Liquida e solida
Sta forse nella disputa sulla cioccolata che qualche secolo fa fece accapigliare i teologi una chiave per risolvere il problema della flessibilità che fa boccheggiare l’Unione europea? Sì, è vero: la teologia è una cosa; la politica e l’economia in teoria un’altra. Ma in tedesco la parola “Schuld” significa sia debito in senso economico che colpa in senso teologico: una particolarità di vocabolario che basta a spiegare molte cose. “Il capitalismo è un culto che non consente espiazione, ma produce colpa e debito”, scriveva già nel 1921 il tedesco Walter Benjamin. Ma anche la moderna critica radicale del capitalismo non nasce forse quando Marx legge quella famosa frase di Ludwig Feuerbach secondo cui “l’uomo è ciò che mangia”? Feuerbach l’aveva usata per presentare la “Scienza dell’alimentazione” di Jacob Moleschott, da cui aveva ripreso anche questo esempio: “Chi non conosce la superiorità del lavoratore inglese, che è reso forte dal suo roast beef, rispetto al lazzarone italiano, il cui vitto vegetale dominante spiega una grossa parte della sua inclinazione alla pigrizia?”.
Indro Montanelli risponderà che “i popoli si dividono in due categorie: quelli che cucinano con l’olio e quelli che cucinano con il burro. I primi sono quelli che hanno creato la civiltà, i secondi sono i discendenti dei barbari”. Filippo Tommaso Marinetti interiorizzerà invece il rimprovero, al punto da lanciare una famosa crociata contro gli spaghetti. Ma già la teoria che “i destini di un popolo dipendono dal suo cibo e dal suo regime” era stata esposta da Honoré de Balzac in un “Traité des excitans modernes” pubblicato in appendice alla “Physiologie du goût, ou méditations de gastronomie transcendante” di Anthelme Brillat-Savarin: gastronomo dopo essere stato rivoluzionario e deputato alla Costituente. “L’acquavite ha ucciso le razze indiane, io definisco la Russia un’autocrazia sostenuta con l’alcol. Chissà se l’abuso di cioccolata non c’entri qualcosa nella degradazione della nazione spagnola, che al momento della scoperta della cioccolata stava per rinverdire i fasti dell’impero romano. Il tabacco ha già fatto giustizia dei turchi, degli olandesi e minaccia la Germania”.
Attenti a quella cioccolata! Nel 1874 un “Dictionnaire encyclopédique des sciences médicales” pubblicato a Parigi spiega infatti: “Alle razze indogermaniche e anglosassoni, il tè; agli orientali, il caffè; alle razze latine, il cioccolato. Se i passatempi di un nuovo Brillat-Savarin gli consentissero di disegnare (seguendo il gusto del giorno) una carta a tre colori indicando l’area geografica di questi tre alimenti, il cioccolato non sarebbe rappresentato che da Francia, Spagna, Italia e le loro colonie americane o africane”. Sociologo e storico tedesco, nel 1980 Wolfgang Schivelbusch divenne invece famoso per una “Storia dei generi voluttuari” in cui distinse un’Europa protestante del caffè, bevanda da borghesia ascetica e operosa, da un’Europa cattolica del cioccolato, bevanda di un’aristocrazia indolente e oziosa.
La cioccolata calda in un quadro di Pietro Longhi
Eppure, è proprio in obbedienza a manie salutiste di chiara derivazione protestante se adesso negli Stati Uniti si sono messi in testa che è la dieta mediterranea a base di olio di oliva il toccasana per arrivare a cent’anni e superarli. Nel frattempo, il caffè si è a sua volta fatto talmente icona di italianità che Starbucks è diventata un colosso mondiale semplicemente copiando il nostro modo di prepararlo, mentre il paese più identificato con la cioccolata è oggi la calvinista Svizzera. E’ pure noto che nel 1830 furono i quaccheri Fry and Sons a inventare il modo di estrarre dai semi il burro di cacao, in modo da rendere possibili cioccolatini a buon mercato da mettere filantropicamente a disposizione del proletariato londinese al posto dell’alcol. E poi, a proposito della cioccolata “cattolica”, non bisogna dimenticare quella disputa teologica da cui siamo partiti, e cui ora è il caso appunto di ritornare.
La questione è stata ricostruita in dettaglio in particolare da Claudio Balzaretti: un biblista che al tema ha dedicato addirittura due libri. Uno del 2009: “Il Papa, Nietzsche e la cioccolata. Saggio di morale gastronomica” (Dehoniane, 256 pp., 19,70 euro). L’altro del 2014: “La cioccolata cattolica: Storia di una disputa tra teologia e medicina” (Dehoniane, 96 pp., 7,23 euro). “Se Cortes e Pizarro umano sangue / non estimar quel ch’oltre l’oceano / scorrea le umane mebra, onde tonando / e fulminando, alfin spietatamente / balzaron giù da’ loro aviti troni/ Re messicani e generosi Incassi; / poiché nuove così venner delizie, / o gemma degli eroi, al tuo palato”, ricordava l’abate Parini al “giovin Signore” protagonista del suo “Giorno”, su quante guerre si erano fatte per portare il “brun cioccolatte” nella sua tazza del mattino. E nel 1569 dunque qualcuno presentò a Papa Pio V una tazza di quel nuovo prodotto appena venuto dal Messico, chiedendogli se poteva essere bevuto in tempo di digiuno.
