La repubblica del No
“C’è chi dice no / C’è chi dice no…” (Vasco Rossi, 1987)
"Il nemico del mio nemico è mio amico”. O: “L’amico del mio nemico è mio nemico”. Si pensava fosse un vecchio proverbio barbaro da gruppo scolastico a ricreazione, faida strapaesana o film di Francis Ford Coppola (tipo “I ragazzi della 56ª strada”), invece è diventato il grido di battaglia inconscio del fronte del No referendario. Fronte in cui il concetto di proprietà transitiva del nemico-amico è stato introiettato al punto da produrre sinergie bislacche tra oppositori della riforma costituzionale: postcomunisti che scioperano contro politiche definite “montiane” ma si ritrovano a dividere il fronte con Mario Monti; dalemiani che scendono in battaglia a fianco di professori della gauche che Massimo D’Alema non l’hanno mai sopportato (specie ai tempi della Bicamerale); antiberlusconiani in concordia con Renato Brunetta; anti Pci-Pds-Ds in concordia con Pierluigi Bersani; grillini non più in lotta col mondo politico – dal momento che una larga fetta del mondo politico vuole votare No; sinistre spaventate dal grillismo improvvisamente disposte a chiudere un occhio sulle cosiddette “derive fascistoidi da setta”; destre leghiste e destre non leghiste che riallacciano matrimoni che parevano rotti per sempre.
Il No pare balsamo e panacea. Il No tutto livella. Ma non c’è un solo modo di negare e negarsi, nella Repubblica dei signornò che, scriveva Salvatore Merlo giorni fa su questo giornale, “accarezzano senza sbavature nell’imprevisto lo spirito del tempo” (gente per cui il No è “stile” e “rifugio” o, per dirla con Fedele Confalonieri, un voto “che fa fino”). Poi succede che il Tar respinga il ricorso presentato da M5s e Sinistra italiana contro il quesito referendario, e che il No divenga, nell’immaginario dei suoi soldati, causa di martirio inflitto dal “potere forte” (nascosto sotto le spoglie del tribunale amministrativo). Dove ti giri c’è un No, ma quel No non ha mai lo stesso colore, perché è un No prima di tutto “psicopolitico”, come direbbe il filosofo coreano Byun-Chul Han. C’è No e No, specie quando, dagli Stati Uniti, Barack Obama dice Sì alla riforma firmata Matteo Renzi (“ingerenza, ingerenza!”, è stato il grido degli oppositori, antiamericani ma pure atlantisti). Ecco un piccolo catalogo dei No che saltano agli occhi.
No ideologico-postgruppettaro (ma per altro). Ieri sciopero generale, oggi “No Renziday”: tutto si tiene in nome del No, ma il referendum costituzionale c’entra e non c’entra. Ecco infatti schierati Rifondazione comunista, con Usb, Unicobas e, tra gli altri, il Forum diritti lavoro, i No Tav della Val di Susa, il CSOA Corto Circuito, la Carovana delle periferie di Roma, gli ex partigiani Lidia Menapace (partigiana Bruna) e Umberto Lorenzoni (partigiano Eros), Haidi Giuliani, Giorgio Cremaschi, Ferdinando Imposimato, Luigi De Magistris, Moni Ovadia (nomi già visti insieme per altre e sempre nobilissime cause del “no” a qualcosa – da Silvio Berlusconi in giù). E gli schierati stavolta si schierano per dire “no” alla “controriforma della Costituzione”, solo che quel “no” è riempibile con qualsiasi cosa, e “l’acampada notturna” in piazza San Giovanni, con musica&dibbbattito, si colora di istanze d’altro tipo: “per” i “diritti del lavoro e sociali”, per la scuola pubblica, per la democrazia, contro la legge Fornero.
