziarie avevano con il mondo esterno – spiega Consolo -, con il movimento dei Radicali che ha sempre avuto grande attenzione per la tutela dei diritti dei detenuti e con tutte quelle autorità preposte al controllo. Non c’è più una contrapposizione, ma un dialogo collaborativo. Si cerca di attuare l’idea di un carcere aperto, non soltanto aprendo materialmente le stanze dei detenuti che per diverse ore al giorno possono stare fuori dalle celle, nella aree trattamentali, nelle aule dei corsi professionali, per lavorare e fare sport. Ma soprattutto il carcere si apre all’esterno verso la società civile.
Santi Consolo
Al congresso dei Radicali – prosegue – ho parlato di diritto alla conoscenza”. Il capo del Dap accenna un sorriso di soddisfazione quando ricorda l’accoglienza calorosa ricevuta a Rebibbia, perché il “diritto alla conoscenza” è stato ed è uno dei temi centrali del suo impegno iniziato nel 2014: “Il carcere deve essere una struttura di cristallo. Abbiamo affinato tutti gli strumenti per fare vedere come facciamo. Tutto è controllabile dai magistrati di sorveglianza, dai garanti, dagli onorevoli, dai movimenti. Se, come è fisiologico in un struttura complessa, ci sono correttivi da adottare o richieste che possono essere accolte, non ci tiriamo indietro. Le faccio un esempio che per chi è libero è una cosa di poco conto, ma per i detenuti è importantissimo. Nelle aree passeggio ci sono dei rubinetti. I Radicali mi hanno lanciato la proposta di dare la possibilità ai detenuti, durante l’estate, di farsi una doccia e con il lavoro dei detenuti sono arrivati i doccioni”.
Il nodo sta tutto nel rapporto con la società civile, che su un tema come il “benessere” del detenuto mostra, nella migliore delle ipotesi, indifferenza e, nella peggiore, intolleranza. Di certo il rapporto è conflittuale. Consolo prova a spiegare che un carcere davvero rieducativo conviene a tutti, ai cattivi e pure ai buoni: “La nostra civiltà giuridica ci porta a dire che privare la persona della libertà deve essere assolutamente necessario. Se abbiamo la possibilità di tutelare la sicurezza in altro modo dobbiamo praticare le misure alternative. Il detenuto non deve trascorrere un periodo di sofferenza afflittiva che lo peggiora individualmente perché quando tornerà libero se ha subito un danno dal carcere quel danno si riverserà sulla collettività. Finiamo per contribuire all’insicurezza e alla pericolosità”.
Sono circa quarantamila le persone che godono delle misure alternative (arresti domiciliari, semilibertà, affidamento in prova) a fronte di 54 mila detenuti. A sentire Consolo si può sperare che diventino uomini e donne migliori. Bella sfida, ma come ci si riesce? “La detenzione deve essere un periodo utile. Che significa? Faccio partecipare il detenuto straniero a un corso di alfabetizzazione per apprendere la lingua italiana. Agevola la comprensione e previene la radicalizzazione. C’è un detenuto che ha delle abilità? Lo utilizzo nel lavoro detentivo. Piastrellista, idraulico ecc., in tanti si possono occupare della manutenzione ordinaria. Abbiamo già concluso 270 progetti per rifare le docce nelle celle, organizzare aree verdi, ludoteche, palestre. Le strutture carcerarie sono un patrimonio edilizio di mezzo milione di metri quadrati che senza la manutenzione ordinaria degrada. E poi ci vogliono i grandi appalti che costano molto di più allo stato italiano”.
Costano e finiscono per alimentare i comitati di affari. “Con il lavoro remunerato il detenuto si sente utile”, aggiunge Consolo. “Se non ha abilità, una volta libero l’unico sbocco sarà tornare a delinquere. Anche perché se imparano un mestiere e producono ricchezza siamo facilitati a consegnare i detenuti stranieri affinché scontino la pena nel paese di origine che avrà un motivo in più per accoglierli. Nelle carceri italiane – spiega – ci sono diciottomila stranieri, di cui dodicimila provengono da aree di religione islamica. Tra questi, ottomila sono praticanti”. Degli accordi bilaterali sono stati siglati con Romania e Albania, ma vanno avviati con i paesi del Maghreb da dove proviene l’ondata di immigrati che giungono sulle coste italiane. Un’ondata che alimenta i malumori di chi si sente assediato dallo straniero e con essi lo spettro del terrorismo.