Oggi la questione può sembrare strana, perché sostanzialmente l’unico precetto alimentare che sembra essere rimasto nel mondo cattolico è quello del pesce di venerdì e in Quaresima: un obbligo che peraltro non rispetta più quasi nessuno. Ma un tempo, ci spiega appunto Balzaretti, la Chiesa catalogava ben tre tipi diversi di digiuno. Innanzitutto il digiuno naturale, o eucaristico, o sacramentale: astinenza dal cibo e anche dalle bevande prima di fare la Comunione, che una volta partiva dalla mezzanotte precedente, e che il Concilio Vaticano II ha ridotto a un’ora. E’ un divieto assoluto, e per questo i teologi del ’600 discutevano se lo interrompessero il fumare tabacco, o l’ingestione involontaria di frammenti di cibo rimasti tra i denti, o perfino l’inghiottire inavvertitamente un insetto. Il terzo tipo è il digiuno morale o ascetico, scelto liberamente come atto virtuoso che si contrappone alla gola. Ma in mezzo c’è il precetto dell’“astenersi dal mangiare carne e osservare il digiuno nei giorni stabiliti dalla chiesa”, che riguardava appunto il venerdì e la Quaresima. E solo nel 1966 il decreto “Paenitemini” ne cambiò le regole, consentendo la sostituzione di questa forma di penitenza con altre modalità.
Una scena del film "Chocolat" (2000)
Ancora il Codice Canonico del 1917 ricordava che oltre a “mangiare” di magro, per i fedeli tra i 17 e i 60 anni nei giorni di precetto c’era l’obbligo di farlo solo una volta al giorno: salvo problemi di salute e di lavori logoranti, e salvo una possibilità di prendere “qualcosa” la mattina e la sera secondo la quantità e la qualità delle consuetudini locali. Già un’evoluzione rispetto al rigorismo che nei secoli precedenti aveva discusso se uova, burro e formaggio potessero interrompere il digiuno. Il principio generale era che “liquidum non frangit”, cioè bere liquidi non infrangeva il digiuno. Pontefice della Crociata di Lepanto, Pio V non era un personaggio particolarmente accomodante. Guerra ai turchi a parte, chiuse gli ebrei nel Ghetto, ordinò terribili stragi di valdesi, confinò le prostituite e colpì duramente l’omosessualità. Però aiutò i poveri, vietò le crudeltà contro gli animali, e dopo aver sorbito quella tazza di cioccolato disse che si poteva prendere anche durante il digiuno. Anche se, insinuano i maligni, solo perché gli era sembrata una schifezza, e pensava forse che costituisse una penitenza aggiuntiva.
E così stavano le cose, quando nel 1591 uscì “Primera parte de los problemas y secretos maravillosos de las Indias”, di Juan de Cárdenas. Non un teologo ma un medico sivigliano, che era arrivato in Messico a 14 anni nel 1577, ed era diventato professore all’Università di Guadalajara. Tra le oltre 500 pagine di questa sorta di enciclopedia scientifica sul Nuovo mondo, un intero capitolo è dedicato alla domanda “se con il cioccolato, cacao e altri bibite si rompa o no il digiuno”. Parte in tono problematico, ma il suo tono si fa quasi subito sferzante: “Dicono alcuni che perché il cacao e le altre bibite sono cose che si bevono, per questo non si rompe con esse il digiuno, e su questo tenore potrebbero allora dire pure che il latte, l’atole (= una specie di frullato), le polente e anche alcune uova morbide e un petto di gallina macinato e disfatto in brodo, per essere cose che si bevono, non sarebbero causa di rottura del digiuno”.
“La decisione e determinazione di questo capitolo spetta più ai teologi che ai medici”, aveva messo le mani avanti, ma appunto palando da medico spiegava che il cacao “consta di una parte burrosa, molto appropriata a dare sostanza e ingrassare, e solo questa basta a essere causa di rottura del digiuno”, per cui chi la beve in giorni di precetto “fa peccato due volte”: perché rompe il digiuno, e perché appunto prende in giro “Dio e il suo confessore”. Ma anche un medico che si mette a rimproverare i teologi, secondo molti di questi ultimi, fa peccato: se non altro, perché li fa litigare tra di loro. Balzaretti avverte che in realtà gli schieramenti furono ampiamente trasversali, ma furono portati in particolare a schierarsi con Cárdenas i dominicani. I “Cani del Signore”, Domini Canes, che erano stati creati nella Spagna della Reconquista apposta per vegliare sull’ortodossia di ebrei e musulmani convertiti a forza, e per i quali le abitudini alimentari erano uno dei principali segnali di eresia: e non a caso la cucina ispanica si è sviluppata da allora a partire da un grande uso e abuso della carne di maiale. Contrapposti a loro, i gesuiti per convertire i non europei erano invece pronti agli adattamenti più spettacolari, fino a Bergoglio.