Protesta No Tav in Val di Susa nel 2011 (foto LaPresse)
E però – destino cinico e baro – dal Corriere della Sera s’è appunto affacciato a dire “no” al referendum pure Mario Monti, ex premier tecnico finora inviso alle sinistre nonché uomo che la riforma Fornero l’ha voluta e lanciata. Ma sono quisquilie, nell’imminenza del pomeriggio (oggi) di marcia e lotta. E insomma presso le sinistre postcomuniste e postgruppettare non c’è neanche bisogno dell’infingimento (simulare la discesa nel famoso o famigerato “merito” del contendere, tipo il Senato o il Cnel). Si parla invece di Renzi, direttamente: “Non sta facendo il suo dovere, e non si può distinguere la Controriforma da chi l’ha fatta”, dice Cremaschi presentando l’iniziativa di lotta.
E non si capisce come mai quello scomodo Monti improvvisamente “compagno” non compaia in scena quando Cremaschi dice che l’Italia, dopo l’endorsement al Sì di Barack Obama, si mostri in tutto e per tutto “paese coloniale”. “Convincete le persone che questo voto conta, non come quello al referendum sull’acqua che poi non ha contato”, si sente dire tra le sinistre “anti banche” che vedono il No come “scossa salutare”. Intanto Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, insiste sul fatto che “questo è il modello costituzionale” voluto dai “potentati” politico-finanziari suddetti, e “se vince il No i potentati si prendono un bel ceffone”. E poi? Poi, dice Ferrero, si vedrà. E magicamente il No diventa la porta verso il nuovo mondo in cui nessun “Blitzkrieg”, così viene chiamato, potrà produrre “leggi anti welfare (“no al Jobs Act”, “no alla Buona Scuola”, “no alle privatizzazioni”, “no alle grandi opere”, “non alla ristrutturazione neoliberista”, “no all’austerity targata Ue”. Ma quando il governo prende posizioni anti Merkel c’è qualcosa che non va comunque).
No tecnocratico da vendetta sotterranea. Strano ma vero, il caso di Mario Monti ha sbalordito borghesi e non borghesi: ma come, lui vota No?, si è domandata mezza Italia il 18 ottobre scorso, aprendo il Corriere della Sera e vedendo che la cosiddetta “scelta di Mario” poneva l’ex premier tecnico e prof. non trinariciuto dalla stessa parte dei prof. trinariciuti. Diversi (e in parte imperscrutabili) i motivi, spiegati nel passo dell’intervista a Federico Fubini in cui un Monti insolitamente arzigogolato riporta tutto al “metodo di governo nei confronti dell’economia e della società italiane…”. Dice Monti che “negli ultimi tre anni” si sono “rivitalizzate, e purtroppo trapiantate sul terreno costituzionale, alcune delle prassi più nocive che avevano caratterizzato l’Italia per molti decenni” (tre anni sono passati da quando non c’è lui al governo, ed ecco che il fantasma della tremenda vendetta consumata a freddo s’affaccia – ma non trattandosi di Massimo D’Alema o Enrico Letta potrebbe anche essere un falso allarme).
Mario Monti (foto LaPresse)
Monti, in sostanza, è spinto al No “dal modo in cui Renzi “cerca consenso” attorno al Sì. Sotto accusa sono i sistemi con cui, sempre “negli ultimi tre anni”, si è “lubrificata” l’opinione pubblica “con bonus fiscali” ed “elargizioni mirate”. E quando l’intervistatore gli chiede: ma a lei sembra che Renzi “usi l’argomento del referendum e del rischio instabilità per ottenere concessioni in Europa?”, Monti risponde che “Renzi ha fatto con un certo successo questo gioco, anche con Angela Merkel quando la attacca ma ne ottiene in cambio un certo paziente sostegno. Ciò non toglie che questo ha lo stesso un grosso costo. Sta facendo lui il lavoro dei populisti, accusando l’Europa”. Solo che sul referendum – ohimé – i populisti (Lega, M5s) sono dal lato di Monti. E infatti Monti ci tiene ai distinguo: “… Se vincesse il No non sparirebbero gli investitori esteri. Se vincesse il Sì non sparirebbe ogni democrazia”.
No tecnocratico preventivo. Era partito in sordina, Stefano Parisi, l’uomo che porta sulle spalle il fardello della “rigenerazione” del centrodestra. Tanto in sordina da essere accusato, a destra, di eccessiva morbidezza sul No referendum. Poi Parisi si è messo a girare per l’Italia e l’Europa (come i “compagni” di battaglia obtorto collo dell’M5s) per “entrare nel merito” e spiegare “perché la riforma “è fatta male”, ma anche per rassicurare: “Se vince il no non ci sarà alcun caos” ( per gli alleati di fatto a cinque stelle, invece, ci sarà caos se vince il Sì). La mossa di Parisi, di fronte al No cangiante e duttile in cui ognuno mette quello che vuole, è preventiva: si lavora sui futuri contatti internazionali, ma si cerca di portare a casa una fetta di consenso interno: “Gli imprenditori”, ha detto infatti Parisi a “Zapping” “iniziano a capire che Renzi è poco affidabile, ma al contempo hanno paura. D’altra parte la Finanziaria, costellata di incentivi a debito, è la cosa peggiore che poteva fare in questo momento…”.
Stefano Parisi (foto LaPresse)
No “responsabile”. “Dobbiamo rispondere con un forte, deciso e responsabile No a questa riforma che favorirebbe una deriva autoritaria con il rischio di un uomo solo al comando” (l’ha detto Silvio Berlusconi. Ma il segreto sta nel seguito: “Poi riforme condivise…”).
No apocalittico. L’ha espresso Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera di M5s, davanti ai cronisti della Stampa Estera. A sentire lui, votando No si scongiura la fuga di cervelli (“già centomila italiani sono partiti l’anno scorso”, era la frase-chiave dello scenario spaventevole disegnato da Di Maio, per il quale la battaglia antiriforma, per eterogenesi dei fini, riuscirebbe a contenere anche “la fuga di investitori” (per rassicurazioni, sentire il compagno di strada obtorto collo Stefano Parisi).
Luigi Di Maio (foto LaPresse)
No esistenziale. Se a Luigi Di Maio tocca il lavoraccio sul No giorno per giorno, al comico e capo dei Cinque stelle Beppe Grillo basta la parola: No, appunto. Unica e sola, ha il potere, sul suo blog, di evocare la catarsi esistenziale e la via per la felicità. Il No al referendum è solo incidentale: trattasi di No come scuola di vita: “Bisogna cercarselo dentro”, dice Grillo, ed è “la più bella espressione filosofica di oggi”.
No eruttante (con venature sofiste). Il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta è inarrestabile: ogni giorno ne spara una (contro Renzi e per il No). C’è ovviamente del metodo, e a volte ci si sorprende a immaginare un Brunetta-sofista e scientificamente caterpillar che sostiene con la stessa veemenza – per un giorno, per gioco? – le ragioni del Sì. Due slogan brunettiani per il tutto: “Se Renzi suona le sue trombe noi dobbiamo suonare le nostre campane”; e “se Renzi mette a disposizione del Sì Palazzo Chigi, il Pd, i poteri marci, la finanza; noi abbiamo il territorio, i lavoratori” (roba che neanche Giorgio Cremaschi e Paolo Ferrero). Già cult presso la rete il tweet: “Da Obama intromissione indecente, italiani incazzati”.
Renato Brunetta, al centro (foto LaPresse)
No scorpionesco. Del No indistruttibile di Massimo D’Alema tutto è stato detto, e lui persevera, definendo la riforma “illogica e insensata” anche dopo che alla Feps, la Fondazione dei progressisti europei da lui presieduta, qualcuno si è mostrato preoccupato, in disaccordo (e in sostanziale accordo con il Sì, con tanto di voto a favore del documento di sostegno del Pse a Matteo Renzi): “Il partito dei socialisti europei non avrebbe dovuto prendere posizione sul referendum costituzionale italiano del 4 dicembre”, ha detto D’Alema, “… e gli italiani dovrebbero essere lasciati liberi di scegliere in una vicenda che non riguarda la stabilità dell’Italia, bensì alcune delicate regole della Costituzione repubblicana…”. Né D’Alema crede che Barack Obama “abbia studiato la riforma costituzionale italiana e che abbia voluto esprimere un giudizio di merito…è un giudizio politico”. Ma quando, a “In mezz’ora”, nel salotto di Lucia Annunziata, D’Alema si lascia andare agli aggettivi “riforma illogica e accentratrice”, “pasticciata e confusa”, pur sostenendo di “non essere contro l’attuale governo”, la sua anima d’eterno scorpione si manifesta persino poeticamente.
Stavolta No. Spot di Sinistra italiana per il No (che riprende un video per il Sì). Seguiranno altri video, non si sa se imperdibili.
No buono per tutte le buone cause. Lo rappresenta il professor Gustavo Zagrebelsky, icona di cause buone e giuste per i Giusti (“no B.” o “no Renzi”). Gira per convegni e tv al grido di “democrazia svuotata”. A Ezio Mauro, in un’intervista del maggio scorso a Repubblica, ha detto che in questa riforma gli par di vedere “l’umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche…”. Se non c’è il rischio oligarchia, c’è quello lessicale: secondo Zagrebelksy la nuova Costituzione, scritta “secondo la tecnica dell’incomprensione”, rischia il destino di “una delle tante leggi illeggibili, che i nostri parlamentari hanno votato a caso, senza capirne il significato”. Essendo da anni militante del fronte “democrazia minacciata”, ha sempre dalla sua parte il prof. Alberto Asor Rosa (già promotore di un appello antireferendario contro il “progetto pericoloso che dà troppo peso al governo”) e il prof. Stefano Rodotà, il quale trova “la riforma imbarazzante per la pochezza di contenuti e di linguaggi”.
Gustavo Zagrebelsky (foto LaPresse)
No elegante. L’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli l’ha annunciato sei mesi fa a “Otto e mezzo”, su La7. “Voterò no, il tramonto della democrazia è terreno fertile del populismo”.
No mesto. Pierluigi Bersani, con il corpaccione della minoranza Pd, aveva votato Sì, ma poi non si poteva non dire No. Ne discende la mestizia con cui l’ex segretario si è dedicato alla causa del No condizionato (e legato alle sorti dell’Italicum), un No sempre in bilico verso il Nì e in teoria anche verso il ritorno al Sì (a seconda delle mosse del premier e segretario Matteo Renzi). Intanto, Bersani si è trincerato dietro al rassicurante paragone estero: “In tutta Europa si cercano sistemi in grado di rappresentare quel magma che c’è, e noi ci inventiamo il governo del capo? C’è da farsi il segno della croce. Nella legge elettorale bisogna metterci dentro un po’ di proporzionale, invece che prendere tutta altra strada per sapere alla sera del voto chi comanda”.
Comunque vada, il vero appuntamento è un altro: “Al congresso sosterrò la tesi che non si può tenere assieme segretario e premier. Vorrei che il Pd si accorgesse dei rischi, separasse le funzioni e mettesse questo gesto a disposizione di un campo largo di centrosinistra…a turbarmi non è Grillo ma l’insorgenza di una nuova destra in formazione, aggressiva, non liberale, protezionista, che, da Trump a Orbán, cerca le sue fortune”. E insomma il povero Bersani, tra No, Nì e Sì, non vuol sentirsi dire “che gli asini volano”: “O si rottama l’Italicum o si ferma la riforma costituzionale”. Traduzione di Matteo Orfini, presidente dell’assemblea nazionale del Pd: “Per ora non c’è un No di Bersani alla riforma. Ha detto che attende il lavoro sulla legge elettorale e di non fidarsi molto del lavoro della commissione, ma cercheremo di smentirlo”. (O di convincerlo, ma questa è un’altra storia).
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