Memorie di moda
La passerella, un mestiere crudele. Da Jerry Hall alle sorelle Hadid: quando il potere della bellezza si trasmette di madre in figlia. Negli anni 60, ricorda Mirella Petteni, essere belle e determinate, cioè disciplinate, era fondamentale per imporsi e per durare.
Qualche giorno fa, seduta per puro caso e un’assoluta botta di fortuna in mezzo alle sarte di Alberta Ferretti a bordo passerella, ho scoperto un modo di guardare le sfilate che quasi vent’anni di prime file, di soluzioni fortunose e di una netta predilezione per le cabine di regia non mi avevano consentito fino a oggi, e che è lo sguardo tecnico. Quello, cioè, di chi ha fisicamente cucito quegli abiti preziosi e che dunque fisicamente gioisce o soffre nel vederli indossati bene o male, come una madre a cui accadesse di vedere il proprio bambino vezzeggiato o redarguito dalla maestra alla recita di Natale.
Ascoltando il cicaleccio eccitato o deluso alle mie spalle, ho verificato che fra chi ha tagliato, cucito e ricamato di fili di seta e di chiacchiere quegli abiti per lunghi giorni, lo stile e il portamento delle ragazze che sfilano sono cruciali quasi più adesso, anni in cui le ragazze sono disponibili e intercambiabili come commodities, rispetto ai tempi in cui le modelle si chiamavano ancora indossatrici e il loro incedere di fantasia, come quello di Mirella Petteni, di Jerry Hall o di Pat Cleveland (“l’idea era ottenere una linea perfettamente diritta dalla base del collo all’arco della caviglia”, racconta nel suo memoir appena presentato a Milano, “Walking with the muses”), era la chiave del loro successo e la base per la sceneggiatura di film come “Mahogany”, titolo di culto del genere, in cui Diana Ross interpretava una modella ispirata proprio alla Cleveland, fra le prime ad apparire sulle passerelle e le copertine internazionali con quel suo volto esotico e lunare, un mix di ascendenze africane, cherokee, svedesi e irlandesi.
Al gruppetto di Alberta Ferretti in camice bianco che mi attornia, trasferito espressamente dall’atelier di Cattolica per evidenziare agli invitati, con la propria semplice presenza, la natura sartoriale della collezione, brillano gli occhi: “Bello”. “Questo bellissimo, sul tavolo non si capiva”. “Ma no, così no: è una nuvola, no quel passo di marcia”. Quando Isabeli Fontana si ferma davanti alla parete rocciosa dei fotografi in un completo nero da cui spunta inatteso e seducente uno strascico bordato di pizzo valenciennes e alza il mento nel gesto di sfida che l’ha resa famosa, l’atmosfera alle mie spalle si fa elettrica: “Brava, così si deve portare”, annuisce una sarta di mezza età, a cui l’esperienza offre quell’autorevolezza che fra le più giovani è ancora un bozzolo di trepidazione. Tutte soffrono per ogni inciampo, esultano per ogni flash come nessun’altra fra le figure professionali presenti vorrebbe fare, tantomeno i giornalisti.
La modella di questa stagione è senza ombra di dubbio Bella Hadid, che ha surclassato la sorella maggiore Gigi con il famoso colpo d’inguine all’ultimo festival del cinema di Cannes vanamente imitato a Venezia dalla ruspante Giulia Salemi. Figlia dell’immobiliarista palestinese Mohamed Hadid e di Yolanda van den Herik, famosissima modella degli anni Settanta che da qualche stagione tutti cercano di rilanciare nell’abbigliamento, se non nell’atmosfera purtroppo irreplicabile, Bella Hadid fa parte della fashion royalty, le famiglie regnanti della moda che, come purosangue, piazzano a ogni generazione due o tre Prix de l’Arc de Triomphe delle passerelle. Il Debrett’s della bellezza vanta alberi genealogici molto ramificati: Jerry Hall con le figlie Elizabeth e Georgia May Jagger; Pat Cleveland con Anna, vellutato cerbiatto protagonista di un primo servizio fotografico a due anni, fra le poche a interpretare i vestiti in passerella con uno stile apparentabile a quello di sua madre.
