“Ho amici che dedicano ai loro gatti un culto simile a quello tributato da Corradino al furetto in ‘Sredni Vashtar’ di Saki”

Anche gli asini cantano

Paolo Isotta
Gli animali, come gli uomini, si esprimono e soffrono. Che siano nostri fratelli lo diceva già duemila anni fa Virgilio. Tra letteratura e musica, una lezione di Paolo Isotta.

I nostri incontri di quest’anno non hanno per tema specifico le sofferenze che l’uomo infligge ai suoi fratelli animali; ma l’espressione degli animali non può prescindere dalla contemplazione della sovrumana mansuetudine colla quale i nostri fratelli patiscono per nostra mano. Onde vorrei dedicarli alla memoria di Mitzi.  Questa femmina di delfino veniva umiliata nella dignità e nell’intelligenza e tormentata per esser usata nei giuochi dei turpi delfinarî che dagli Stati Uniti si sono diffusi in tutto il mondo; il suo domatore, Richard ’o Barry, la vide avvicinarsi a lui e accomiatarsi con un ultimo gesto di amore. Subito dopo Mitzi si sarebbe uccisa: i delfini sanno il suicidio interrompendo il respiro. Quale suprema forma d’espressione!

 

’O Barry comprese in quel momento la crudeltà della sua vita e si convertì alla lotta contro la sofferenza dei delfini. Essi, insieme colle balene, sono – inutile ricordarlo Loro – gli animali più musicali ch’esistano al mondo; più dell’uomo, e assai prima di lui. E una delle più terribili torture che ai cetacei tutti infliggiamo è l’inquinamento acustico del loro habitat, che produce in loro la perdita dell’orientamento e alla fine, col tormento, la vera pazzia. Eppure che gli animali sono nostri fratelli già duemila anni fa dice il più grande dei poeti. Nel Secondo dei Georgicon Libri Virgilio chiama impia la razza che per prima s’è cibata di carne a differenza di ciò che avveniva nell’Età dell’Oro (vv. 536-38):

 

Ante etiam sceptrum Dictaei regis et ante
impia quam caesis gens est epulata iuvencis,
aureus hanc vitam in terris Saturnus agebat;

 

Leggiamo il bel volgarizzamento di Dionigi Strocchi:

 

prima
Che di scannati buoi stirpe spietata
Si fosse avvezza ad imbandir la mensa,
Questa vita vivea Saturno in terra.

 

E questo poeta davvero sommo tale fraternità davvero colla descrizione della peste animale nel Terzo Libro manifesta ed esprime; né gli sfugge l’espressione dell’animale che soffre. Leggiamo per esempio (504-8): la descrizione dei sintomi, quale avrebbe fatto un anteriore poeta scientifico, diviene espressione, se si può osare, di uno stato d’animo.

 

sin in processu coepit crudescere morbus,
tum vero ardentes oculi atque attractus ab
    alto
spiritus, interdum gemitus gravis, imaque
longo
ilia singultu tendunt, it naribus ater
sanguis, et obsessas fauces premit aspera
lingua.

E quando si accrescea del mal la foga,
Gli occhi eran foco, dal profondo seno
Il gemebondo spirito venia,
Era per li singulti il ventre teso,
Colava dalle nari un marcio sangue,
Premea le chiuse fauci arida lingua.

 

Il mio discorso incominci pertanto ricordando che non solo tutti gli animali si esprimono, sì l’universo intero: e sempre più difficile ci appare distinguere fra ciò che convenzionalmente consideriamo animato e ciò che animato non consideriamo. Leggo quindi un sublime Sonetto, Vers dorés, di Gerard de Nerval, colui che ai Francesi, effettuandone la prima traduzione, rivelò Goethe e il Faust. Il poeta finge che a pronunciare le parole sia un divino filosofo, Pitagora.

 

Homme, libre penseur! te crois tu seul
pensant
Dans ce monde où la vie éclate en toute
chose?
Des forces que tu tiens ta liberté dispose,
Mais de tous tes conseils l’univers est absent.

Respecte dans la bête un esprit agissant:
Chaque fleur est una âme à la Nature éclose;
Un mystere d’amour dans le métal repose:
“Tout est sensible!”  Et tout sur ton être est
puissant!

Crains, dans le mur aveugle, un regard qui
t’épie
A la matière même un verbe est attaché…
Ne la fais pas servir à quelque usage impie!

Souvent dans l’être obscur habite un Dieu
caché;
Et comme un oeil naissant couvert par ses
paupières
Un pur esprit s’accroît sous l’écorce des
pierres!

