Stéphanie D’Oustrac in “La voix humaine”, testo di Jean Cocteau, musica di Francis Poulenc: un allestimento francese di alcuni anni fa

Mi telefoni o no?

Annalena Benini
Piccolo galateo della comunicazione, dalla scomparsa al ritorno coraggioso dello squillo. Ma fate attenzione: è importante evitare le risate scritte e i memo vocali fra adulti

Quando credevo di vivere dentro una canzone, cioè dentro “Buona domenica” di Antonello Venditti, era tutto molto semplice e ordinato. Era sì o no. C’era un telefono dentro casa, si passava la giornata ad aspettare che suonasse, ad alzare la cornetta ogni ora per capire se dava libero, si ringhiava contro madri, sorelle, parenti di passaggio che telefonavano tranquilli, si facevano gestacci dal corridoio, “Metti giù, metti giù”, con la faccia aggressiva ma anche disperata. Poi, quando finalmente il telefono suonava (non come nelle parole di Venditti, “tanto il telefono non squilla più e il tuo ragazzo ha preso il volo”: lo detestavo però avevo bisogno di sentire quella strofa continuamente), si cambiava voce ma anche corpo, nel tentativo di aderire completamente alla cornetta e di sparire lì dentro, una parola dopo l’altra. Il desiderio era concentrato sopra quel tavolino, il tavolino del telefono, e c’era chi sceglieva di non uscire mai o di tornare più volte al giorno a casa per controllare i messaggi in segreteria, per questo era importante abitare non lontano dal centro. Alcune volte il problema era diverso, e bastava pagare sempre la solita sorella perché rispondesse: “Non è in casa, non so quando torna”, per dividere ancora il mondo in due, e passare dalla parte di quelli che non soffriranno mai più. Era il secolo scorso, e anche nei pochi anni in cui abbiamo camminato con grossi telefoni neri in tasca, era sempre Dorothy Parker a raccontare l’attesa e lo strazio, la rabbia e la speranza. “Ti prego, Dio, fa che chiami adesso. Caro Signore, fa che chiami adesso. Non Ti chiederò mai nient’altro, giuro. Non Ti chiedo poi molto. Per Te sarebbe proprio una cosetta da niente. Oh Dio, una cosettina, ina ina. Ma fa che chiami adesso. Ti prego, Dio. Per favore, per favore, per favore. Forse se non ci sto a pensare, il telefono squillerà. A volte succede. Se solo potessi pensare a qualcos’altro. Se solo potessi pensare a qualcos’altro. Forse se contassi fino a cinquecento, cinque alla volta, alla fine potrebbe squillare. Conterò lentamente. Niente imbrogli. E se dovesse squillare quando arrivo a trecento, non rispondo: non risponderò prima di essere arrivata a cinquecento. Cinque, dieci, quindici, venti, venticinque, trenta, trentacinque, quaranta, quarantacinque, cinquanta… Oh ti prego, squilla. Per favore. Questa è l’ultima volta che guardo l’orologio. Non lo guarderò più. Sono le sette e dieci. Ha detto che avrebbe chiamato alle cinque”.

 