(immagine via Flickr di LongitudeLatitude)
Nel ’600 in Cina avrebbero cercato perfino di cristianizzare Confucio e il culto degli Antenati, nel XX secolo avrebbero sperimentato l’analisi marxista della società, ma già nel ’500 le loro Missioni erano riuscite a far adottare in Quaresima la carne di capibara, il roditore gigante dell’America Meridionale la cui carne assomiglia in realtà moltissimo a quella del maiale. I gesuiti spiegarono però che si tratta di “un animale che è squamoso ma anche peloso, e passa il tempo in acqua ma occasionalmente viene sulla terra”, in Vaticano dalla sommaria descrizione capirono che era un pesce, e da allora quella specie di topone è diventato una ricercatezza della cucina venezuelana per i giorni di magro.
Non a caso, dunque, fu il “dottor sottile” padre Antonio Escobar y Mendoza che nella sua monumentale “Teologia morale” diede la ricetta per il cioccolato a digiuno, letteralmente: un’oncia di cacao e una e mezza di zucchero, sciolte in acqua. Fino a quel punto, spiegò, è consentito. Di più, no. E’ un classico esempio di quella morale “probabilista” per cui i gesuiti furono tanto contestati, e non a caso Escobar y Mendoza fu oggetto sia della polemica di Pascal che della sfottitura di Molière. Ma alla fine sarà questa la tesi che si imporrà, anche se la discussione andrà avanti per un secolo e mezzo. Il giudice Antonio de León Pinelo, di Siviglia come Cárdenas, scrive ad esempio nel 1636 una “Questione morale se la cioccolata interrompa il digiuno”, in cui dopo aver confrontato sei argomenti a favore della tesi sul cioccolato-bevanda con sei argomenti a favore del cioccolato-cibo conclude anche lui che una chicchera di cioccolata con mezza oncia di cacao si può prendere. Come si vede, neanche quello sulla “modica quantità” è un dibattito nuovo…
Pinelo diceva però che la “modica quantità” di cioccolato, anche se non rompe il digiuno, ne fa perdere il merito. E di nuovo come con Cárdenas, allora, contro il laico proibizionista insorse una quantità di teologi liberali. Il Caracciolino Tomás Hurtado nel 1642 spiega che, se non ci si mette il latte, “l’opinione che la cioccolata non rompa il digiuno può definirsi molto probabile”. Poco dopo il Teatino Antonino Diana eleva la dose ammessa a due once: 60 grammi, che era poi la quantità tradizionale di cibo ammessa al di fuori dell’unico pasto dei giorni di digiuno.
Tagliamo corto sulle successive puntualizzazioni di Simón de Salazar, Leander de Santicsimo Sacramento, Gaspar Caldera de Heredia, Gaspar Bravo de Sobremonte, Tommaso Tamburini, Francesco Maria Brancaccioe poi Caldera, Viva, Pontas, Milante, Savino, Cozza, Roncaglia, Felini, Gudenfridi, Strozzi, Lancisi, Juanini, Della Fabra, Paradisi, Felici, Serafini, Avanzini, Zeti, Cocchi, Vallisnieri, Concina, per arrivare direttamente al commento che con concretezza tutta meneghina nel 1728 dà al dibattito il poeta milanese Carlo Mario Maggi nella sua “Elegia sulla cioccolata”: “Mentre gli studiosi gracchiano, io senza timore bevo”. Nel 1722, poi, Saint-Simon è testimone del re di Spagna che si strafoga di cioccolata in Quaresima, ma lo giustifica in qualche modo perché “lo fanno anche i gesuiti”.
Qualcuno dirà pure che di cioccolata avvelenata è morto Papa Clemente XIV, che nel 1774 ha soppresso la Compagnia di Gesù. “Io sono in mezzo tra il pugnale dei carbonari e la cioccolata dei gesuiti!”, dirà ancora nel 1843 Carlo Alberto di Savoia per spiegare le proprie titubanze. Ancora qualche anno, e dal 1880 i trappisti diventeranno produttori di una della miglior cioccolate del mondo. Una cioccolata cattolica ormai in concorrenza con quella calvinista degli svizzeri e con quella quacchera britannica.
Modica quantità a parte, oggi non è che sono in fondo molto diverse le dispute sull’accettabilità di un cibo tra vegetariani e vegani, o certe polemiche anti ogm, o più in generale le continue condanne o riabilitazioni salutiste del burro piuttosto che dello zucchero o della carne rossa. La teologia in Occidente si è laicizzata, ma non per questo è diventata meno capziosa. Ma, torniamo da dove abbiamo iniziato, non è forse il famigerato parametro del 3 per cento di disavanzo del Pil un moderno equivalente delle antiche Quaresime? E non sono forse clausole delle riforme strutturali, clausole degli investimenti e spese per terremoti e rifugiati, un succedaneo economico di quei 60 grammi di cacao che servivano a non svenire per il digiuno?
Il Foglio sportivo - in corpore sano