(Adotto il testo di Gérard de Nerval, Oeuvres choisies, dei “Classiques Garnier”, Paris, 1924).

 

Nell’arte europea per la prima volta, ma anche la più commovente in tremila anni, un animale si esprime: in bocca a Omero. E’ il celebre episodio dell’Odissea, al canto XVII: Ulisse è giunto a casa e attende, mentite le spoglie, la vendetta, in compagnia del capraro Eumeo. Ma il cane Argo, che aveva dovuto abbandonare tanto tempo prima, vecchio e gittato dai servi su di un mucchio di letame, lo riconosce: colle sue ultime forze drizza le orecchie, poi le abbassa e agita la coda in segno di festa. Non riesce nemmeno ad alzarsi per salutare il padrone; e subito dopo muore. Odisseo, l’uomo crudele e rotto a ogni astuzia, deve tergersi colla mano una lacrima di commozione: così l’arcaicissimo poeta riesce e connettere l’emozione di un animale a quella di un uomo temibile. Non leggo il testo in greco; sì nella traduzione italiana ancor oggi più bella: bella poeticamente se non attendibile filologicamente: quella del 1822 di Ippolito Pindemonte (vv. 350-397).

 



 

Così dicean tra lor, quando Argo, il cane,
Ch’ivi giacea, del pazïente Ulisse,
La testa, ed ambo sollevò gli orecchi.
Nutrillo un giorno di sua man l’eroe,
Ma corne, spinto dal suo fato a Troja,
Poco frutto potè. Bensì condurlo
Contra i lepri, ed i cervi, e le silvestri
Capre solea la gioventù robusta.
Negletto allor giacea nel molto fimo
Di muli, e buoi sparso alle porte innanzi,
Finchè, i poderi a fecondar d’Ulisse,
Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane,
Di turpi zecche pien, corcato stava.
Com’egli vide il suo signor più presso,
E, benché tra que’ cenci, il riconobbe,
Squassò la coda festeggiando, ed ambe
Le orecchie, che drizzate avea da prima,
Cader lasciò: ma incontro al suo signore
Muover, siccome un dì, gli fu disdetto.
Ulisse, riguardatolo, s’asterse
Con man furtiva dalla guancia il pianto,
Celandosi ad Eumeo […].

 

Ed Argo, il fido can, poscia che visto
Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,
Gli occhi nel sonno della morte chiuse.

 

Qualcosa dell’epos omerico ha la Tetralogia di Richard Wagner, sebbene a modello drammatico egli avesse Eschilo e sebbene profondamente lo influenzasse Virgilio: sì che col suo genio Ettore Paratore  indica l’affinità strutturale fra l’Eneide e il ciclo del Ring. Wagner fu, come Verdi, per tutta la vita un grande amico degli animali; il suo primo cane terranova lo accompagnò per tutte le peregrinazioni giovanili e durante la tempesta sul Baltico che da Riga lo portava a Londra mentre fuggiva i creditori. La tomba del ben successivo terranova Russ, per la quale il Maestro dettò una commovente lapide, si trova nel giardino dell’ultima dimora, villa Wahnfried, proprio accanto a quella del padrone: ivi abitavano pure i pappagalli. Il compositore fu tra i primi attivisti tedeschi del movimento contro la vivisezione: e questo mi pare uno dei tratti umani suoi più belli.

 

Nella sua opera troviamo vive raffigurazioni del mondo animale: in particolare, l’intelligenza e la dedizione del cavallo Grane, che la Valchiria Brünnhilde dona a Siegfried. Vanno ricordate giacché proprio in fine della Götterdämmerung, quel Crepuscolo degli Dei onde si conclude il ciclo del Ring, il cavallo spontaneamente balza sul rogo preparato dalla Valchiria per purificare se stessa e il mondo tutto.

 

Su di un tema io sempre insisto, sì che qualcuno potrà accusarmi di nutrire un’idea fissa: Wagner affetta per motivi politici odio per la romanità e disinteresse per la poesia latina; ma l’influenza di Virgilio su di lui è tanto profonda da esser fondamentale. Di là da quanto mostrato dal Paratore, io stesso ho fatto nel mio libro La virtù dell’elefante un elenco di luoghi puntuali di Virgilio che tornano in Wagner o addirittura sono per lui un’ispirazione basilare. Aggiungiamone un altro: il Libro XI dell’Eneide principia colle esequie di Pallante: Virgilio dipinge il suo cavallo che lagrima pel dolore e il suo dolore umanamente esprime (89-90):

 

Post bellator ecus postis insignibus Aethon
It lacrimans guttisque umectat grandibus ora.