Lo scorso decennio dominava le scene Stella Tennant, nipote della duchessa di Devonshire, una delle famose sorelle Mitford che dominarono gli anni Trenta e Quaranta con la loro bellezza, i loro matrimoni burrascosi e le loro cotte per Hitler e Stalin; fino a sei mesi fa, il mondo della moda e della mondanità che lo alimenta e ne trae vantaggio voleva, fotografava, ingaggiava solo Poppy e Cara Delevingne, figlie della socialite londinese Pandora, negli anni Ottanta più fotografata di Diana Spencer e certamente più bella di lei.
Ora, è il momento delle sorelle Hadid. La mamma Yolanda ha trovato modo di prolungare la carriera come protagonista di una delle serie televisive più guardate e invidiate d’America, “Real housewives of Beverly Hills”. Un potere della bellezza che si trasmette di generazione in generazione, affinandosi con il denaro e l’educazione, e che rende molto più ardua la competizione per le tante ragazze prive delle stesse origini e delle stesse relazioni. Non tutti gli stilisti, infatti, ricercano i volti fascinosamente irregolari e le spigolosità dell’incertezza di genere che intrigano Alessandro Michele di Gucci e che rappresentano l’ultima frontiera dell’estetica, la più difficile e la più ardua perché priva di barriere oltre a quella del pensiero. Il mondo che sale in passerella è, infatti, preferibilmente e uniformemente bello, cioè irreale.
Lungo la scia di Irene Galitzine o di Valentino negli anni Settanta e Ottanta e di Gianni Versace nei Novanta, molti richiedono tuttora ragazze in possesso di una bellezza dai canoni classici, perfetta, oppure quella eccentrica ma racée, definizione antica che si stenta a usare nella traduzione italiana di “razza”, di questi incroci fra ricchezza, bellezza e nome di famiglia. Le purosangue. Le uniche, come ammette lo storico agente Piero Piazzi, scout di modelle come Marpessa, Linda Evangelista, Naomi Campbell, Maria Carla Boscono e a sua volta ex modello di successo, ad avere non solo “la strada spianata”, ma anche qualche possibilità in più di superare la data di scadenza dei sei mesi, ormai di prammatica per tutte le altre: “Chi emerge ha alle spalle o una grande famiglia o una strepitosa personalità. Il mestiere si è fatto ancora più duro rispetto a un tempo, e la durata media di una carriera è di sei mesi”, dice, lui che ha sempre trovato la perfezione “noiosa” e che per anni ha faticato a imporre a stilisti e fotografi i volti irregolari che lo attraggono più di ogni altro.
Tutto quello che avrete certamente letto sulla crudeltà di questo mestiere di “soldati di ventura pagati per non lamentarsi”, come scriveva quasi trent’anni fa il direttore di WWD, John Fairchild, è assolutamente vero. Vera la fatica, i turni massacranti, gli stilisti incuranti se “i piedi delle ragazze sanguinano un po’, perché le scarpe devono essere sfilate per figurare bene nelle foto”, come ascoltai una sera orripilata durante una prova di collezione a cui assistevo. Il ricambio fra ragazze si è fatto rapido “come quello di un nuovo iPhone”, osserva Piazzi. Alla naturale selezione che regola questo mercato fatto di carne e di meravigliose ossa lunghe, si è poi aggiunta la concorrenza delle attrici che, insieme con l’aumento del peso ponderale medio della popolazione mondiale, sono il motivo della ricomparsa di seni e glutei in passerella.
Le protagoniste delle campagne pubblicitarie della moda sono ormai in stragrande maggioranza volti del grande schermo. Sfogliate i numeri delle riviste distribuite in questi giorni alle sfilate di New York e Milano: Amy Adams affianca Gigi Hadid per le linee di accessori Max Mara; Jennifer Lawrence è il volto dei prodotti a maggiore diffusione di Dior; Alicia Vikander di Louis Vuitton. Gli stylist, che da figure un tempo marginali sono diventati celebrity a pieno titolo e conseguente posto in prima fila alle sfilate, guadagnano più come consulenti e procuratori di un’attrice che di una modella, peraltro pagata per indossare quello che le si dice e non quello che le piace (“la mia stylist sa che cosa devo indossare per stare bene”, pigolava qualche giorno fa una di queste insicure del cinema su D, lasciando ipotizzare che, nei momenti in cui la sua stylist dorme o va in vacanza, lei giri per le strade nuda o in tuta, che in effetti e dopotutto è quello che vediamo negli scatti presi quando escono di casa con il cane al guinzaglio).
