Andrzej Wajda, regista a pennello
"Sono diventato regista per caso. Volevo fare il pittore, avevo delle reali ambizioni in questo senso: ero convinto di diventare un grande artista. Ma non è andata così. E dopo tre anni ho lasciato l’Accademia per la Scuola di cinema di Lódz. Però non ero del tutto convinto del mio destino, che la mia strada fosse quella. Fu il caso a determinare il mio futuro. Ero in vacanza al mare e, poiché il tempo era brutto, decisi di partire e tentare gli esami per entrare nella scuola di cinema. Se il tempo fosse stato bello sarei rimasto al mare, ma come spesso accade è stato il caso a decidere…”.
Autore di quaranta film e di quasi altrettante regie teatrali Andrzej Wajda (Suwalki, 6 marzo 1926 - Varsavia, 10 ottobre 2016) è un artista non facilmente comprensibile senza conoscere la Polonia e la sua drammatica storia. Questo è il motivo per cui i suoi capolavori (come: I dannati di Varsavia, 1957; Ceneri e diamanti, 1958; Tutto in vendita, 1968; Il bosco di betulle, 1970; Le nozze, 1970; Paesaggio dopo la battaglia, 1970; La terra della grande promessa, 1974; Le signorine di Wilko, 1974; L’uomo di marmo, 1976; Senza anestesia, 1978; Korczak, 1990; Katyn, 2007) sono stati apprezzati nel mondo soltanto per i loro valori formali e per la denuncia politica, ma non hanno mai avuto il successo di pubblico che avrebbero meritato.
La pittura è stata fondamentale nella vita e nell’attività artistica di Wajda. Anche mentre passeggiava, di continuo cavava di tasca il suo inseparabile quadernetto, si fermava e in piedi si metteva a disegnare le cose più svariate: alberi, statue, variopinte biciclette, volti, gatti e cagnetti… Nel disegno nasceva l’idea di una scena di un film. La fotografia, spiegava, non gli avrebbe poi permesso di ricostruire l’interpretazione e la suggestione di quell’oggetto, in quel dato momento.
I suoi film sono stati costruiti sequenza per sequenza, disegnando ogni scena e, spesso, “animando” dipinti famosi. Come nel caso de Le nozze, tratto dal dramma dello scrittore e pittore della fine dell’Ottocento Stanislaw Wyspianski, dove molte delle scene sono il calco vivente di quadri di Wyspianski stesso. Wajda si definiva spesso “uno strano pittore, un costruttore di immagini”: uno che traduce la letteratura e la vita “in cose che si vedono e stanno tra loro in un particolare ordine di immagini, il mio ordine”.
In uno dei suoi film più disperati – girato non caso nel 1968, in uno dei momenti più neri nella storia recente della Polonia – intitolato Tutto in vendita (e dedicato all’amico attore Zbygniew Cybulski, morto l’8 gennaio 1967 sotto un treno, nel tentativo di prenderlo al volo), Wajda fece rifugiare il suo alter ego, l’intenso attore Andrzej Lapicki, in una galleria dove erano esposte le tele del pittore “esistenzialista” Andrzej Wróblewski (1927-1957): “Andrzej è stato il mio grande amico. Morì suicida alla fine degli anni Cinquanta. E’ stato il più grande pittore polacco del Dopoguerra. Era stato membro del Partito e un acceso sostenitore del sociorealismo. La sua rottura con quell’ideologia e quel modo di fare arte la visse come una profonda, insanabile, lacerazione. Avrei voluto tanto fare un film su di lui. Avevo chiesto al poeta Stanislaw Czycz, che aveva scritto un fantastico racconto, And (1967), sugli anni Cinquanta, di preparami una scenaggiatura. Ma poi non se ne fece più nulla”.