 

Il Caro:
                                      

                                      Iva lugùbre
E d’ornamenti ignudo Eto, il più fido
Suo caval da battaglia, che gemendo
In guisa umana e lagrimando andava.

 

Tanta umana pietà, tanta sensibilità nel pio Enea! Il passo vieppiù impressiona se vediamo, pochi versi più sopra, che quest’uomo delicatissimo e pensoso non rifugge, non diverso dal feroce (che vuol dire ferino, ma le fiere non sono così crudeli e gratuitamente crudeli) Achille nell’Iliade, siccome vediamo nell’affresco della tomba François di Vulci, dal sacrificio umano per accompagnare il defunto all’Ade (81-82):

 

Vinxerat et post terga manus, quos mitteret
umbris
inferias, caeso sparsurus sanguine flammas,

Gli fa gir legati
Con le man dietro i destinati a morte
Per onoranza del funereo rogo.

 

Ma il rapporto coi sentimenti degli animali mette capo a qualcosa di ancor più alto: il processo di purificazione e di coscienza di un eroe che dovrà esser salvatore e redentore, di se stesso e del Gral, principia proprio da tale rapporto. Siamo nel primo atto dell’ultimo e più alto capolavoro, il Parsifal. Parsifal è poco più che un adolescente: il reine Tor, quel che si traduce abitualmente siccome puro folle e che io propongo debba volgersi invece, in senso dostoevskijano, siccome puro idiota: non fosse che alla “figura cristica” del principe Myskin alla fine la redenzione vien misteriosamente meno. Ma il disegno divino vuole che diventi durch Mitleid wissend, sapiente attraverso la compassione: dal pathe mathein della filosofia stoica al fondamentale cristiano cum-pati, del quale Mitleid è l’esatto equivalente germanico.

 

Il giovinetto ha abbandonato la madre Herzeleide e ignora ch’ella dal dolore n’è   morta. Perviene al Monsalvato, la rocca inaccessibile ove una comunità di cavalieri-monaci custodisce la reliquia del Gral, ossia l’arra medesima per la Redenzione, costituita dalla coppa dell’Ultima Cena e dalla Lancia colla quale Longino trapassò il costato del Salvatore in croce. Nessuno può giungervi se non per volontà divina; qui Parsifal incomincia il cammino iniziatico. Ed ecco il primo passo: nell’arrivare nella foresta trapassa con una freccia un cigno in volo. Il mistagogo Gurnemanz ne lo rimprovera e l’induce a contemplare lo sguardo senza vita dell’uccello, piombato ai suoi piedi: Parsifal singhiozzando spezza l’arco sul ginocchio: il primo Mitleid è per gli animali. Ascoltiamo adesso il meraviglioso passaggio. L’Autore vi racchiude una deliziosa auto-citazione: quella del Motivo connesso al Cigno nella sua Opera di trent’anni prima, il Lohengrin.

 

Ivi il Cigno che tira la navicella dell’eroe, figlio di Parsifal re del Monsalvato e dalla rocca proveniente, non è in effetto un animale ma il duca del Brabante che per fattura di magia nera in uccello è stato tramutato. E’ un  antropo cignimorfo laddove nel Lago dei cigni di Piotr Ilic Cˇaikovskij, un capolavoro non della musica coreografica ma della musica sinfonica assolutamente, incontriamo cigni antropomorfi. Ma un’osservazione ben più importante l’ascolto di questo frammento ci consente: il Mitleid è il dolore condiviso; i Motivi tematici onde è espresso il dolore per il dolore del cigno sono strettamente avvinti, sin a identificarvisi, con quelli ch’esprimono (insieme denotandolo e connotandolo) il dolore condiviso che nel secondo atto Parsifal proverà per la ferita di Amfortas, l’immedicabile piaga del colpevole Re del Gral; e nel momento che Parsifal sentirà in sé il dolore di Amfortas sarà divenuto wissend, sapiente. […]

 

La caccia era stata agli albori dell’umanità il primo strumento della sopravvivenza. Quando non fu più un mezzo per procacciarsi il cibo sopravvisse, e tuttavia sopravvive, ritualmente. Il rito arcaico nel quale la caccia riviveva siccome esperienza religiosa ha un senso; e questo senso giustificherebbe persino la crudeltà di cerimonie come la corrida. La caccia quale mero passatempo e diletto, sport, e addirittura consacrazione sociale del gentiluomo, è cosa orrenda. Ne abbiamo appena visto descrizione e condanna da parte di Wagner. Affrontiamo adesso un altro aureo testo della letteratura che tocca il medesimo tema e all’animale dona espressione pure verbale. Si tratta de La Légende de Saint Julien l’Hospitalier, il secondo dei Trois Contes di Gustave Flaubert, ossia l’ultima opera completata dal più grande scrittore francese dell’Ottocento. Difficile trovare contatti tra Flaubert e Wagner; tuttavia questa Leggenda descrive un cammino iniziatico al principio del quale vi è un’impressionante descrizione della caccia come frenesia omicida, crudeltà allo stato puro: la vittoria contro tali frenesia e crudeltà rappresenta la prima tappa verso la salvezza.