Al momento, così dicono le procure siciliane, che i terroristi arrivino sui barconi della disperazione appare improbabile, ma non si può escludere. “Oggi – racconta Consolo – l’amministrazione è impegnata nella prevenzione con il proprio nucleo investigativo, l’ufficio ispettivo, nei circa 200 istituti presenti nel paese. Un’emergenza che ha reso necessario l’impiego di circa mille unità. Abbiamo una serie di persone segnalate e monitorate e passiamo periodicamente gli esiti al Comitato analisi strategica antiterrorismo. Stiamo dando un contributo enorme”. Ecco perché, viste “le carenze notevoli di organico sia io che il ministro della Giustizia abbiamo chiesto un’anticipazione di assunzione di unità di polizia penitenziaria facendo scorrere le graduatorie dei concorsi precedenti, così come è stato concesso a tutte le altre forze di polizia”. In carcere la convivenza fra etnie diverse appare più facile che fuori. C’è più ordine e guai se fosse il contrario: “Se non vi sono controindicazioni è bene che le persone della stessa etnia restino assieme. Bisogna stare attenti, però, a con creare rivalità. Ad esempio, bisogna offrire opportunità a tutti per evitare la concorrenza interna”.
Lavoro per 54 mila detenuti. Non è impresa da poco. Il capo del Dap snocciola nuovi esempi: “Stiamo ragionando sull’autoproduzione del vitto. Possiamo produrre uova, carne, cibo sano e biologico facendo lavorare i detenuti, anziché rivolgerci a ditte esterne. Attualmente a Pescara i detenuti realizzano le scarpe per il nostro personale. Ma si può fare di più. Parte delle divise della polizia può essere realizzata con il lavoro dei detenuti. Ieri sono stato alla Giudecca (il carcere femminile di Venezia, ndr): tutte le donne se vogliono possono lavorare. Nell’area verde producono ortaggi, erbe utilizzate per la cosmesi, borse vendute all’esterno. C’è una sartoria di alta moda e una lavanderia per gli alberghi e le attività di ristorazione”.
Cinquantamila persone sono un potenziale di lavoro enorme, “molto più della vecchia Fiat”, dice Consolo. Il riferimento alla casa automobilistica non è casuale: “Ci sono autofficine a Sant’Angelo dei Lombardi e Bollate, ma le stiamo aprendo anche a Catania e Roma. Abbattendo i costi possiamo fare la manutenzione a tutti i nostri automezzi. Abbiamo acquisito mezzi confiscati alla criminalità organizzata e li abbiamo riconvertiti in auto di polizia penitenziaria”. E non serve, sostiene Consolo, cercare chissà quali risorse in un paese che stringe la cinghia ogni giorni di più. “Perché – ed è il motto del capo del Dap – le grandi riforme non necessitano di grandi risorse. Pensi alla traduzione dei detenuti per i processi. I biglietti costano tantissimo e poi ci sono i disagi per i passeggeri. L’anno scorso abbiamo fatto un accordo: la Finanza deve fare un certo numero di voli di addestramento e questi voli vengono utilizzati per la traduzione dei detenuti. Si guadagna in sicurezza e c’è un risparmio di personale. Se dovessimo avere bisogno di ulteriori voli potremmo compensare la Finanza con i nostri servizi, ad esempio riparando le loro auto. Altro accordo è quello sottoscritto con Poste italiane che ci dà tutti i computer dismessi che i detenuti possono usare per esigenze di studio o avviamento professionale, sempre con le restrizioni necessarie”.
Fin qui il ragionamento è lineare. Si può condividere o meno, ma l’obiettivo è chiaro a tutti: sfruttare la parentesi carceraria per cercare di preparare il detenuto al reinserimento nella società. La faccenda si complica quando ci si trova di fronte a un ergastolano. Il “fine pena mai” spazza via il concetto stesso di parentesi detentiva. Si tocca un nervo scoperto nel pensiero di Consolo che si accende pur nella pacatezza che contraddistingue il suo ragionamento: “Questo è il motivo per cui mi sono ripetutamente pronunciato per l’abolizione del carcere ostativo. Secondo il nostro sistema, dopo un range che va dai 21 ai 25 anni di detenzione, la persona può aspirare a beneficiare della liberazione condizionale. All’inizio degli anni Novanta per ragioni generali preventive è stato previsto l’ergastolo ostativo per cui o mi offri una collaborazione utile o diversamente qualsiasi tua manifestazione di dissociazione non consente l’accesso ai benefici”.