Ma questa idea, dalle forti tinte autobiografiche, era rimersa come un fiume carsico negli ultimi anni. In alcune occasioni, Wajda aveva detto di voler fare il suo ultimo film proprio sul pittore Wròblewski. Alla fine prevalse l’idea di concentrarsi sulla figura di un pittore completamente all’opposto, prima esponente dell’avanguardia del Costruttivismo, e poi strenuo, e coraggioso, assertore dell’Astrattismo: Wladyslaw Strzeminski (1893-1952). E così è nato l’ultimo film, Powidoki (Immagini residue), che a questo punto molti vedranno come il suo “testamento”, di recente presentato al 41° Festival internazionale di Toronto e candidato per la Polonia all’Oscar. Wajda lo ha presentato così: “Da molto, da anni volevo occuparmi di un pittore che, nel 1949, abbandona l’Accademia di belle arti di Cracovia per andare a studiare alla Scuola di cinema di Lódz. Sentivo di doverlo fare. Spero che la figura di Wladyslaw Strzeminski mi permetta di portare sullo schermo il destino di uno dei più consapevoli artisti polacchi e il suo conflitto con le autorità. Gli dette la forza di opporsi al potere proprio la consapevolezza della strada che deve percorrere l’arte dei nostri tempi, e che Strzeminski espresse nel suo libro Teoria widzenia (Teoria dello sguardo, 1958): la certezza che non esiste altra strada che l’astrattismo, dal momento che la pittura tematica e il postimpressionismo hanno già detto tutto quello che dovevano. Ho fatto un ritratto di un uomo inflessibile, sicuro della sua strada, che percorse per tutta la vita dedicandosi a un’arte non per tutti. Un insostituibile pedagogo, creatore nel 1934 a Lódz del Museo di arte contemporanea, secondo in Europa e nel mondo. Dalla vita di Strzeminski, per il mio film, ho scelto gli anni bui 1949-1952, quando la sovietizzazione della Polonia aveva assunto la sua forma più violenta, e il realismo socialista era diventato la forma obbligatoria di espressione nell’arte. Sono cosciente che film così l’odierna cinematografia polacca non li realizza, ma proprio per questo l’immagine degli anni Cinquanta, che hanno con sé varie implicazioni politiche nel mio ambiente che ne fu testimone, può essere molto interessante per lo spettatore cinematograficio”.
Wajda ho incarnato e interpretato, come nessun altro intellettuale polacco, l’autocoscienza del suo paese. Le sue opere sono sempre sorte come personale riflessione e denuncia di un particolare momento della storia della Polonia e hanno puntualmente suscitato accese discussioni e polemiche.
Un tema che stava molto a cuore a Wajda era quello della Decadenza. Come molti altri intellettuali polacchi viveva la tragica cadenza della storia del proprio paese come il segno di un lento scivolare dell’occidente verso l’abisso. Un abisso però senza clamori, del quale a malapena ci accorgeremo. Come nella poesia del Premio Nobel Czeslaw Milosz Canzone sulla fine del mondo: “Il giorno della fine del mondo / L’ape gira sul fiore del nasturzio, / Il pescatore ripara la rete luccicante. / Nel mare saltano allegri delfini/ (…) E chi si aspettava folgori e lampi. / Rimane deluso. / E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli, / Non crede che già stia avvenendo…”.
Pur essendo attentissimo e partecipe delle vicende politiche della Polonia, dopo il 1989 fu addirittura senatore per il raggruppamento legato a Solidarnosc, Wajda a volte si esprimeva davvero come il figlio di un’altra epoca. A proposito della traduzione polacca del mio libro L’immaturità, mi scrisse sorprendentemente: “I giovani non maturano più perché manca loro una rigida educazione militare!”. Per spiegare i problemi del suo litigioso paese, diceva spesso con rammarico: “Sta definitivamente scomparendo la generazione di prima della guerra, che aveva fatto buone scuole, conosceva il latino, credeva nei valori, aveva il culto della verità… Aveva il mito di Józef Konrad Korzeniowski”. Meglio conosciuto come Joseph Conrad.
Wajda, come tutti quelli della sua generazione, si era formato nel culto dei valori conradiani: “Nel 1966 un famoso produttore americano mi propose di girare un film tratto da Cuore di tenebra. Non se ne fece niente. Coppola ha poi girato Apocalypse now e credo che abbia trovato la formula giusta per fare un film da Conrad: soltanto allontanandosi dal modello dello scrittore si può creare una situazione nella quale si può dire ciò che Conrad aveva espresso. Io forse avevo letto troppo quel libro. Non so se sarei stato in grado di farne un buon adattamento. Però Coppola l’ha letto troppo poco, ha dimenticato di leggersi la fine. E invece Conrad aveva scritto quel romanzo proprio per la fine. E’ lì la cosa più importante: Marlowe (nel film mi sembra si chiami Willard) torna a Londra, va dalla fidanzata e le dice che Kurtz è un uomo a posto. Così si comporta un vero gentleman, un polacco! Nessun altro si comporterebbe così. Se Coppola avesse fatto tornare Willard e dire al figlio di Marlon Brando che suo padre era uno perbene, avrebbe sconvolto tutta l’America! Da Conrad ho invece girato, nel 1976, La linea d’ombra, che è un libro sul passaggio all’età adulta. La linea d’ombra è quell’incerto tratto che separa l’adolescenza luminosa dell’età matura che invece è in ombra. Nel film ho ceracato di descrivere quel momento, terribile e meraviglioso allo stesso tempo, un momento di grande paura in cui bisogna prendere delle decisioni da cui dipende la vita degli altri. I soggetti dei romanzi di Conrad sono molto lontani da noi, ma c’è in lui un particolare moralismo, una prospettiva esistenziale che è molto vicina a una certa tradizione spirituale polacca”.