 

Debbo aggiungere che qui la salvezza del Santo passa attraverso un suo duplice omicidio, addirittura quello da lui compiuto dei propri genitori: ma tale omicidio era inscritto nel fato del Santo e a lui profetizzato dalla nascita: con grande sottigliezza, sotto colore di narrare una leggenda medioevale, Flaubert tocca uno dei cardini stessi della dottrina cristiana, la predestinazione e il libero arbitrio: tema che a mio parere lo stesso Dante tratta con ingegno e sapienza impareggiabili ma, se posso osare, non in modo del tutto convincente. Figlio di grandi nobili, Giuliano prova sin dalla tenera infanzia l’attrazione omicida verso le bestie. Cito la bella traduzione di Orsola Nemi apparsa per la prima volta per i tipi della Mursia.

 

Una mattina mentre tornava lungo la cortina, vide sulla cresta di un bastione un grosso colombo che faceva la ruota al sole. Giuliano si fermò per osservarlo; in quel punto, essendovi una breccia nel muro, egli incontrò con le dita una scheggia di pietra. Girò il braccio e la pietra abbatté l’uccello che cadde di peso nel fossato. Egli si precipitò verso il fondo, lacerandosi agli sterpi, frugando ovunque, più lesto di un cane giovane.

 

Il piccione, con le ali spezzate, palpitava trattenuto dai rami di un ligustro. La persistenza della sua vita irritò il fanciullo. Si mise a strangolarlo; e le convulsioni dell’uccello fecero battere il suo cuore, lo empirono di una voluttà selvaggia e tumultuosa. Nell’ultimo spasimo, egli si sentì venir meno.

 

Un matin, comme il s’en retournait par la courtine, il vit sur la crête du rempart un gros pigeon qui se rengorgeait au soleil. Julien s’arrêta pour le regarder; le mur en cet endroit ayant une brèche, un éclat de pierre se rencontra sous ses doigts. II tourna son bras, et la pierre abattit l’oiseau qui tomba d’un bloc dans un fossé.
Il se précipita vers le fond, se déchirant aux broussailles, furetant partout, plus leste qu’un jeune chien.
Le pigeon, les ailes cassées, palpitait, suspendu dans les branches d’un troène.
La persistance de sa vie irrita l’enfant. Il se mit à l’étrangler; et les convulsions de l’oiseau faisaient battre son coeur, l’emplissaient d’une volupté sauvage et tumultueuse. Au dernier roidissement, il se sentit défaillir.

 

“Il se sentit défaillir” : ben si vede che si tratta d’una perversione fatta anche d’un  eros profondamente malato.  
Giuliano si dà alla caccia in modo sempre più frenetico: ogni tipo di caccia, a ogni tipo di bestie. Diventa la sua sola occupazione e la sua ossessione. E viene il giorno per lui corrispondente a quello dell’assassinio del cigno per Parsifal; solo che la percezione del delitto sarà in lui oscura. In tale giorno egli accumula l’uccisione rituale dell’intero mondo animale.

 

Poi si inoltrò in un viale di grandi alberi, formanti con le cime quasi un arco di trionfo, all’ingresso di una foresta. Un capriolo balzò fuori dal folto, un daino apparve al crocevia, un tasso uscì da un buco, un pavone spiegò la coda sull’erba; e quando li ebbe uccisi tutti si presentarono altri caprioli, altri daini, altri tassi, altri pavoni, e merli, ghiandaie, puzzole, volpi, istrici, linci, un’infinità di bestie più numerose a ogni passo. Giravano intorno a lui, tremanti con uno sguardo pieno di dolcezza e di suppliche. Ma Giuliano non si stancava di uccidere, imbracciando a volta a volta la balestra, sguainando la spada, puntando il pugnale, senza pensare a nulla, senza nulla ricordare. Era a caccia in chi sa quale paese, da un tempo indeterminato, per la sola ragione di esistere, tutto si compieva con la facilità che si conosce nei sogni.