Solo che, aggiunge, “a volte questa collaborazione è impossibile o inesigibile perché i fatti per i quali il detenuto è stato condannato risalgono a 25-30 anni prima, le collaborazioni di altri detenuti sono state esaurienti, quella specifica organizzazione criminale è stata sgominata. Anche per i detenuti all’ergastolo ostativo dobbiamo creare un programma trattamentale. Dopo 20 o 30 anni, se si valuterà con rigore che non ci sono rischi per la società, è bene che quella persona ritorni nel consorzio civile. Dobbiamo creare una speranza di vita futura”. Non è un caso che il docufilm di Ambrogio Crespi presentato a Venezia, al quale Consolo ha partecipato da intervistato, sia intitolato “Spes contra spem”. La “speranza contro la speranza” significa credere con fede in un futuro migliore anche quando la realtà che si vive fa pensare che ciò sia impossibile. “La condizione del condannato al carcere ostativo è disumana – aggiunge Consolo – perchè solo un santo può pensare di coltivare la speranza contro e oltre ogni disperazione”.
Il capo del Dap sa bene comunque che bisogna fare i conti con il dolore di chi è stato vittima, diretta o indiretta, di un reato grave. Pur nella complessità suggerisce una via: “Le persone libere sono tali in quanto devono essere libere dalle paure che spesso si creano ad arte per ragioni altre”. Consolo torna a palare di terrorismo: “Io non faccio politica, però noi abbiamo in Italia la più bella tradizione culturale, civile e giuridica al mondo, e la dobbiamo mantenere. Perché la paura che si crea nella società è cattiva consigliera. Le vicende recenti della Francia ci devono fare riflettere. A quanti dicono che il rischio terroristico sia un fatto nuovo suggerisco di andare a vedere il meraviglioso film ‘La battaglia di Algeri’. Quanta attualità c’è in quel film, riflettendo sulla vicenda di Algeria forse potremmo trovare una via equilibrata per superare l’attuale momento senza derive”. “La battaglia di Algeri” è un film di Gillo Pontecorvo del 1966. Racconta, con la scelta del taglio documentaristico, lo scontro durissimo tra l’esercito francese e gli algerini che lottavano per l’indipendenza.
Attuale è anche l’argomento del 41 bis. Il dibattito si è fatto aspro in occasione della morte di Bernardo Provenzano, rimasto al carcere duro fino alla fine dei suoi giorni, anche dopo che i medici lo avevano definito clinicamente incapace di comunicare con l’esterno. Il 41 bis non nasce con intenzioni punitive, ma serve a spezzare la catena di comunicazione. Eppure, ogniqualvolta si parla di modificarlo esplode la polemiche. E’ accaduto a inizio estate con la relazione della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi. L’Europa ha più volte richiamato l’Italia sulla sua applicazione. “Abbiamo avuto di recente una visita del Comitato per la prevenzione dei trattamenti inumani e degradanti”, racconta Consolo.
“E’ evidente che sulle osservazioni noi dobbiamo dare delle risposte soddisfacenti. Io ritengo che il 41 bis sia un istituto che ha dato i suoi frutti e che vada mantenuto. L’ulteriore restrizione prevista dal regime deve essere giustificata non da esigenze punitive, ma di sicurezza. Tutte le prescrizioni che servono per impedire la catena di comunicazione è giusto che che si mantengano, quelle che possono risultare meramente afflittive non hanno ragione di essere”.
E nel caso di Provenzano? “La mia competenza è fornire gli elementi di conoscenza e non esprimere valutazioni. Le posso dire che attualmente i sottoposti al 41 bis sono 740. Un numero, secondo me, eccessivo, che comporta per l’amministrazione penitenziaria oneri organizzativi e di impegno di personale notevolissimo. Negli anni Novanta il numero era dimezzato rispetto all’attuale. E’ uno strumento in cui credo e che va usato nei casi in cui sia effettivamente necessario”. Faccenda complicata trovare il punto di equilibrio fra i diritti dei detenuti e ciò che emerge delle inchieste. Le intercettazioni svelano, infatti, che quella di finire al 41 bis è la grande paura dei nuovi boss.
I vecchi capimafia sono sepolti da decenni al carcere duro, che in passato non sempre è stato tale. I figli nati in provetta ai fratelli Graviano, sanguinari boss di Brancaccio, sono stati l’esempio più eclatante. E’ vero, però, che i tempi sono cambiati. L’assenza di segnali in direzione contraria conferma che la stagione delle connivenze è finita. “E’ evidente che facciamo di tutto per prevenire ogni contatto con l’esterno – conclude Consolo – ma è altrettanto evidente che il numero dei sottoposti al 41 bis è elevatissimo e ci sono carenze strutturali”.
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