Sessista sarà lei
Si leggono molte cose, in quel tweet che durante il secondo confronto televisivo fra i due candidati alla Casa Bianca ha ridicolizzato i Trump sul tema della pussy, trovando un malizioso collegamento fra la camicia Gucci di Melania col fiocco al collo, in gergo tecnico-modaiolo “pussy bow”, e le accuse di sessismo a Donald Trump per essersi vantato, in un video, di prendere le donne “by the pussy”, in gergo tecnico-italico “per la fica”. In quel tweet si legge, per esempio, che chi l’ha scritto non è un maschio eterosessuale, perché sfido chiunque di voi lettrici ad affermare che vostro marito o il vostro fidanzato avrebbe saputo identificare correttamente in pochi secondi la camicia per stile, griffe e collezione, avere la prontezza di metterla in relazione con la boutade machista di Trump e aggiungervi in sovrappiù la rilevante e perfida informazione sul prezzo (millecento dollari, più di quanto guadagni un operaio della Chrysler in un mese).
In caso fosse in grado di farlo, se anzi vi domandate come mai non abbia digitato lui per primo quel tweet, vi consiglio di fare più attenzione quando dice di andare a giocare a calcetto. E con questo, avrete capito che pecco di sessismo anche io, come chiunque altro. Sono infatti convinta che un uomo eterosessuale si sarebbe accorto della camicetta solo se Melania se la fosse tolta in mezzo allo studio. Solo una donna, o un omosessuale, avrebbe potuto non soltanto conoscere, ma anche sovrapporre informazioni così eterogenee di stile, di cultura, di moda, in un tweet che è diventato trend topic in una manciata di secondi, distraendo quindi milioni di persone dal tema delle intemperanze sessuali di Bill Clinton e della copertura che per decenni gli ha garantito Hillary per rifocalizzarlo sul sessismo di The Donald, e annullando per di più l’effetto potenzialmente esplosivo dei milioni di mail (trentacinque) inviate da Hillary Clinton attraverso il proprio server privato per la corrispondenza con il dipartimento di stato.
Hillary Clinton e Donald Trump (foto LaPresse)
Solo una donna, o appunto un omosessuale che sa di moda, può calcolare fino a che punto l’elettorato povero e bianco di Trump riesca a imbufalirsi per una camicetta che costa millecento dollari e quello multiculturale e radical chic di Hillary a provare fastidio per l’acquiescenza di Melania nei riguardi dei gusti voraci e brutali di Donald, anche se sappiamo tutti che il mondo, esattamente come il giro delle nostre conoscenze, pullula di donne pronte a farsi prendere anche per i capelli dal primo idiota che passa purché provvisto di un po’ di denaro, sebbene ci secchi da morire ammetterlo. Almeno dalle nostre parti, troviamo indecente che un candidato alla presidenza degli Stati Uniti vada in giro da vent’anni a dare delle “cagne” alle donne mentre sventola il suo conto in banca con una mano e nasconde i bollettini delle tasse non pagate con l’altra; allo stesso modo, nel mio e nel nostro infinitesimale piccolo televisivo, ci pare incredibile che ogni domenica su Canale 5 si continui a dare spazio a quel volgare misogino del farmacista Lemme definendolo, per colmo di ridicola scelleratezza, un vip, che fra l’altro è definizione cafona di suo.
La questione, però, è un’altra, ed è che se il sessismo è odioso, è altrettanto vero che nessuno di noi riesce a sfuggirgli, in un modo o nell’altro. E’ una caratteristica ambosessi, o se vogliamo no gender perché qualunque gruppo sociale o sessuale nutre una qualche avversità e molti pregiudizi nei confronti del diverso, dell’altro da sé, fosse solo per farci sopra dell’ironia o, al contrario, crogiolarsi in quel narcisismo piagnone che è il motore della nostra società, oltre che una buona fonte di reddito per i mercanti del vittimismo, terapeuti e gruppi di ascolto in testa. Con questo, non voglio dire che noi donne non abbiamo qualche millennio di motivazioni per stare sul chi va là, considerando quanto ci è costato ottenere il diritto allo studio, al voto e a una paga almeno decente, e quanto ora rischiamo grosso tollerando che nelle nostre città vengano segregate migliaia di donne immigrate a cui questi diritti vengono negati da una cultura che reputa la nostra un’eresia e che si rifiuta di adeguarvisi senza che nessuno ritenga necessario prendere provvedimenti. Ma addebitare comportamenti sessisti ai soli maschi bianchi mi pare discriminatorio.
