Con “Infinite Jest”, canto di un’America “sad”, David Foster Wallace si impose nel 1996 come il più importante autore americano della sua generazione (nella foto, una scena di “Nymphomaniac” di Lars v

Il piacere triste

Giulio Meotti
Santino liberal? No, David Foster Wallace aveva capito che l’intrattenimento postmoderno ci sta uccidendo. “C’è una sorta di tristezza in questo tempo di piacere senza precedenti”. Ecco la sua idea dietro le mille pagine del romanzo.

Vent’anni fa, un giovane scrittore che insegnava in California mise in subbuglio la letteratura americana con un romanzo di mille pagine, “Infinite Jest”, ambientato tra il formalismo snob di un circolo del tennis e un Leoncavallo americano. Un romanzo che ne fece, parola del New York Times, “uno dei più grandi talenti che abbiamo”. Il cantore di un’America tragica, “sad” diceva Wallace, ritratto intimo e desolante di un paese interessato solo a compiacere se stesso. La trama del libro (Einaudi in Italia), inserito da Time tra le cento migliori opere in lingua inglese tra il 1923 e il 2005, riguarda un film così divertente da ridurre tutti coloro che lo vedono a uno stupore catatonico. Wallace racconta un’America che ha perso la magia e mantenuto i vizi: tutto è commercio. La Statua della Libertà, invece della torcia, regge un hamburger e il presidente è un ex cantante che promette “un paese pulito”.

 

Quel giovane scrittore venne paragonato a Don DeLillo (per aver rianimato il Grande Romanzo Americano e sdegnato il minimalismo); a Vladimir Nabokov (per la ricchezza della prosa); a Thomas Pynchon (per la snervante lunghezza). Il 12 settembre del 2008 David Foster Wallace si suicidò impiccandosi nella sua casa di Claremont, in California. Il gesto fatale dello scrittore ne ha fatto una sorta di Kurt Cobain della letteratura, il cantante dei Nirvana il cui suicidio è stato un momento mitico per la generazione X. Wallace venne arruolato nel catalogo degli scrittori americani tragici e “prematuri”, un santino consolatorio (vedi il film “The end of the tour” un anno fa) con la bandana che gli abbiamo visto in tutte le foto, la depressione che parenti e amici indicano come molla del suicidio e la cui scrittura è popolata da tossicodipendenti e pazienti in terapia. Sulla scia della sua morte, è stato fin troppo allettante leggere i suoi romanzi come una grande autobiografia, trasformando tutto in un anacronistico autoritratto. Ci sono stati molti modi di fraintendere David Foster Wallace. Uno è di confondere la sua giocosità postmoderna con un atteggiamento di cinismo amorale o anche di nichilismo. Nella prima biografia di Wallace, D. T. Max evita l’agiografia postmoderno, documentando con pazienza che, lungi dall’essere un nichilista, Wallace era un moralista di una specie particolarmente complicata.

 


David Foster Wallace


 

“In questo tempo di piacere senza precedenti, c’era una sorta di tristezza nel paese”, dirà Wallace per spiegare il motivo che l’avevo spinto a scrivere “Infinite Jest”. Non capita spesso che i romanzieri postmoderni suicidi e gli intellettuali conservatori condividano le stesse preoccupazioni circa le condizioni della vita contemporanea. Anche se certamente Wallace non era artisticamente un conservatore, si era convinto che il compito della letteratura fosse quello di contrastare il nichilismo ironico con il quale viene erroneamente identificato. Interpretava il ruolo del romanziere come un vigile del fuoco, non come un incendiario. I capitoli di “Infinite Jest” sono contrassegnati dal calendario del consumatore. Titoli strabilianti, come “L’anno del pannolone per adulti depend” (Wallace aveva intuito l’invecchiamento grottesco della popolazione). Gli effetti del consumismo sono parte di una modalità generale di distrazione che caratterizza il “mondo nuovo”, che Wallace ambientò nel 2010. Gli esseri umani sono debilitati dall’“Entertainment”.

 

Wallace fa dire a uno dei personaggi del romanzo, Marathe: “Questo appetito di scegliere la morte attraverso il piacere se questa è una scelta possibile – questo appetito del tuo popolo incapace di scegliere gli appetiti, questa è la morte. E quella che tu chiami morte, la caduta: quella sarà soltanto la formalità”. Marathe dice che la ragione per cui l’America teme “l’intrattenimento”, come viene chiamato, è che il paese ha perso la sua forza di volontà, il suo carattere. Dopo l’11 settembre, un terrorista afghano è stato ampiamente citato dicendo che “gli americani amano la Pepsi Cola, ma noi amiamo la morte”, che è più o meno il punto di Wallace. “Infinite Jest”, con la sua vena pascaliana, è una etnografia del nostro postmoderno, dove si coglie la misura in cui il tempo e lo spazio sono configurati dal piacere, dalle distrazioni e dai divertimenti che minacciano di sopraffare qualsiasi altra cosa. E’ la diagnosi più accurata di una generazione.