 

Puis il s’avança dans une avenue de grands arbres, formant avec leurs cimes comme un arc de triomphe, à l’entrée d’une forêt. Un chevreuil bondit hors d’un fourré, un daim parut dans un carrefour, un blaireau sortit d’un trou, un paon sur le gazon déploya sa queue; - et quand il les eut tous occis, d’autres chevreuils se présentèrent, d’autres daims, d’autres blaireaux, d’autres paons, et des merles, des geais, des putois, des renards, des hérissons, des lynx, une infinité de bêtes, à chaque pas plus nombreuses. Elles tournaient autour de lui, tremblantes, avec un regard plein de douceur et de supplication. Mais Julien ne se fatiguait pas de tuer, tour à tour bandant son arbalète, dégainant l’épée, pointant du coutelas, et ne pensait à rien, n’avait souvenir de quoi que ce fût. Il était en chasse dans un pays quelconque, depuis un temps indéterminé, par le fait seul de sa propre existence, tout s’accomplissant avec la facilité que l’on éprouve dans les rêves. 

 

Egli giunge in una valle che contiene una moltitudine di cervi. “La speranza di un tale massacro gli fece per qualche attimo mancare il fiato di gioia”. Li uccide tutti.

 

Infine morirono, coricati sulla sabbia, con la bava alle narici, le viscere fuori, mentre il moto dei ventri si affievoliva a poco a poco. Poi tutto fu immobile.
La notte stava per venire; e dietro il bosco, negli intervalli dei rami, il cielo era rosso come una pozza di sangue.
Giuliano si addossò a un albero. Contemplava con occhi inebetiti l’enormità del massacro, senza capire come aveva potuto compierlo.
Dall’altra parte della valle, all’orlo di una foresta, scorse un cervo, una cerva e il suo cerbiatto.
Il cervo era nero, di statura mostruosa, portava sedici rami di corna e aveva la barba bianca. La cerva, bionda come le foglie morte, brucava l’erba; e il cerbiatto, pezzato, senza interrompere il cammino della madre tettava alla mammella.
La balestra ronzò un’altra volta. E subito fu ucciso il cerbiatto. Allora la madre guardando il cielo bramì con voce profonda, straziante, umana. Esasperato, Giuliano, con un colpo in mezzo al petto, la stese morta per terra.
Il grande cervo lo aveva visto, gli balzò incontro. Giuliano gli lanciò la sua ultima freccia, che lo colpì sulla fronte e vi rimase piantata.
Il grande cervo non diede a vedere di sentirla; e scavalcati i suoi morti, seguitava ad avanzare sempre, stava per piombare su di lui, per sventrarlo. E Giuliano indietreggiava con indicibile spavento. Il prodigioso animale non si fermò; e con gli occhi fiammeggianti, solenne come un patriarca e come un giustiziere, mentre una campana rintoccava in distanza, tre volte disse:
“Maledetto! maledetto! maledetto! Un giorno, cuore feroce, tu assassinerai tuo padre e tua madre!”
Piegò i ginocchi, chiuse lentamente le palpebre e morì.
Giuliano, stupefatto, fu prostrato da una subitanea fatica; un disgusto, una tristezza immensa l’invasero. Con la fronte fra le mani, pianse a lungo.

 

Enfin ils moururent, couchés sur le sable, la bave aux naseaux, les entrailles sorties, et l’ondulation de leurs ventres s’abaissant par degrés. Puis tout fut immobile.
La nuit allait venir; et derrière le bois, dans les intervalles des branches, le ciel était rouge comme une nappe de sang.
Julien s’adossa contre un arbre. Il contemplait d’un oeil béant l’énormité du massacre, ne comprenant pas comment il avait pu le faire.
De l’autre côté du vallon, sur le bord de la forêt, il aperçut un cerf, une biche et son faon.
Le cerf, qui était noir et monstrueux de taille, portait seize andouillers avec une barbe blanche. La biche, blonde comme les feuilles mortes, broutait le gazon; et le faon tacheté, sans l’interrompre dans sa marche, lui tétait la mamelle.
L’arbalète encore une fois ronfla. Le faon, tout de suite, fut tué. Alors sa mère, en regardant le ciel, brama d’une voix profonde, déchirante, humaine. Julien exaspéré, d’un coup en plein poitrail, l’étendit par terre.
Le grand cerf l’avait vu, fit un bond. Julien lui envoya sa dernière flèche. Elle l’atteignit au front, et y resta plantée.
Le grand cerf n’eut pas l’air de la sentir; en enjambant par-dessus les morts, il avançait toujours, allait fondre sur lui, l’éventrer; et Julien reculait dans une épouvante indicible. Le prodigieux animal s’arrêta; et les yeux flamboyants, solennel comme un patriarche et comme un justicier, pendant qu’une cloche au loin tintait, il répéta trois fois:
- Maudit! maudit! maudit! Un jour, coeur féroce, tu assassineras ton père et ta mère!
Il plia les genoux, ferma doucement ses paupières, et mourut.
Julien fut stupéfait, puis accablé d’une fatigue soudaine; et un dégoût, une tristesse immense l’envahit. Le front dans les deux mains, il pleura pendant longtemps.