Per quale motivo le ragazze americane, e da un po’ anche le nostre, hanno il diritto di chiamarsi fra loro “slut” e “bitch”, cioè puttana e stronza, di riderci sopra e di fare di quegli insulti lo spunto per una serie di t shirt tanto divertenti, ma chiunque altro lo faccia merita la galera e una pubblica condanna? Un insulto è un insulto è un insulto, da chiunque provenga, non vedo perché si debba godere di una franchigia di genere. E poi, siamo oneste, anche noi donne nel sessismo sguazziamo con voluttà. Offrite a due signore che si detestano uno spunto per dibattere sulle disabilità casalinghe e sessuali dei rispettivi mariti e vedrete se non ne verranno fuori amiche per la pelle.
L’ambiente dei pubblicitari ne è talmente conscio che, negli spot televisivi mirati alle consumatrici, le famose responsabili d’acquisto che nel nostro paese e in materia di detersivi e merendine sono ancora e perlopiù donne, gli uomini sono invariabilmente descritti come dei cretini integrali, dei minus habentes incapaci di distinguere un collant da un paio di jeans, come accade nello spot dei Tampax, avrete di certo presente il claim: “Facile. A prova di uomo”, cioè a prova di idiota, Tampax for dummies, e poi ditemi se questo non è sessismo, al di là del fatto che chissenefrega che un uomo sappia o meno come si infila un tampax e non fatemi scrivere altro. Ho l’impressione che se gli uomini etero non si sentissero un po’ sotto tiro, ultimamente, inizierebbero anche loro a rivolgersi al Codacons come le associazioni delle mamme: la comunicazione per così dire progressista, che si presta a spiritosi commenti sui media e a discussioni colte, è rivolta infatti alle coppie omosessuali, vedi le ultime campagne Ikea. In quella tradizionale, gli uomini sono perlopiù dei trogloditi o dei bambinoni di cui le mogli devono sopportare con un sorriso la goffaggine e rimediare con affetto alle malefatte.
Poi, per carità, è ovvio che protestare a voce altissima sia servito e che senza l’ideologia femminista, talvolta perfino scellerata come quella che una decina di anni fa ha imposto la rimozione di una copia della “Maja desnuda” da un’aula dell’Università della Pennsylvania, non ci saremmo mai liberate delle pubblicità con le biondone in tuta scollata e la pompa di benzina in mano, un classico degli anni Settanta (“scappa con Superissima”, firmava la Bp dei disastri ambientali, allora molto in auge), o di certe insostenibili volgarità come i cartelloni per le sigarette Tipalet (“soffiale in faccia e ti seguirà ovunque”) da cui Trump deve aver tratto qualche ispirazione e forse anche la Mina dell’“uomo quando sa di fumo”. Ma se vogliamo riconoscere nella comunicazione commerciale uno specchio, pur arretrato e volutamente kitsch, della società, non ci sono dubbi che le donne siano riuscite a liberarsi di buona parte degli stereotipi di cui erano vittime, mentre gli uomini etero continuano a restare inchiodati all’immagine dello sciroccato che parla con le galline o del mononeuronico fissato con lo sport e soffocato dal lezzo dei propri calzini.
Sul terreno sessista delle abilità multitasking si scontrano per esempio da decenni schiere di studiosi delle università più o anche meno prestigiose. Nelle ultime ricerche, noi donne siamo date per vincenti “soprattutto in condizioni di stress”: pare che riusciamo a destreggiarci fra più impegni contemporaneamente senza perdere la brocca, e dev’essere vero, visto che due fra i manager maschi cacciati dall’amministratrice delegata di Yahoo Marissa Mayer per inadeguatezza a certi test di rendimento da lei concepiti, l’hanno appena denunciata per discriminazione di genere. A detta dei due, i criteri di valutazione sarebbero stati ideati dalla Mayer per favorire le multiformi abilità femminili e non, suppongo io perché i termini della questione non sono ancora venuti fuori, lo spirito imprenditoriale o l’aggressività maschili. Vedete bene come, più si sale nella scala del potere, meno se ne viene fuori. La guerra per bande di genere pare una costante.
