La forza della malattia
Qui non c’è nessuno, eccettuata la mia tosse”. Il 7 aprile del 1919, Katherine Mansfield guarda, dietro i vetri chiusi della sua finestra, la primavera che, fuori, infiora tutte le cose, fa nascere gattini con “le zampe di lampone”, riporta le persone a oziare in strada. Ha trentun anni e da due emigra da un paese all’altro dell’Europa in cerca di una casa di cura dove ci sia qualcuno capace di guarirla dalla tubercolosi. Ha dovuto lasciare l’amata Londra che aveva offerto asilo alla sua libertà e alla sua caccia alle donne, poiché la sua Nuova Zelanda, riservandole uno sguardo torvo e cupo, le aveva sempre proibito entrambe le cose. “Vorrei che entraste proprio ora e che potessimo prendere un tè e chiacchierare”, scrive al suo amico russo S. S. Koliansky (“Lettere”, Elliot, 2016), traduttore del gruppo Bloomsbury, poiché è sola con la sua tosse, unica a non averla mai abbandonata, fedele come un cane, ma bizzosa come un gatto. Il suo è un rimprovero, naturalmente. Non avendo un elettorato cui dover certificare di possedere i superpoteri ma pure di essere umana, come quello toccato in sorte a Hillary Clinton, né un fidanzato da restituire alla rettitudine come è il pavido Alfredo, amato da Violetta nell’aggrovigliante “Traviata”, Katherine Mansfield non tace mai la sua malattia.
Katherine Mansfield
Per saziare la sua voluttà capricciosa, che l’ha resa già la scrittrice indimenticabile che la storia della letteratura posizionerà tra i grandi modernisti insieme a Virginia Woolf, non può fare molto altro che mangiare cioccolata e fumare. Chiede sigarette in continuazione. Spesso l’amore che circonfonde le sue lettere e la descrizione minuziosa dei suoi progressi – “oggi sono allegra: il mio fazzoletto non sembra uscito da una macelleria” – le serve a camuffare l’insolenza di quella richiesta. Quando tossisce e non sputa sangue, le viene voglia di gridarlo al mondo intero. Nel certificato medico che Donald Trump ha fornito al Washington Post, tre giorni dopo il mancamento di Hillary che ha svelato a tutti la sua polmonite, il dottor Harold N. Bornstein stabilisce che lo stato di salute del suo paziente candidato a guidare gli Stati Uniti è “eccellente”. Se avesse potuto, forse Katherine avrebbe scritto al Guardian che non stava più sputando sangue e che, quindi, meritava un quintale di tabacco, confidando di risvegliare lo spirito benefattore degli europei, convincendo centinaia di lettori a spedirgliene.
Non si urla mai al mondo soltanto per sincerità, ma sempre, pure, per farselo complice. Nauseata dai fiori, quando ne riceve da Lady Ottoline, le scrive, fingendo di ringraziarla: avrebbe preferito le sigarette, ma non può dirlo, almeno non apertamente. Le chiede solo di pensare a lei la prossima volta che le capiterà di chinarsi su una pianta di tabacco. La sua immagine di felicità è una gigantesca piantagione di tabacco sotto la luna. Le mancano le sue scorribande leziose. Le manca lavorare: “Scrivere tutta la mattina e poi far colazione in fretta e scrivere di nuovo nel pomeriggio e poi pranzare e poi una sigaretta e poi essere sola di nuovo fino all’ora di andare a letto e tutto questo amore e questa gioia che combattono per avere uno sbocco e tutta questa vita che inaridisce, come latte in un vecchio seno”.
Poiché “cuore e cervello li ho serbati intatti”, non manca mai l’appuntamento con il foglio, ma riesce a produrre solo la metà di quello che vorrebbe perché “la schiena prende il sopravvento”, la incurva, la spezza con il dolore. Passeggiare nei parchi, non importa se parigini o provenzali, inglesi o svizzeri, con il respiro intasato dalla tubercolosi e il pensiero disabilitato dall’angoscia di quel modo così tiepido di trascorrere il tempo, la fa incazzare. Dei colori, delle piante, degli uccellini, non le frega un accidenti: “sono un essere umano, sono un bipede, voglio parlare con una persona con due gambe”, non con la natura. La riscoperta della comunione con il cosmo cui è idea comune che la malattia e la consunzione inducano, assottigliando la nostra protervia di padroni del cosmo, a Katherine Mansfield non passa neanche per l’anticamera del cervello. La natura, tuttalpiù, la ammira come principale responsabile dell’insopportabile bellezza della vita che le grava sul petto come un macigno.