Questa “tradizione spirituale polacca” è particolarmente evidente in due dei film più recenti di Wajda, emblematici del suo rapporto con la Storia: Katyn (2007) e Czlowiek z nadziej (L’uomo della speranza, 2013). Katyn fa i conti con una tragedia personale e collettiva rimasta per troppo tempo occultata. Nell’aprile del 1943, proprio mentre infuriava la rivolta del ghetto di Varsavia, i tedeschi, che occupavano il territorio sovietico, scoprirono nella foresta di Katyn, nei pressi di Smolensk, delle fosse comuni con i corpi di 4.500 ufficiali e soldati polacchi, uccisi ognuno con un colpo alla nuca. Dall’analisi dei cadaveri emerse che erano stati uccisi nella primavera del 1940 (quando quel territorio era sotto il controllo sovietico). Tra gli ufficiali polacchi uccisi c’era anche l’ufficiale di cavalleria padre di Wajda, che, assieme alla madre, ignorò per molti anni la verità, sperando in un miracolo e poi dovette nascondere per decenni questo “macchia familiare” per non rischiare la propria carriera. Il suo film è una dolorosa resa dei conti con queste contraddizioni, e drammi, personali e collettivi, ma anche un ristabilimento oggettivo della verità dei fatti. Una ricostruzione impietosa di un massacro per troppi anni occultato e dell’ostinazione di un popolo che caparbiamente ha lottato per il ristabilimento della verità e per dare delle tombe a quei morti innocenti (particolarmente forti, nel film, sono le figure di coraggiose donne-Antigoni) e che è chiamato a rivivere quella tragedia, nell’ultimo quarto d’ora del film, attraverso le terribili immagini dell’impietosa e meccanica ripetizione delle esecuzioni, come in una fredda sala di un macello.
L’altro film, L’uomo della speranza, è dedicato al fondatore di Solidarnosc, Lech Walesa. Un film bello e niente affatto retorico, a volte persino assai ironico, basato su un sapiente montaggio di spezzoni documentari d’epoca e ricostruzioni girate oggi con gli stessi personaggi. L’ossatura del film ruota attorno all’intervista che Oriana Fallaci fece, recandosi apposta a Danzica, a Walesa, pochi giorni prima del colpo di stato militare del 12 dicembre 1981. Incalzato dalle domande, anche molto irriverenti, Walesa finì con l’aprirsi e, come nel film (la sceneggiatura è dello scrittore Janusz Glowacki), mostrò anche lati più privati della sua figura. Walesa, come si vede bene anche nel film, fu uno che subì violenze fisiche, umiliazioni e ricatti (Wajda non tace nemmeno sul controverso episodio di quando, agli inizi, richiuso per l’ennesima volta in prigione, accettò di firmare un foglio che lo chiamava a collaborare con la polizia), ma mantenne sempre la schiena dritta, aiutato da una solida fede religiosa e dall’ostinata convinzione che, avendo ragione, prima o poi lui e i suoi operai avrebbero vinto. Spicca nel film la forte figura di sua moglie Danuta, madre di sei figli, disperata per la loro situazione economica e famigliare, ma sempre accanto a lui, anche quando non lo capiva. Il racconto si ferma al 1989: il momento della vittoria, quando il regime comunista accettò di discutere del futuro della Polonia attorno a una “tavola rotonda”. Nel film non si vede la fase successiva dove Walesa, divenuto addirittura presidente della Repubblica polacca, non si dimostrò del tutto capace di coprire quel ruolo istituzionale così diverso e lontano da quello che aveva interpretato nei cantieri di Danzica.
Occorre infine ricordare il rapporto profondo di Wajda con l’opera di Fëdor M. Dostoevskij. A lui è legato, tra l’altro, il suo capolavoro come regista teatrale: uno spettacolo intitolato Nastazja Filipowna (1977), tratto dall’ultimo capitolo dell’Idiota (che, nel 1994, Wajda traspose anche per il cinema: Nastazja, con l’attore giapponese Tamasaburo Bando). Wajda allestì una semplice scena dove i due protagonisti, il principe Mysˇkin e Parfen Rogozˇin si incontrano sul cadavere di Nastas’ja/Nastazja. Due attori soltanto (i bravissimi Nowicki e Radziwilowicz), una candela, un’icona, una vecchia scrivania, due sedie. Gli attori recitavano, improvvisando varie parti del romanzo, assemblando le frasi come sotto l’effetto di una scossa elettrica, rischiarati soltanto dalla candela davanti a un’icona: un piccolo segno luminoso che stava a ricordare l’esistenza di una seppur flebile speranza, un’alternativa al male e, allo stesso tempo, mostrava la sua buia potenza.
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