Dove muoiono le stelle
I primi a storcere il naso furono i fisici francesi. Per loro trou noir aveva un vago sapore osceno. Ne era consapevole sir John Wheeler, uno dei padri della fisica del Novecento, quando in Il noto e l’ignoto nel nostro universo introdusse per primo il termine sarcastico di buco nero. Capita in fisica quando qualche ipotesi teorica appare bizzarra. Per almeno tre o quattro decenni i buchi neri sono stati una pura ipotesi teorica. Poi, negli anni Settanta, la svolta: i primi avvistamenti grazie alle nuove tecnologie osservative. Oggi sono una realtà. Anzi, così numerosi da costituire, si ritiene, una sorta di struttura sottesa dell’universo.
Tutto nasce, come quasi ogni cosa nella fisica del Novecento, dalle equazioni di Einstein. Che disegnavano un universo evolutivo dominato dal ruolo della gravità. Una strana soluzione delle equazioni venne, nel 1918, da un giovane fisico tedesco, Karl Shwarzschild. Portava a esiti inquietanti: il collasso gravitazionale di un oggetto massivo (stella o pianeta), una volta iniziato, non avrebbe avuto soluzione di continuità. La gravità avrebbe schiacciato e contratto l’oggetto fino a una misura, il raggio di Shwarzschild, minuscola ma di intensità gravitazionale tale che nemmeno la luce avrebbe potuto lasciare la superfice dell’oggetto. Davvero un posto singolare. Cui, per l’appunto, si pensò bene di dare un nome: singolarità. Il problema divenne: poteva, veramente, succedere questo? Una stella poteva davvero finire così? Einstein diffidò. Gli sembrò una stranezza, un puro esercizio matematico. Sicuramente, pensò Einstein, doveva esserci in natura qualcosa che impedisse l’esito bizzarro di Shwarzschild. Intanto un’altra equazione, la più celebre di tutte, E=mc2 , stava rivoluziondo la fisica delle stelle. La fisica del tempo aveva un dilemma: si pensava che le stelle brillassero per combustione chimica. In tal caso la combustione del Sole sarebbe durata milioni di anni ma la Terra datava di miliardi di anni. Qualcosa non quadrava. Hans Bethe, fisico tedesco, risolse il mistero: nel cuore caldissimo delle stelle si realizzava un processo nucleare e non chimico. Quattro nuclei di idrogeno si fondevano tra loro, dando vita a un nucleo di elio insieme a un surplus di energia. Era la formula E= mc2 all’opera. Finché c’è idrogeno da convertire in elio le stelle conducono una vita tranquilla, ordinaria e stabile. Ma che succede quando l’idrogeno si esaurisce, convertito interamente in elio?
La domanda inquietava i fisici. Era un puzzle. Fu Fred Hoyle, il fisico scettico del Big Bang, che fornì la risposta: convertito l’idrogeno in elio la stella entra in uno spettacolare ciclo di instabilità. E’ la fase che ne preannuncia la morte. Che però, spiegò Hoyle, è un’epifania di eventi creativi. L’equilibrio, nel nucleo della stella, si spezza: inizia un duello drammatico tra la pressione che spinge in fuori e la gravità che spinge in dentro. La temperatura del nucleo si innalza di più e alimenta la fusione nucleare: prosegue convertendo, l’elio si converte in carbonio. La stella si gonfia, diventa una gigante rossa, occupa le orbite del suo sistema solare e mangia i pianeti nei dintorni. Succederà al nostro Sole fra 5 miliardi di anni. Vivrà un miliardo di anni come gigante rossa. Poi esploderà. Resterà un nucleo opaco e contratto: una grossa pietra chiamata nana bianca. Nelle stelle più grandi del Sole, invece, la fusione nucleare continua. Si formano elementi chimici via via più pesanti dell’elio e del carbonio: azoto, ossigeno, neon, silicio, nichel. E, infine, il ferro. Con esso la fusione nucleare finisce. Il ferro è troppo pesante per fondersi in altro. La stella diventa una supergigante rossa. Il motore stellare diventa endoenergetico: libera meno energia di quanta ne consumi. E’ un punto di non ritorno. Qualche elemento chimico, oltre il ferro, continuerà a formarsi: non più per fusione nucleare ma, dicono i fisici, per cattura neutronica: un neutrone si aggiunge agli elementi già creati che trasmutano così in elementi, via via, più pesanti: rame, argento, oro, zirconio e piombo. Nasce lì, nella morte di una stella gigante, tutta la materia che conosciamo. La supergigante, arrivata alla fase del piombo, è una sorta di cipolla: è fatta di strati di tutti gli elementi che ha formato. Ora la stella finisce davvero. Il suo nucleo non è più in grado di contrastare la gravità. Che prende possesso della scena. La stella estenuata esplode come supernova: espelle tutti gli strati della cipolla (che vanno a inseminare la galassia) in un carnevale immenso di luminosità ed energia. La sua luce è quella di 10 miliardi di stelle e supera in brillantezza quella dell’intera galassia. Durante il fuoco di artificio finale la supernova completa la tavola periodica degli elementi chimici: forma tutti quelli che ancora mancavano all’appello, fino all’uranio, l’elemento 92 della tavola chimica. Ce lo ritroveremo nelle rocce e nel nucleo della terra. Grazie al suo calore di decadimento il cuore della Terra è caldo. E noi siamo qui a poterlo raccontare.