Il racconto è “A telephon call”, venne pubblicato in America nel 1944, forse la prima volta in cui viene rivelata la tensione sentimentale e la perdita di dignità, però segreta, che tormenta l’attesa di uno squillo. “Oh Dio, non prendere la mia preghiera come una cosa di nessuna importanza. Te ne stai lassù, tutto bianco ed eterno, circondato dagli angeli mentre le stelle Ti scivolano accanto. E io mi rivolgo a Te per una telefonata. Ah, non ridere, Dio, vedi, Tu non sai come ci si sente. Tu sei al sicuro, là sul Tuo trono, con il cielo che turbina sotto di Te. Nulla Ti può turbare; nessuno può spezzarTi il cuore così, con due dita. Questa è sofferenza, Dio, questo è vero, tremendo dolore. Non mi vorresti aiutare? Per l’amore del Tuo Figlio, aiutami. Hai detto che avresti esaudito qualsiasi richiesta Ti fosse fatta nel Suo nome. Oh Dio, nel nome del Tuo unico diletto Figlio, Gesù Cristo, Nostro Signore, fa che mi chiami adesso. Devo smetterla. Non devo fare così. Allora. Immaginiamo che un ragazzo dica che chiamerà una ragazza, poi accade qualcosa, e lui non lo fa più. Non è una tragedia, no? Insomma, accade di continuo, in tutto il mondo, in questo preciso istante. E che me ne importa di quel che accade in tutto il mondo? Perché quel telefono non squilla? Perché, perché? Ma non puoi suonare? Insomma, per favore, non potresti? Maledetto, schifoso, lì, tutto lindo e lustro. Mica ti farebbe male suonare, sai? Ah sì, ti farebbe male? Maledetto, ti strapperò quelle radici marce dalla parete, e ti spaccherò in mille pezzi quella faccia nera da schiaffi. Va’ all’inferno”.

 

Il maledetto schifoso telefono non suonava oppure suonava, non c’era molto altro di cui discutere. Uomini e donne che si dileguavano dicendo “Ti faccio io uno squillo, va bene?”, lunghi messaggi in segreteria pieni di sospiri, chiamate mute, abbandoni via fax, telefoni strappati dai muri e cabine telefoniche in cui infilare le monete tremando. Il protagonista de “Il giardino dei Finzi Contini” di Giorgio Bassani riceve una telefonata d’invito, e da quella telefonata ha inizio tutto. Al telefono lui parla con Micòl, la ascolta mentre lei gli descrive la sua stanza, perché ha il telefono proprio accanto al letto. Il telefono è fondamentale, uno strumento di forza mentale che cerca di penetrare un’altra realtà, a volte fallisce. Micòl non dirà mai sì, Micòl non diventerà mai adulta. Ma al telefono si faceva più vicina.

 

Poi, in pochissimo tempo, l’abbiamo perduto. Il telefono esiste talmente tanto nelle nostre vite, l’abbiamo caricato di tutti i nostri mondi, è a lui che diamo la buonanotte prima di dormire, accarezzandolo, mettendolo in carica, togliendo la suoneria dando un ultimo sguardo ai Tweet, a Instagram, alla posta, alle chat, a Facebook, che non è più un telefono. Soprattutto, non lo usiamo per telefonare, e se squilla sobbalziamo, abbiamo la tentazione di lanciarlo lontano. Chi può essere? Perché telefona? Perché non ha mandato prima un messaggio? Perché non mi ha cercato in chat, non mi ha scritto in privato su Twitter, non mi ha mandato una mail, chiamato su Skype, perché non ha messo una faccina su Facebook, perché non ha fatto un Tweet pubblico chiocciolandomi? Il suono del telefono è ormai come lo scampanellare della porta alle sette del mattino. Una cattiva notizia, i Testimoni di Geova, la polizia, uno psicopatico, qualcuno che ha deciso di ricattarci, oppure uno scherzo. Quando ci si scambia i numeri di telefono, lo scambio sottintende la promessa di non usare quel numero mai per telefonare. Ci sono talmente tanti modi di comunicare, anche di avere una relazione o di fare le pubblicazioni di matrimonio, prima di arrivare a mettere due voci in contatto, prima di costringere l’altro a dire: “Pronto?”, che si è deciso di togliere di mezzo, per il maggior tempo possibile, questa aggressione, questa chiarezza spietata. Mi telefoni o no. Il mondo non è più questo: un telefono che non squilla, o una telefonata muta tanto per sentire la voce, o i nastri registrati da Glenn Close in “Attrazione fatale”, ma un posto dove tutti siamo tutti controllabili ed esistenti, spesso perfino con l’orario dell’ultimo accesso scritto sotto il nome, per la maggior parte del tempo sappiamo anche quando i nostri messaggi sono stati letti oppure abbiamo deciso di non diventare pazzi a osservare doppie spunte che passano dal grigio al blu senza che in cielo e sulla terra cambi nulla, e abbiamo disattivato tutte le notifiche. Ma sappiamo che esistono. Sappiamo che basta allungare un dito per leggere uno status su Facebook, o vedere la foto postata dieci secondi fa, o scoprire che non è vero che è partito per Londra, visto che l’hanno taggato in una foto a Trastevere. Non voglio essere schiavo di un telefono, quindi ho tolto l’orario, voglio essere libero quindi ho tolto la suoneria, ripetiamo spesso questa frase con gli occhi cerchiati di nero, anche quando sono settimane che non riceviamo una telefonata, tranne per i call center e per la zia Romina, che è sorda e chiama ogni domenica per sapere che tempo fa.