Amy Adams (foto LaPresse)
“Se potessi tornare indietro, farei esattamente il mestiere che ho fatto”, dice Pat Cleveland, raggiunta a New York dove sta salendo su un aereo per incontrare i lettori della sua autobiografia a 10 Corso Como. Ogni tanto sfila ancora, per H&M per esempio, e sempre con quella falcata unica. Se rimpiange un po’ gli anni Settanta è perché “si ballava parecchio e c’era più tempo per farlo”. Ora i tempi sono più compressi e la pressione si è fatta insostenibile, senza contare che ci sono molti meno geni come Andy Warhol e gran signori come Halston in giro. Dunque, senza un network pronto a spingere e a parare le cadute, per una modella sfondare è infinitamente più difficile rispetto agli anni Sessanta quando, come racconta Mirella Petteni, per lunghi anni moglie e ora vedova del produttore Robert Nissim Haggiag, attivamente impegnata nella filantropia, “essere belle e determinate”, cioè e innanzitutto disciplinate, era fondamentale per imporsi e per durare.
Lei, rimasta orfana di padre giovanissima e presto impiegata come dattilografa, aveva approcciato il mestiere con pragmatismo: scuola, professione costante di umiltà, borsoni di scarpe e accessori portati con coscienziosità sui set perché all’epoca gli stylist non esistevano. “Essere bergamaschi in certi casi aiuta”, racconta ironica al telefono da Gerusalemme, dove si trova in questi giorni per una serie di conferenze come presidente della Italy-Jerusalem Foundation e che affianca alle attività di membro degli Amici dell’università di Tel Aviv e di consigliere della Fondazione Giorgio Bassani per la quale finanzia ogni anno un progetto di ricerca e un premio intitolato al marito.
Alta, i lineamenti asciutti precursori delle bellezze androgine degli anni Ottanta, Mirella Haggiag Petteni detestava la fatica delle passerelle, ma adorava, del tutto ricambiata, i set fotografici, “il rapporto a tu per tu con il fotografo e la sua macchina fotografica”. In quello che da professionale si è trasformato nel book della sua vita, compaiono Gian Paolo Barbieri, Helmut Newton, Irving Penn. A un certo punto, come Cara Delevingne nei mesi scorsi, ha detto basta. Non polemicamente “disgustata” come lei. Piuttosto conscia della necessità “di andare oltre, di evolversi”. Di essere modelle di se stesse e della propria vita, oltre che dei vestiti e dei sogni degli altri. “In casa non ho più una foto di allora: non perché voglia dimenticare, ma perché ho creduto fosse arrivato il momento di dedicarsi ad altro”.
Di sola moda, si può vivere e prosperare e generare imperi solo se si è nella posizione di Giorgio Armani, che in queste settimane festeggia i quarantuno anni di presenza costante sulle passerelle milanesi come stilista, la più longeva in assoluto. Da modella, è un’altra cosa. Persino Pat Cleveland ammette che il sistema sia diventato “like a conveyor belt”, come il nastro trasportatore degli aeroporti, con le modelle nella scomoda posizione delle valigie, sbatacchiate qui e là senza grazia e senza troppe prospettive. “Ora è tutta una questione di numeri, di cifre, e di quanto tu le faccia aumentare”, follower di instagram compresi e che, aggiunge Piazzi “sono diventati una voce importante nei contratti”.
Per fortuna, osserva la star delle passerelle di un tempo, “anche in questo business capita ancora di incontrare un vero artista, che si prende il tempo per portare un po’ di romanticismo fra le pieghe dei bilanci”. E’ il momento in cui Pat Cleveland si lascia nuovamente accarezzare dall’idea di tornare a sfilare. Dopotutto, tante sue colleghe lo hanno fatto in età ben più avanzata della sua, che ha sessantasei anni e una figura tuttora perfetta. Non è per denaro, e neanche per la fama. E’ per i vestiti: “Anche se sai che potrai indossarli solo per pochi minuti, la sensazione che regalano certi capi è quella del Divino Amore”. E lo dice in italiano.
Il Foglio sportivo - in corpore sano