Quello che, però, dovrebbe spaventarci di più di questa crociata, e che il Foglio ha messo in rilievo in più occasioni, è il rischio che nell’intemerata sessista, nel rogo delle nequizie in desinenza maschile, finiscano millenni di storia, di filosofia, di letteratura, che significa anche di informazioni utili per capire come si sia formata, questa maledetta sperequazione. D’accordo, Trump gonfia i guancioni ed espelle l’esplosiva P di “pussy”: ma non è che al prossimo giro tiriamo una riga sui nostri Scapigliati perché nei loro racconti picchiano e insultano le prostitute che non sono pure e vergini come la donna amata? Li prendiamo alla lettera come Trump il maialone da spogliatoio e li cancelliamo dai libri di storia della letteratura, oppure li contestualizziamo nel loro periodo storico e vediamo di rifletterci sopra?
E ancora. Che facciamo con il genere musicale del pussy rap, che su YouTube, dov’è vietato ai minori, scandiscono anche le ragazzine mentre battono ritmicamente la mano sul cavallo dei pantaloni? La società del distinguo sessista è la stessa che nel giro di tre giorni ha scaricato due milioni novecentomila volte la cover di Mike Dean sullo sfondone di Trump: “Grab ’em by da pussy”, con il “da” dello slang afroamericano già inserito al posto del “the” per sfregio, ma che sarebbe pronta a gettare in un infernetto librario tutta la letteratura ipoteticamente sessista, cioè praticamente tutta la letteratura occidentale da Omero a Franzen. Due giorni fa, Sonja Drimmer, storica della Columbia University, ha fatto notare che nel Racconto del mugnaio dei Canterbury Tales, l’espressione usata da Trump compare pari pari, anzi, perfino con un gioco più incisivo di doppi sensi (nel testo italiano, la “queynte” che sta sotto le gonne della giovane moglie del mugnaio viene tradotta come “piacevole cosina”, ma in realtà ha un significato più sporco e più ambiguo).
Per fortuna, nessuno ha ripreso l’osservazione, altrimenti la polizia del pensiero unico anti-sessista avrebbe messo all’indice anche Geoffrey Chaucer e, dandole ascolto, tante fra noi rischierebbero di perdersi anche quella campionessa di astuzia femminile che è la comare di Bath, che aveva Mercurio e Venere contrari e perciò dovette prendersi cinque mariti. La lista degli “ottanta libri che le donne non dovrebbero mai leggere” esiste già, l’ha redatta la scrittrice femminista Rebecca Solnit ed è stata oggetto di un accesissimo, recente dibattito negli Stati Uniti. Potete facilmente immaginarvi chi ne faccia parte: Ernest Hemingway e Charles Bukowski, Henry Miller e Jonathan Franzen. Tutta gente che, secondo la Solnit, “ha scritto libri solo per dimostrare che le donne sono feccia o non meritano proprio di esistere, se non come accessori, e che sono intrinsecamente cattive e vuote”.
Al di là del fatto che l’eventuale sessismo di un autore nulla toglie alla qualità della sua scrittura e all’interesse anche storico, comparativo, delle sue argomentazioni, si potrebbe obiettare che con il personaggio di Denise, nelle Correzioni, Franzen abbia offerto una delle migliori descrizioni del desiderio omosessuale femminile, e che più volte si sia espresso contro la cultura machista, per esempio in Libertà. Ma non è questo il punto: il punto è che un gruppo di pensatrici femministe ritenga necessario preservare il cervello, o forse sarebbe meglio dire il cervellino, delle altre donne dall’inquinamento di pensieri e opinioni a loro dire pericolose, insinuando dunque che siano prive della capacità di formarsi una propria opinione e di distinguere il bene dal male. E questo, se mi permettete, è quanto di più illiberale e sessista si possa immaginare. Centomila volte peggio che farsi afferrare per la fica.
Il Foglio sportivo - in corpore sano