 

Per il resto, anche le risate, vere o finte, le facciamo scritte. Usiamo le faccette, pigramente, oppure scriviamo: haha, che è una risata cordiale, accettabile, rispettosa, con la bocca semiaperta ma in una condizione di generale compostezza. E’ un atto di gentilezza, significa soprattutto che non siamo ancora dentro una reale intimità. Soprattutto se questa risata scritta viene inviata nei messaggi privati di Twitter, di Instagram, o via sms. Se si ride via sms, deve trattarsi probabilmente di una risata di lavoro. Gli sms sono passati dalla rivoluzione alla conservazione, sono diventati adesso la forma più sacrale di comunicazione: è come mandare una raccomandata con ricevuta di ritorno, è come scrivere una lettera a mano. Gli sms hanno una forma compiuta, anche se attendono una risposta, e adesso possono essere così lunghi e articolati che bisogna avere cose davvero serie da dire per scegliere di inviare un sms. I perditempo preferiscono la chat, o la posta privata di Facebook, in cui chiunque, anche a caso, può tentare di infilarsi. Il grado più basso della comunicazione sta lì, nella posta privata di Facebook, e può avvicinarsi alla telefonata solo se è lì dentro che, con enorme atto di fiducia, o per motivi professionali, ci si scambiano i numeri di telefono.

 

Avviene raramente, e comunque non è un buon punto di partenza, se non si è ancora nella terza età. Meglio trovare prima altre strade, anche quella antichissima di chiedere il numero a un amico, inventando una scusa. Oppure meglio Twitter, quando non è attaccato dagli hacker. Meglio trasferirsi subito su WhatsApp, oppure, se si è molto romantici, mandarsi molti sms senza risate scritte. I messaggi vocali sono per i figli e per i giovanissimi. Parole, ma non telefonate, che possono essere ascoltate in ufficio, sul tram, al ristorante. Mamma mi sono dimenticata il quaderno ti prego me ne puoi comprare uno e comunque mi manca tutta matematica e dovrei anche fare la doccia, posso non fare la doccia? Senti a proposito a che ora torni, e quando torni mi puoi portare anche due matite 3acca per disegnare, e poi ricordati che dobbiamo fare inglese insieme, e anche francese, e comunque ho fame e Sky non funziona, ciao. Allora anche noi vogliamo rispondere con un memo audio, ci sembra bellissimo, quasi come una volta stare al telefono, e avviciniamo la bocca al telefono, bisbigliamo qualcosa di goffo come: non preoccuparti amore torno presto penso a tutto io però ti prego làvati, e lasciamo andare il dito, ecco il nostro audio è partito, ci guardiamo intorno, lo riascoltiamo, chissà se qualcuno ha sentito, dio che brutta voce ho, mai più.

 

Ma ecco che suona il telefono, quando proprio non esisteva più, nelle possibilità della vita quotidiana. Suona senza preavviso, senza pianificazione, suona senza essere passato attraverso tutti i gradi intermedi della comunicazione scritta, suona senza dire perché. Certo, bisogna ammettere che è un atto di coraggio. Ha in sé una spavalderia, il senso del rischio. Forse allora questa volta rispondo, se mi ricordo come si fa.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.