L’ira che arreca una malattia è la più lucida di tutte le ire. Per Katherine Mansfield, la tubercolosi non è una lanterna magica, né una forca replicativa d’amore verso il prossimo. Il segreto insondabile che rende la vita miracolosamente irresistibile perché costantemente a un passo dal dispiegamento della sua bellezza, che esiste nonostante i medici inutili, gli sgarbi, la tosse, gli spasmi, la guerra, non sono neppure gli altri. Gli altri si prendono indebitamente il diritto alla salute, che è, invece, una grazia. “Bisognerebbe odiare l’umanità in massa, odiarla appassionatamente, come appassionatamente si amano quei pochissimi”, scrive Katherine, durante i preparativi per le feste di Natale del 1918. Ed ha nostalgia dei pomeriggi trascorsi a guardarsi intorno, nei bar, con i suoi amici, per stabilire, con divertita disperazione, di essere circondata da idioti.
Degli altri ha bisogno per rifocillarsi e distrarsi, com’è sempre stato. Prima la distrazione era diletto, ora è un tentativo di non pensare a quanto sia misero il tempo perso a non scrivere. L’epistolario di Katherine è stato curato dal destinatario della maggior parte delle sue lettere: suo marito John Middlteton Murry, convinto che si trattasse del capolavoro assoluto di sua moglie. Forse perché della gioia e del senso estremamente profondo della disperazione che derivava dalla “condanna di tutte le cose al disastro” e che erano i due motori della sua letteratura, la tubercolosi fa di lei una testimone e quindi, per anni, una superstite di quel disastro. “Ho stracciato tutto il lavoro degli ultimi giorni: era etico”, confessa a John. L’attaccamento alla vita sta pure nel suo più immorale, sregolato disprezzo.
Susan Sontag, nel breve saggio “Sullo stile”, scrisse che “tutte le opere d’arte si fondano su una certa distanza dalla realtà vivente che rappresentano. Il livello e la manipolazione di questa distanza, le sue convenzioni, costituiscono lo stile di un’opera”. Poi, si ammalò di cancro al seno e, dopo una mastoplastica e tre anni di chemioterapia (dal 1974 al 1977), si rimise alla scrivania e scrisse, in un battibaleno, “Malattia come metafora”. Nell’intervista che, poco dopo, Jonathan Cott le fece per il Rolling Stones (“Odio sentirmi una vittima”, Il Saggiatore, 2016), aveva cambiato idea. Come Mansfield, le sole due cose che la facevano sentire forte erano essere innamorata e lavorare (“i libri sono una maniera per essere pienamente umani”), prima e dopo la malattia.
Quella distanza tra sé e l’opera, però, che sempre le aveva reso la scrittura difficile al punto da risultarle sgradevole, racconta di averla annullata completamente per scrivere del suo cancro: “Uno dei pochi testi che ho redatto con piacere e rapidità”. Si trattava del primo libro di cui intravvedeva un’immediata utilità agli altri, non perché raccontasse la verità, bensì perché, dentro, aveva racchiuso una parte di realtà e l’aveva offerta. Il cancro le aveva fornito la prova del fatto che il mondo non è rappresentazione ed esiste a prescindere dal fatto che qualcuno ci viva o meno. Quando Susan Sontag si ammala, il sacrificio, il martirio di sé e i vezzi bobo sono culturalmente archiviati. Il mondo si approssima ad ammettere la delusione del collettivismo, inferendo un colpo assai duro all’assunzione di responsabilità individuale.
A Sontag, però, piace sentirsi responsabile: il cancro le conferma che è il solo modo per non finire vittima della vita. A Cott che le fa notare quanta ricchezza e forza ci sia ne “La malattia come metafora”, risponde: “Ho provato un panico acutissimo, quasi animale. Ma ho vissuto anche momenti di euforia. Avevo l’impressione che mi stesse accadendo una cosa fantastica, come se mi fossi imbarcata in una grande avventura: era l’avventura della malattia e della possibilità della morte, ed è straordinario prepararsi a morire”. “Che hai da tremare, carcassa?”, si ripete Simone Weil a cinque anni, tutte le volte che ha freddo, volendo da subito abituarsi a non farsi scomporre dalla sua salute cagionevole. Soffre già di emicrania, tremori, pertosse e persino “interminabili crisi di singhiozzi” dai quali non si lascerà mai fare quello che Donald Trump spera che Hillary Clinton si lasci fare dalla polmonite.