 

 

Mi si può mettere in ridicolo affermando che sono affetto da monomania virgiliana. In ogni artista davvero sommo, in ogni arte, io vedo un’impronta di Virgilio, sia essa provocata dalla meditazione sul Mantovano o d’un’anima naturaliter vergiliana. Ma come non trovar virgiliana la profondissima pietà religiosa di Flaubert verso gli animali? […]

 

Ci spostiamo ora nella penisola albionica per venire alla penna di uno scrittore in Italia poco noto ma apprezzatissimo sia da Borges che da Graham Greene, Saki. E’ lo pseudonimo dello scozzese Hector Hugh Munro, nato nel 1870 e morto sui campi francesi quale soldato semplice volontario nel 1916. Questo impareggiabile satirista è anche vicino al mondo animale. Una sua raccolta di short stories, L’insopportabile Bassington e altri racconti, apparve nel 1950 pei tipi della Einaudi nella traduzione di Henry Furst e Orsola Nemi, grandi scrittori in proprio: per una volta posso citarla, tale traduzione, senza esser costretto a correggerla, come quasi sempre mi accade.

 

In Tobermory un gruppo di vanesî e sciocchi è raccolto per un noioso week-end nella dimora di campagna di Lady Blemley; uno degli ospiti ha tuttavia trovato il sistema d’insegnare a un gatto a esprimersi nell’umana loquela: Saki mostra la meravigliosa intelligenza di Tobermory con le risposte ch’egli dà ai quesiti rivoltigli.

 

“Che cosa ve ne pare dell’intelligenza umana?” domandò, tanto per dire qualcosa, Mavis Pellington.
“Dell’intelligenza di chi, in modo particolare?” domandò Tobermory gelidamente.
“Oh non so, mettiamo della mia, per esempio”, rispose Mavis con una debole risata.
“Mi ponete una questione imbarazzante” disse Tobermory, che non poteva suggerire né col tono né con l’atteggiamento una sia pur lontana parvenza d’imbarazzo. “Quando si pensò d’invitarvi a questa house-party sir Wilfrid protestò che foste la donna più priva di cervello fra quante ne avesse conosciute, e che esisteva una vasta differenza tra l’obbligo dell’ospitalità e la cura dei deficienti. Lady Blemley rispose che era stata appunto la vostra mancanza di facoltà cerebrali a meritarvi l’invito; infatti voi sareste l’unica persona, fra quante gliene veniva in mente, abbastanza cretina da meritare la loro vecchia automobile. Sapete, quella che chiamano ’l’Invidia di Sisifo’ perché sale abbastanza facilmente le colline, quando la spingono”.

 

Chiunque goda dell’amicizia di un gatto sa che pensieri siffatti sono ben alla portata del’intelligente animale; Saki gli ha dato solo un mezzo d’espressione. Un’altra short story, Sredni Vashtar, è dedicata a un animale assassino d’un essere umano: a differenza del Bâtard di London il furetto uccide per salvare un ragazzo e riparare a un’ingiustizia. Un bimbo,  ricco e orfano, Corradino, è sotto la tutela d’una cugina che lo opprime e segretamente fa in modo che muoia per ottenerne la sostanza: il medico non gli pronostica più di cinque anni ancora.

 

Corradino pensava che un giorno o l’altro egli avrebbe ceduto alla prepotente pressione delle cose necessarie come la malattia, le restrizioni e la cretinaggine organizzata. Senza la sua immaginazione, abbandonata a briglia sciolta nell’isolamento, egli sarebbe già venuto meno da lungo tempo.

 

L’unico rifugio del ragazzo è la rimessa del giardino; ivi egli nutre di nascosto un furetto in gabbia e gli dedica un culto.

 

Ogni giovedì, nella penombra e nel silenzio odoroso di muffa della baracca, egli venerava, con mistica ed elaborata cerimonia celebrata davanti alla conigliera di legno, Sredni Vashtar, il grande furetto. Rossi fiori, quando era la stagione, e bacche scarlatte durante l’inverno, venivano offerti nel suo santuario. Infatti, egli era un dio che esercitava la sua speciale potenza sulle cose feroci e intolleranti, in contrasto con la religione della Donna, la quale, per quanto Corradino poteva osservare, esagerava nel senso contrario.