Che succede, nel frattempo, al nucleo della supernova dopo l’esplosione? Si contrae, si restringe e collassa sempre più: la gravità non ha più ostacoli. Fino a che punto? Cosa c’è alla fine del collasso? Per la fisica del tempo tornò l’incubo del raggio di Shwarzschild: poteva il nucleo di una grande stella implodere fino a ridursi a un punto minuscolo ma dalla gravità infinita, l’oscena singolarità che Einstein aborriva? Sì, dimostrònel 1938 Subrahmanyan Chandrasekhar, uno straordinario fisico indiano. Solo le stelle delle dimensioni del nostro Sole o quelle otto volte più grandi di esso avrebbero potuto evitare il destino della singolarità, l’abiezione del buco nero. Grazie a una “stranezza” quantistica, chiamata pressione di degenerazione: un processo enigmatico e sorprendente. Che avrebbe consentito di arrestare il collasso alle stelle come il Sole che finiranno come nana bianca o a quelle fino a otto volte la massa delle nostra stella, che diventeranno stelle di neutroni. Ma per le stelle veramente grandi niente da fare: sarebbero diventate una singolarità, un buco nero.
Roger Penrose, matematico e astrofisico inglese, autore di quello straordinario viaggio nell’intelligenza moderna che è La mente nuova dell’imperatore (1989), e Stephen Hawking chiuderanno la disputa, nella metà degli anni Settanta: la singolarità esiste, è il destino ineluttabile delle grandi stelle. I buchi neri non sono più il lato oscuro dell’universo. Ci sono, basta solo scovarli. Con Penrose ed Hawking nasce la vera e propria fisica dei buchi neri. La singolarità, l’orizzonte degli eventi, le caratteristiche distorte dello spaziotempo nell’intorno e nell’interno di un buco nero, i fenomeni fisici ipotizzati in quel punto estremo dell’universo, diventano oggetto di teorie fisiche rigorose, non più di congetture fantascientifiche. Con Hawking e Penrose, la fisica dei buchi neri intreccia gravità relativistica e meccanica quantistica. E lo strano ambiente dei dintorni di un buco nero diventa un mondo stravagante e verosimile: rette che incurvano, lenti gravitazionali, wormholes, buchi bianchi. La curvatura dello spaziotempo, nella regione occupata dal buco nero, piega a tal punto la tela dello spazio, che lascia ipotizzare passaggi e cunicoli verso altre regioni dello spaziotempo. L’interno di un buco nero diventa l’enigma più coinvolgente della discussione tra i fisici: dove va a finire l’immensa energia che un buco nero ingoia quando mangia stelle e materia che passano dalle sue parti? Che succede alla estremità di un buco nero? E se fosse lì, nell’immensa energia raccolta in quella estremità, che si formano regioni di universo? E se fosse quello il Big Bang iniziale: un buco nero che si dilata e si espande? Ipotesi affascinanti affollano la letteratura sui buchi neri. Da almeno trent’anni la caccia ai buchi neri è in atto e, dalla metà degli anni Settanta, i primi avvistamenti.
La prima conferma è diventata nota per una scommessa: quella che Stephen Hawking e Kip Thorne, uno dei più tenaci teorici e cacciatori di buchi, fecero nel 1974. E la cui posta erano due abbonamenti, a Private Eye e a Penthouse (in ossequio alla natura oscena dei buchi neri) nel caso si fosse confermata l’ipotesi di Kip Thorne, che una strana e forte sorgente di raggi X, localizzata nella costellazione del Cigno, era, in realtà, un buco nero. Vinse Kip con grave disappunto di sua moglie: Cignus X1, così fu chiamata la sorgente, era il primo buco nero certificato.
La tecnologia ha poi cambiato tutto: dalle scommesse si è passati all’osservazione diretta. I buchi neri non si presumono più: si vedono (per così dire), si sentono e si deducono. I grandi telescopi ottici terrestri innovativi (ottica adattativa), i radiotelescopi di nuova generazione, che detectano nello spazio le emissioni di raggi X e gamma dei buchi neri, i rilevatori all’infrarosso che riecono a guardare dentro le polveri cosmiche, le nascenti tecnologie interferometriche per le onde gravitazionali, hanno rivoluzionato le tecniche osservative. I buchi neri sono diventati oggetti, per così dire, comuni. Al punto che se ne può fare un catalogo, una casistica, una antologia delle tipologie. Sono tanti nella galassia. Minacciosi? Dipende. Il pericolo non è inciampare in un buco nero: ogni cosa, nella galassia, è assai distante da ogni altra. E checché ne dica la letteratura apocalittica, i buchi neri non si allargano come metastasi. Non vengono a mangiarci. Il pericolo potrebbe essere rappresentato da supernove, le progenitrici dei buchi neri, che ci esplodessero vicino. Vicino quanto? Per fortuna le candidate a supernove vicine non abbondano: c’e la supergigante rossa Betelguese, nella costellazione di Orione, a 640 anni luce da noi. Al suo fuoco d’artificio come supernova vedremo in cielo una sorta di nuova stella, un punto talmente brillante e luminoso da esser visto di giorno. Niente di più. Il pericolo, date le distanze, sarebbe quello di piogge di potenti raggi elettromagnetici (raggi X, gamma o ultravioletti) con effetto sulle telecomunicazioni satellitari.
Stephen Hawking ha fatto poi una rivoluzionaria scoperta: i buchi stellari non sono affatto eterni: per effetti di fisica quantistica dovrebbero, addirittura, evaporare nel tempo. Si presume una seconda tipologia di buchi neri. Ipotizzata, dapprima, nelle lontanissime quasar, una sorta di galassie originarie. Che significherebbe questo? Che parte della storia del Big Bang andrebbe riscritta: i buchi neri potrebbero aver avuto una funzione decisiva nella formazione dell’universo osservabile. Infine la terza categoria di buchi neri, quella più inquietante e carica di implicazioni: i buchi neri supermassivi, miliardi di volte più grandi del Sole, al centro di ogni galassia. Il più grande supposto sinora è alloggiato in una galassia chiamata M87 ed è quattro miliardi e mezzo di volte più pesante del Sole.
E la nostra galassia? Dagli anni Quaranta l’astronomia era alla prese con uno strano fenomeno: un sibilo misterioso, una potente segnale radio, una enigmatica sorgente di energia in una regione del cielo localizzata nel Sagittario. Nelle mappe astronomiche esso è il segnaposto della direzione che indica il centro della Via Lattea. A 26.000 anni luce dal Sole. Per questo il luogo enigmatico fu chiamato Sagittarius A. Per anni la vista di quella zona del cielo è stata interdetta da una strana striscia nerastra, una nube oscura di polveri, visibile a occhio nudo in una serata limpida, che rende opaco il centro della Via Lattea. Forse questo suggerì a Penrose l’ipotesi della congettura cosmica: una censura avrebbe sempre impedito di guardare da vicino un buco nero. I moderni telescopi penetrano la coltre nera. La tecnologia ha potenziato occhi e orecchie dell’uomo: oggi non si “vede” soltanto con i telescopi ottici ma si “sente” la musica del cosmo, e il suo linguaggio, attraverso i rilevatori di onde e raggi X. E si ricostruiscono al computer i dati ottici e quelli elettromagnetici o radiativi. In tal modo la moderna astronomia dispone di ricostruzioni accurate e fedeli delle regioni di spazio indagate. E quello che così si vede, di ciò che succede al centro della nostra galassia, ha scioccato gli astronomi: cataclismi cosmici raccapriccianti, un affollamento inusuale di stelle gigantesche che orbitano un centro invisibile, polveri e gas in rotazione attorno a qualcosa di oscuro ma di forza colossale; ammassi stellari in marcia verso qualcosa di enormemente attrattivo, come fosse una gigantesca ma invisibile superstella, sorgenti potentissime di raggi cosmici e radiazioni della potenza di miliardi e miliardi di bombe H, nuvole lunghissime di gas e materia stellare che vengono inghiottite da qualcosa di enigmatico e inafferrabile, nebulose gigantesce di gas stellare, distribuite per milioni di anni luce, contenenti gli spettri chimici di tutti gli elementi conosciuti.
Pochi dubbi, ormai, che quel centro oscuro sia Sagittarius A, un buco nero. I numeri in gioco, dedotti dall’intensità della gravità osservata, dicono che il peso di Sagittarius A è di 4,6 milioni di masse solari. Che potrebbe significare il fatto che ogni galassia contiene, al suo centro, un buco nero? Che l’universo che oggi osserviamo non è solo, come dicono i fisici, singolarmente isotropico, cioè identico, su larga scala, in ogni sua parte. Ma esibisce una sorta di reticolo, di strano collegamento tra tutte le sue parti: una specie di network. Le galassie, appaiono come snodi, le stazioni di una immensa rete. I buchi neri supermassivi, al centro di tali stazioni, appaiono come le centrali energetiche, distribuite a maglia, di tale rete. L’immagine tridimensionale dell’universo osservabile offre l’aspetto inquietante di una struttura che sembra viva, artificiale, intelligente. Davvero una strana e singolare storia quella dei buchi neri.
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