Simone Weil
“Non chiedo una risposta sollecita. Non c’è urgenza. Chiedo soltanto una risposta categorica”, scrive Simone a padre Marie-Alain Couturier (“Lettera a un religioso”, Adelphi). Vuole sapere se, nonostante i suoi dubbi sulla dottrina cattolica, possa considerarsi una credente autentica. E’ il 1942, ha trentatré anni e, alle spalle, il suo “olocausto privato”, cioè la sua vita immolata al martirio, agli operai e ai diseredati (cui si era dedicata rendendosi loro pari, vivendo di stenti, abbandonando l’insegnamento per andare a lavorare in fabbrica, facendosi cristiana poiché “il cristianesimo è la religione degli schiavi”). Davanti a lei si parano i suoi ultimi mesi di vita. E’ malata di tubercolosi e, come le è naturale per tutte le questioni di carne, non ci bada. Non è la tubercolosi a indebolire la sua certezza di essere compatibile con la fede e con la chiesa tanto da indurla a scrivere quella lunghissima lettera a padre Marie Alain Couturier, domandandogli una risposta categorica e non sollecita. A spingerla è la fedeltà al tentativo, inseguito per tutta la vita pur nella certezza di fallirlo, di riparare alla propria imperfezione. Per non sollecitare una risposta dalla quale dipende la propria definizione e, in fondo, il bilancio di quella riparazione, si deve essere convinti di avere molto tempo davanti a sé oppure, come nel caso di Simone, ci si deve proibire di pensare al futuro perché “l’istante della morte è la norma e lo scopo della vita” (“Attesa di Dio”, 1942).
Per Susan Sontag ci si può preparare a morire, quando ci si ammala, poiché il morire non appartiene al vivere. Per Simone Weil, invece, la vita si compie nella morte e Dio nell’assenza (“Il Dio che dobbiamo amare è assente”). La malattia è il momento in cui questa teleologia si fa carne e, quindi, testimonianza. In questo modo, Simone ci costringe a ribaltare il senso di abbandono in cui l’ammalarsi di chi amiamo o di noi stessi ci precipita, facendoci dubitare di Dio e, in quel burrone, ci esorta a capire che facciamo la più esatta esperienza di lui. Settantadue anni più tardi, gli Stati Uniti pretendono che una polmonite e un mancamento portino Hillary Clinton a chiedersi: posso guidare il paese con una malattia del tutto curabile?
La prima volta che Simone Weil sente in sé la presenza di Dio, “una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano”, è in preda a uno spasmo più forte dei tanti con cui era solita fare i conti. Tutto cambia: “Fino ad allora avevo creduto solo all’amor fati”. Quando la malattia la squarcia, invece, e nel suo corpo entra Dio, lei non può che scegliere, desiderandolo, di accoglierlo: il mezzo di quell’accoglienza è la responsabilità, quindi la dismissione del fatalismo. Dirà: “Ogni volta che penso alla crocifissione di Gesù Cristo, pecco di invidia”, sapendo che quel dolore che Dio ha inflitto a Cristo era un dono, terribile e grandioso, da padre a figlio, nella cui grazia non sarebbe potuta entrare mai.
La polmonite di Hillary sembra indolore anche dopo che l’ha fatta svenire. Forse perché un candidato alla presidenza degli Stati Uniti, come un re francese del Settecento, non è mai solo. Deve condividere il suo spazio, la sua immagine, la sua famiglia, la sua privacy, persino la sua salute, costantemente, fino a che immagine, famiglia, privacy e salute non gli appartengono più. Dev’essere stato difficile, per Hillary, decidere di nascondere quella polmonite: stabilire se fosse la sua polmonite o quella di tutto il paese. Stabilire se andare avanti come se nulla fosse spettasse al corpo della Nazione, cioè il suo, o alla Nazione. Ammettere, mentre se lo domandava, di essere una donna canguro, di quelle che Natalia Ginzburg diceva che continuano a fare le mamme dei loro bambini anche quando sono in vacanza e i bambini, ormai adulti, stanno da un’altra parte. E dirsi, a quel punto, facendosi evidentemente fregare, che una madre nasconde ai propri figli di essere malata e poiché, solitamente, nessuno se ne accorge, né si fa male, pensare di mentire, convinta che farlo, come avviene nella vita normale di tutti, non avrebbe potuto essere null’altro che innocuo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano