Tutti che piangono
Al funerale di Carlo Giovanelli, amatissimo interprete della mondanità internazionale che raccontava sui giornali da decenni senza mai perdere il suo sorriso lieve e complice, tutti avevano gli occhi umidi, ma nessuno piangeva. Piangere in pubblico è un’attività alla quale molti imparano a non abbandonarsi per nessun motivo fin da piccoli. Apprendono che si è liberi di piangere nel cuore, ma che piuttosto di lasciar scorrere le lacrime di fronte agli altri è meglio mordersi le labbra fino a farle sanguinare e aspettare di essere da soli, fra le mura di casa e con le porte chiuse. Ricorderete Jackie Kennedy impietrita con i suoi bambini, muti e storditi ma a occhi asciutti, davanti alla bara di John assassinato a Dallas. Adesso, cinquant’anni dopo, il dolore trattenuto ha la compostezza di Luciana Solesin, che si vede riconsegnare la figlia Valeria vittima del massacro del Bataclan in una bara coperta di fiori bianchi e non cede; non perché non vorrebbe morirci anche lei, fra quei fiori, stendercisi sotto e da lì lasciar uscire quell’urlo che le distorce i lineamenti e la soffoca, ma perché il contegno sul quale ha modellato la propria vita ha la meglio perfino su un dolore straziante come quello. Sa che piangere davanti agli altri non è dignitoso perché li mette in imbarazzo, costringendoli a simpatizzare con noi anche se non ne avrebbero voglia, e perché si dà spettacolo. Per questo, in televisione le lacrime sono diventate un format a sé. Un genere.
Funerali di Valeira Solesin unica vittima italiana dell'attentato terroristico a Parigi (foto LaPresse)
Che sia una scelta autonoma da parte di ospiti e conduttori per propiziarsi l’affetto del pubblico (nulla ammansisce i poveri come vedere i ricchi che piangono), o un suggerimento ex rege per contrastare il calo degli ascolti che affligge le reti generaliste, da qualche tempo sul piccolo schermo si piange per tutto, preferibilmente per niente. Pathos come se piovesse, commozione elargita a piene mani, cioè gratis. Piangere è un’azione democratica e alla portata di tutti. Per imparare a farlo a comando e senza i costi del metodo Stanislawskji c’è pure una pratica guida in diciotto passaggi su internet. I consigli sono vagamente jettatori (“prova a pensare che qualcuno a cui tieni si faccia male o a un evento particolarmente triste della tua vita”), talvolta masochistici (“sovrapponi le palpebre, portando quella superiore su quella inferiore“), ma centrano la questione e in ultima analisi anche il senso di questo articolo: “Non rischiare mai che la tua crisi di pianto diventi reale, con tutto ciò che ne consegue”, tipo trucco che cola e rughe di espressione accentuate. “Fingi che sia reale”.
Appunto. In questa prima edizione di “Grande Fratello Vip”, non fosse per la geniale vis drammatica di Ilary Blasi che dirige il traffico con il piglio sornione di Alberto Sordi a piazza Venezia e lo slancio seduttivo delle gemelle Kessler vestite da Forquet, ci si perderebbe in una valle di lacrime. “Marianaaa, ti hanno confermata, perché piangi? Piangi di gioia? Ecco, brava”. Ma quella niente, giù di nuovo a piangere, per ragioni incomprensibili a partire, almeno per me, dal motivo per cui si trovi lì e non, per esempio, sul set di un servizio fotografico o di qualche altra attività che, giovane e bella com’è, non le indirizzi già la carriera verso il presenzialismo televisivo a gettone come sta succedendo con questa detenzione volontaria sotto le telecamere.
Mariana Rodriguez, dunque, piange, e piange dallo scantinato posticcio della “Casa” anche Pamela Prati con toni mélo da primadonna (“io da bambina in parte questo l’ho passato. Uscirò di qui più forte di prima”), come se le si fosse abbattuta addosso una vera disgrazia e non, al limite, un po’ di intonaco della scenografia. La gara di pianto fra i partecipanti ha del surreale. Si contorce in una smorfia addolorata sul dramma dei migranti Costantino Vitagliano, star delle discoteche di provincia, e si commuove anche Stefano Bettarini, tonico e oliato come sui campi di calcio di vent’anni fa, per motivi che mi sfuggono come la sua attuale occupazione, ma che l’ospite fisso Alfonso Signorini, stimolato alla perfidia dalla soverchiante personalità della conduttrice, inchioda alla loro inconsistenza: “Anche i bronzi piangono”.
Nel vocabolario, le emozioni legate al pianto vanno dalla disperazione, il genere di lacrima che viene accompagnata dall’aggettivo “torrenziale” nei romanzi da lettura ferroviaria e che, come avrete intuito, è il campo semantico nel quale ci stiamo muovendo, fino alla stizza, alla rabbia, al dolore fisico, allo stress. Quest’ultima è la spinta scatenante del famoso “pianto liberatorio” che da qualche anno le riviste maschili consigliano ai manager testosteronici agli stessi scopi per cui in “Wolf of Wall Street” Matthew McConaughey consigliava a Leonardo DiCaprio e compagni una sessione masturbatoria nel bagno verso metà giornata. L’inarrivabile Ilary, non potendo fare altrettanto in prima serata, deve contentarsi di deviare la reazione ormonale degli ospiti più giovani sulle battute: “Andrea, da quanto sei fidanzato? Quattro mesi? Capisco”. Ad arginare con modi spicci questo fiume di lacrime, in tv sembra rimasta solo lei e speriamo che non si arrenda perché, se sulle reti generaliste si piange a profusione come fino a qualche mese fa si spadellava a tutte le ore, si piange e si spadella il doppio sui reality della pay tv dove, come il nome indica, lo spettatore paga, e dunque può esigere una dose supplementare di lacrime e di ricette delle cozze al gratin.
Si piange molto pure in edicola: questa settimana, per esempio, una rivista di gossip ha dedicato la copertina alle lacrime di Michelle Hunziker per il parto della sua cagnolina. Nella foto a corredo del servizio, a dire il vero, più che affliggersi sembra che rida contenta, ma su queste sfumature di senso preferirei si esprimesse Gianni Ippoliti nella sua rassegna stampa domenicale su Raiuno. Sapete com’è: riso e pianto sono due espressioni della stessa maschera e a volte si annullano. Le belle donne si fanno un punto d’onore di usarli alternativamente e a sorpresa “cangiando color / riso in pianto” come scriveva Guido Cavalcanti che questi capricci femminili mandavano ai pazzi. Più del pigolio capriccioso e manipolatorio, materia da intrigo, il pianto da spurgo è consiglio pregiato dei migliori terapeuti e d’altronde, la metafora è sempre lì ad aiutarci, dare la “stura alle lacrime” è un classico della letteratura da tratta Milano-Tortona a cui si accennava, oltre che il fondamento di buona parte dei canovacci televisivi delle ultime stagioni.
A ”Uomini e donne”, irresistibile magnete post prandiale per mamme casalinghe e adolescenti svogliati, si piange almeno quanto si strilla. La nostra diletta Barbara d’Urso ha costruito una carriera sulle lacrime sue e degli ospiti, alla faccia del premier Matteo Renzi che tiene in uggia la cultura italo-basica del piagnisteo ma che pure si presenta spesso, davanti alle telecamere della domenica di Canale 5, aggirando circospetto i rigurgiti di commozione di cui la nostra vorrebbe farlo oggetto. La scorsa stagione, gli autori di Piero Chiambretti che si cimentava in un programma di ironico rincalzo all“Isola dei famosi”, intrigati dalle lacrime che i naufraghi lasciavano scorrere liberamente da mattina a sera si misero a studiare il fenomeno per capire se fosse possibile trarne qualcosa di buono per il copione. Finirono sulle “Historias de cronopios y de famas” di Julio Cortázar, raccontini morali di sopravvivenza a se stessi e alle proprie attitudini (per sintetizzare: se siete precisini e affidabili siete cronopios. Se creativi e pasticcioni potete fregiarvi del titolo di famas) che alla gestione accorta delle lacrime dedica, non a caso, il primo consiglio. Per Cortázar, il “corretto modo di piangere” non deve infatti sconfinare nelle urla e tanto meno trasformarsi in un insulto al sorriso, cui deve “una parallela e goffa somiglianza”. E’ piuttosto un singulto chiaro, deve durare al massimo tre minuti e prevede un passaggio indispensabile alla credibilità, e cioè il moccio al naso. Credo che per i professionisti del genere sia la fase più difficile, perché imbruttisce, luccica traslucido sotto le telecamere e sporca come bava di lumaca. Infatti in televisione non si vede mai, e raramente al cinema. Riuscite a immaginare Greta Garbo con la candela al naso, o Monica Bellucci? Se Quentin Tarantino avesse deturpato il volto di Jennifer Jason Leigh di moccio sarebbero insorte le femministe. L’ha fatto di sangue rappreso, tutto ok. Il moccio al naso va bene per il monello di Chaplin e per quei mostriciattoli dei Simpson, sui quali può essere disegnato a piacere; comunque su carnagioni infantili tese e paffute, sulle quali assume i toni della tenerezza. Dopo i quarant’anni, diventa lo spettacolo dell’orrore. Certe ospiti della casa del “Grande fratello vip” non tirerebbero su col naso neanche sotto tortura.
A proposito. Qualche giorno fa, ricapitandomi fra le mani la raccolta delle fiabe di Antonio Gramsci e delle lettere ai suoi bambini dal carcere, mi sono imbattuta nel suo racconto di un altro tipo di pianto: il pianto della fatica, delle membra che dolgono dopo lo sforzo (“ho incominciato a lavorare da quando avevo undici anni, compresa la mattina della domenica, e me la passavo a smuovere registri che pesavano più di me e la notte piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo”). E’ il pianto dei bambini nelle fabbriche dei romanzi vittoriani, qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle, che abbiamo dimenticato e che non riusciamo più a capire, quando lo vediamo nei reportage dal Bangladesh. Abituati come siamo alla rappresentazione del pianto, stentiamo a riconoscerlo nella sua realtà. Anche il pianto ha una sua grevità storica e sociale. Noi abbiamo imparato a farlo per categorie, in astratto. Esiste un pianterello da sala cinematografica, quello della famosa battuta sul film che “ci è tanto piaciuto, abbiamo pianto”; quello da spettacolo televisivo del dolore, che ricerchiamo per vivere anche sulla distanza il momento di catarsi con chi lo manda in scena, liberandoci delle ansie grazie all’abilità recitativa e alla sofferenza reale, simulata o enfatizzata degli altri, cioè assumendo un avvenimento doloroso o commovente accaduto ad altri per dispiegare la nostra sofferenza per tutt’altre ragioni. In genere, come si scriveva, preferiamo piangere per motivi inessenziali.
In un saggio uscito alla fine dello scorso decennio, Maurizio Ferraris osservava quanto sia facile commuoverci per il personaggio fittizio di un romanzo e scavalcare un mendicante, mutilare un animale o uccidere un nostro simile senza provare la benché minima emozione. “C’è chi non riesce a piangere per una moglie vera eppure singhiozza disperatamente per la fine della povera Anna Karenina. E c’è chi ha pianto a dirotto per la morte di lady D annunciata in mondovisione, ma non è stato capace di versare una sola lacrima nel compiere quell’omicidio che l’ha portato in uno dei 'bracci della morte' americani”. Dei due assassini della famiglia Clutter, Truman Capote non riusciva a superare innanzitutto la mancanza assoluta di lacrime, segno di pentimento o di “coscienza”, come si dice in questi casi. Il pubblico, come gli scrittori, ha bisogno di lacrime. Chi non piange per i delitti commessi, è doppiamente colpevole. Siamo disposti a rendere omaggio, o a renderci complici, di chi piange per intrattenerci o per suscitare la nostra compassione, quando riesca nel suo intento come sanno fare i grandi attori. Ma non facciamo sconti a chi non sappia spargere lacrime amare sui propri errori né a chi non riesca a indirizzare le proprie lacrime entro quei codici, quella norma, che riteniamo legittima e autentica. Si può piangere e ridere solo a certe condizioni; se si piange o si ride senza rispettarle (l’orrido Franti di De Amicis che ride del dolore dei compagni, per noi generazione costretta alla lettura di Cuore era un passaggio insopportabile), allora si esclude che si ride o che si pianga veramente. Per questo, alle lacrime di Costantino Vitagliano non crede nessuno e, a quanto ho capito, tutti si stanno coalizzando per buttarlo fuori dalla casa. Decisamente, non è un bravo attore. Un danno per l’intera compagnia.
Il Foglio sportivo - in corpore sano