 

La Donna stabilisce di svuotare la rimessa togliendovi l’altra amica del ragazzo, una gallina.

 

Quella sera, nel deposito, vi fu una innovazione nel culto del dio della conigliera. Corradino aveva l’abitudine di cantare le sue lodi, quella sera gli chiese una grazia.
“Fa’ qualche cosa per me, Sredni Vashtar.”
La cosa non fu specificata. Poiché Sredni Vashtar era un dio, bisognava supporre che sapesse già ciò che si voleva. Soffocando un singhiozzo nel dare uno sguardo all’altro angolo vuoto, Corradino tornò verso il mondo che odiava.
E ogni notte, nelle gradite tenebre della sua camera, e ogni sera nella penombra del deposito, Corradino ripeté l’amara invocazione: “Fa’ qualche cosa per me, Sredni Vashtar”.

 

La signora De Ropp, informata che le visite alla baracca non cessavano, fece un altro viaggio di ispezione.

 

“Che cosa tieni chiuso in quella conigliera?” ella domandò. “Mi pare un porcellino d’India. Voglio sbarazzare tutto qui”. […]
E Corradino sospirò profondamente la sua preghiera per l’ultima volta. Ma mentre pregava, sapeva di non credere. Sapeva che la Donna uscirebbe ora, con quell’increspato sorriso, che egli odiava tanto, sulla faccia; poi fra un’ora o due il giardiniere avrebbe portato via il suo meraviglioso dio, non più un dio ma un semplice furetto bruno in una conigliera. Egli sapeva che la Donna avrebbe trionfato sempre come trionfava ora, e che egli sarebbe cresciuto sempre più malaticcio sotto la sua detestabile, dominante e superiore saggezza, fino al giorno in cui nulla avrebbe avuto più importanza per lui e sarebbe stato provato che il medico aveva ragione. E sotto l’aculeo e nell’avvilimento della disfatta egli cominciò a cantare con sfida l’inno del suo idolo minacciato. […]
Poi, ad un tratto, interruppe il canto e premette il viso contro il vetro della finestra. La porta della baracca era socchiusa come era stata lasciata, e i minuti passavano. […] La speranza a poco a poco serpeggiava nel suo cuore, e ora uno sguardo di trionfo serpeggiava nei suoi occhi che conoscevano soltanto la nostalgica pazienza del vinto. Sottovoce, con furtiva esultanza, egli riprese il peana della vittoria e della devastazione. E in quel momento i suoi occhi furono compensati; fuori dalla porta uscì una lunga, bassa bestia gialla e bruna con gli occhi che ammiccavano nella svanente luce del giorno, e scure umide macchie sulla pelliccia intorno alle mascelle e alla gola. Corradino cadde in ginocchio. Il grosso furetto si avviò verso un piccolo ruscello che scorreva in fondo al giardino, bevve un poco, poi attraversò un piccolo ponte di tavole e si perse fra i cespugli. […]
Corradino ascoltava i rumori e i silenzi che si succedevano in rapidi spasimi fuori della sala da pranzo. L’alto folle grido della cameriera, e in risposta il coro di stupefatte esclamazioni su dalla cucina, lo scalpiccio dei passi, le frettolose richieste d’aiuto, e poi, dopo una pausa, spaventati singhiozzi e il fiato ansante di coloro che trasportavano un pesante fardello in casa. “Chi mai avrà il coraggio di avvertire quel povero piccino? Io non me la sento, proprio per nulla al mondo”, esclamò una voce stridula. E mentre si discuteva su questo argomento, Corradino nella stanza da pranzo si preparò un altro panino imburrato.

 

Così commenta Borges:

 

Sredni Vashtar, forse come ogni bel racconto, è ambiguo: si può supporre che Sredni Vashtar sia realmente un dio e che lo sventurato bimbo lo intuisca, ma è lecita anche l’ipotesi che il culto da parte del bambino abbia fatto del furetto una divinità; né è proibito pensare che la forza dell’animale provenga dal bambino, che sarebbe in realtà il dio e lo ignora. E’ bene che il furetto torni nell’ignoto donde è venuto; non meno ammirevole la sproporzione fra la gioia del bimbo liberato e il fatto banale di prepararsi un toast.