 

Wallace era il prodotto impacciato del Midwest. Figlio di un professore di Filosofia alla University of Illinois, Wallace non concepiva se stesso come parte di una casta accademica senza luogo né identità. In “Una cosa divertente che non farò mai più”, parla con disinvoltura del “modo in cui troviamo la decenza umana commovente se la incontriamo a New York o Boston”. Non era un fighetto della East Coast, come molti suoi amici romanzieri. In “Westward”, Wallace teorizza il “grande conflitto della psiche americana”, che è “il conflitto tra la centralità personale della nostra vita e la consapevolezza della propria insignificanza obiettiva”. Nel drogato, disperato mondo di “Infinite Jest”, i lettori percepiscono comunque che qualcosa sopravvive: l’amore.
Come scrive First Things, rivista cattolica americana che ha spesso omaggiato Wallace, “quella di Wallace non è la noia rarefatta dei decadenti, come troviamo in opere moderniste tipo ‘La terra desolata’ o ‘La montagna incantata’. E’ molto più banale e pervasiva”. Wallace presenta una condizione esistenziale statica di solitudine e inutilità, una disumanizzazione adatta alla vita in un’epoca burocratica.

 

Ma il suo ultimo romanzo, “Il re pallido”, propone qualcosa di più, ovvero non si può fare a meno di sperare che la vita sia qualcosa di più. Per dirla con Adam Kirsch di New Republic, “Wallace cercò di diagnosticare le cause culturali della svolta della sua generazione in anomia”. L’inferno di Wallace è la coscienza di sé disgustata da ciò che sa. Dio è morto, ma è sostituito da tutti gli altri dèi. Tutto è permesso, ma ognuno resta incollato al televisore. I suoi personaggi sono tutt’altro che soddisfatti di questo tardo capitalismo postmoderno. Se c’è una morale in Wallace potrebbe essere che la trascendenza continua a esercitare la sua pressione sulla narrativa contemporanea, perforando i confini sicuri della laicità letteraria. Wallace era preoccupato per il legame tra distrazione e solipsismo che sentiva stesse defininendo la vita americana contemporanea.
Wallace aveva capito che il postmoderno poggiava su una malattia del nostro tempo: la tirannia dell’ironia. Un carapace protettivo, come Wallace ha sottolineato. “L’ironia e il ridicolo sono divertenti ed efficaci – osservava – “e… allo stesso tempo, essi sono gli agenti di una grande disperazione e stasi nella cultura degli Stati Uniti”. Un tempo, l’ironia è servita a sfidare l’establishment; ora ne è una istituzione. L’arte dell’ironia si è trasformata in arte ironica. Ironia per amore dell’ironia.

 

Wallace era interessato, come dirà a Brad Morrow di Conjunctions, al “vuoto spirituale dell’interazione eterosessuale nell’America postmoderna”. Scrisse un racconto straordinario sul dramma dell’aborto, per niente scontato. Ne “Il re pallido” (Einaudi), Wallace fa della madre di Chris Fogle una vittima della controcultura degli anni Sessanta: abbraccia il femminismo, ripudia il marito, diventa una lesbica, apre una libreria femminista chiamato Speculum Books con la sua amante, Joyce. Ma quando muore il padre, la donna è consumata dal rimorso per la sua volubilità, e si sposta di nuovo nella casa coniugale per diventare una casalinga alla periferia di Wilmette. Altri personaggi di questo romanzo polifonico incompiuto ripetono come “gli anni Sessanta sono stati l’inizio della discesa dell’America nella decadenza e nell’egoistico individualismo della generazione del Me”. Anche se nato in una famiglia liberal di accademici, Wallace ha votato per Ronald Reagan (“hai bisogno di un pazzo per sistemare l’economia”, diceva all’amico Corey Washington) e sostenuto Ross Perot nel 1992. E quando gli chiesero di seguire la campagna elettorale di John McCain nelle primarie che lo opposero nel 2000 a George W. Bush, Wallace accettò e ne uscì un saggio sublime su un pezzo d’America. “Forza, Simba” è il titolo del reportage inserito in “Considera l’aragosta” (Einaudi, Stile Libero).

 

“Avete tre arti spezzati, e state cadendo sulla capitale nemica che avete appena tentato di bombardare. Immaginate di guadare un lago con le braccia rotte, mentre una folla di nordvietnamiti nuota verso di voi, e uno vi caccia una baionetta nell’inguine”. Finché David Foster Wallace si commuove, pensando che quel signore malconcio “non cerca solo dollari o voti. Parla di onore, di devozione, di sacrificio come se queste parole davvero rappresentino qualcosa”. Detestava gran parte della letteratura contemporanea. I vari McInerney ed Ellis, tacciati da Wallace di “nichilismo”. E i minimalisti, definiti da Wallace affetti da “realismo catatonico”. Odiava anche la digitalizzazione della cultura contemporanea, che in una lettera a Don DeLillo del 2000 aveva così sintetizzato: “Digitale, astratto, sterile”. La paragonava a una religione laica con i propri sacerdoti. Degli scrittori contemporanei, Wallace amava Cormac McCarthy, il più religioso e lirico di tutti. E dei passati, Fëdor Dostoevskij, una scelta strana per un liberal che insegnava scrittura creativa.

 

Dai saggi di Wallace si evince un reale interesse nei principi centrali del conservatorismo americano, in particolare la valorizzazione della scelta individuale, cui lo scrittore univa l’umiltà del Midwest e uno scetticismo di fondo. Nel libro “Fate, Time and Language”, James Ryerson ascrive Wallace alla tradizione del romanziere filosofo come Voltaire e Sartre. La fonte del conservatorismo più intimo di Wallace era la sua insuperabile convinzione che siamo tutti in ultima analisi, soli.
David Foster Wallace ci ha lasciato una grande saga della dannazione e della salvezza. Ha regalato al lettore il mondo illuminato da una luce nera.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.