 

Ho amici che dedicano ai loro gatti un culto simile a quello tributato da Corradino al furetto: e constato ch’essi gatti sin dal portamento si esprimono, grazie a tale culto, proprio siccome divinità. La mia Isaura è altera e riserbata. E’ tempo che io riprenda i soli panni a me leciti – se pure lo sono –, quelli di storico della musica. E prima di parlare dell’incontro fra uno dei più grandi Maestri del Novecento e uno scrittore che sul mondo animale ha scritto fra le cose più belle e profonde, Colette, affronteremo l’incontro che questo Maestro, Maurice Ravel, ha in precedenza con un altro grande poeta pur egli splendidamente sul mondo animale e sull’espressione degli animali espressosi. Si tratta di Jules Renard: il quale nel 1899 pubblica la serie di ventidue poesie in prosa dal titolo di Histoires naturelles.  Tutti sanno che tale titolo cita quello della grande opera del naturalista settecentesco Georges-Louis Leclerc de Buffon, soprintendente del Jardin de Plantes, in trentasei volumi, l’Histoire naturelle. Ma Renard precisa: “Buffon descrive gli animali onde farli piacere agli uomini. Io desidererei invece farli piacere agli animali stessi”.

 

Ravel riuscì a ottenere dal poeta il permesso e musicò cinque dei ritratti: rispettivamente Le Paon, Le Grillon, Le Cygne, Le Martin-Pêcheur, La Pintade: e lo fa per voce di mezzosoprano e pianoforte. La prima esecuzione avvenne il 12 gennaio del 1907. Scrive Enzo Restagno, l’Autore del più bel libro su Ravel che io conosca (Ravel e l’anima delle cose, Milano, Il Saggiatore, 2009).

 

[…] nei minuscoli ritratti di Renard Ravel ha trovato qualcosa di infinitamente prezioso a cui non intende rinunciare. Seguendo il filo di quel fervore si finisce con lo scoprire una delle zone più intime del mondo poetico di Ravel. Il Nostro si è accorto che nella dimensione oggettiva in cui Renard colloca i suoi animali si cela quel mistero che di solito passa inosservato ma che, in ultima analisi, custodisce il segreto delle cose.

 

E, più innanzi:

 

Chi crede nella natura riconosce agli animali un superiore grado di parentela con la realtà misteriosa che rifluisce in ogni anfratto del cosmo. Ravel era persuaso che l’osservazione del mondo animale potesse introdurre l’uomo nel nucleo più intimo della realtà cosmica. Le voci del Grillo nelle Histoires naturelles e dello Scoiattolo nell’Enfant et les sortilèges sono, non dissimilmente da quelle dei “cervi fatati” di Bartók, gli oracoli attraverso i quali il gran libro della natura si racconta.

 

Adesso ascoltiamo la versione musicale del Grillo. Leggiamo dapprima il testo di Renard: la bella traduzione è un omaggio fattomi da Ena Marchi.

 

C’est l’heure où, las d’errer, l’insecte nègre revient de promenade et répare avec soin le désordre de son domaine. D’abord il ratise ses étroites allées de sable. Il fait du bran de scie qu’il ecarte au seuil de sa retraite. Il lime la racine de cette grande herbe propre à le harceler. Il se repose. Puis il remonte sa minuscule montre. A-t-il fini? est-elle cassée? Il se repose encore un peu. Il rentre chez lui et ferme sa porte. Longtemps il tourne sa clef dans la serrure délicate. Et il écoute: point d’alarme dehors. Mais il ne se trouve pas en sureté. Et comme par una chainette dont la poulie grince, il descend jusqu’au fond de la terre. On n’entend plus rien. Dans la campagne muette, les peupliers se dressent comme des doigts en l’air et désignent la lune.

 

E’ l’ora in cui, stanco di vagabondare, il negro insetto decide di rientrare e rimedia con zelo al disordine del suo regno. Prima rastrella gli angusti vialetti di sabbia. Fa un po’ di segatura, che sparge sulla soglia del rifugio. Lima la radice di quell’erba alta che rischia di infastidirlo. Si riposa. Poi ricarica il minuscolo orologio. Ha già finito? E’ forse rotto? Si riposa ancora un pochettino. Torna a casa e chiude la porta. Gira a lungo la chiave nella serratura delicata. E si mette in ascolto: fuori, nessun allarme. Tuttavia non si sente al sicuro. E, come sospeso a una catena la cui puleggia stride, discende nel fondo della terra. Non si ode più nulla. Nella campagna muta s’ergono i pioppi, simili a dita tese a indicare la luna.

 

La poesia in prosa è bellissima. La versione musicale ne amplia lo sfondo metafisico, assume portata cosmica e ci fa ascoltare la musica degli interminati spazi, dei sovrumani silenzi e della profondissima quiete.

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