Sulle spalle di Atlante
E’ spuntato dal nulla proprio come il mitologico titano e adesso controlla due banche venete che dovrebbero maritarsi per far nascere una banca più grande e (si spera) più solida. Non solo, è sceso in campo per salvare anche la più antica istituzione finanziaria italiana, il Monte dei Paschi di Siena. Che cosa vuole Atlante? Ha davvero le spalle così grandi da diventare l’architrave attorno al quale si consolida il sistema? Giuseppe Guzzetti si è pentito: “E' uno strumento buono lasciato al suo destino”. Presentando la giornata del risparmio, il presidente dell'Acri, l'associazione delle Fondazioni di origine bancaria, che hanno messo 536 milioni nel fondo, ha espresso tutto il proprio rammarico: “Retrospettivamente avrei fatto meglio a non partecipare”.
Come mai? “Bisognava dare un pacco di miliardi ad Atlante per creare il mercato delle cartolarizzazioni e rompere l'oligopolio delle cinque grandi banche americane che comprano sofferenze a 13-17 centesimi”. Responsabili del flop, secondo il vecchio politico democristiano diventato un personaggio chiave del sistema creditizio, “due banche straniere in Italia, Crédit Agricole e Bnp Paribas, che non hanno fatto la loro parte”. Sono francesi per l’esattezza, ma posseggono banche italiane di tutto rispetto, rispettivamente la Cassa di Risparmio di Parma (più la ex cassa di La Spezia e la Firuliadria) e la Banca Nazionale del Lavoro. Guzzetti nota che le liste di sottoscrittori prevedevano nominativi che al dunque si sono dileguati. A chi gli chiede del comportamento delle assicurazioni risponde: “Chi si è comportato bene è stata Allianz, con serietà’'. Un rimprovero indiretto alle Generali, l’antica cassaforte che ha custodito risparmi e patrimoni della piccola e media borghesia italiana.
Francesi a parte, c’è qualcun altro a sbarrare la strada di Atlante? Ci sono quegli americani che Guzzzetti da buon cattolico popolare del nord ha sempre ritenuto ispirati da una pulsione predatoria, lontana dal “giusto guadagno”. Ci sono i “fondi locusta” che, si dice, girano attorno alla Popolare di Vicenza. C’è la JP Morgan (alla quale Guzzeti alludeva), la più grande e rapace di tutte guidata da Jamie Dimon l’unico dei top bankers ad essere sopravvissuto al grande crac del 2008, per diventare ancora più grande e potente, messa in campo anch’essa dal governo Renzi. Ma come si è arrivati a questo punto di non ritorno?
Una soluzione organica e razionale alla crisi bancaria italiana collocando buona parte dei crediti che non si riescono più a riscuotere in una banca garantita dal governo (la cosiddetta bad bank proposta dal Tesoro e sostenuta dalla Banca d’Italia), è stata bocciata tra Bruxelles perché considerata un aiuto di stato. Pier Carlo Padoan, costretto a ripiegare su soluzioni caso per caso, nel gennaio scorso partorisce la Gacs (Garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze).
Giuseppe Guzzetti (foto LaPresse)
Funziona così: la banca interessata crea un titolo obbligazionario garantito dai crediti deteriorati. Si stima la probabilità di realizzo, poi si spezza il titolo in tranche divise in senior, mezzanine e junior, a seconda del rischio e, quindi, del rendimento. La fetta meno sicura, ma anche più redditizia, è quella junior. Se viene azzerata dalle perdite, si comincia a incidere la mezzanina, dopo di che si passa alla senior garantita dallo Stato. Le Gacs, dunque, servono soltanto per i crediti deteriorati ritenuti più sicuri, gli altri sono senza paracadute. I non performing loans (npl) nel loro insieme sono quasi il 20 per cento del totale di tutti i crediti erogati, per un valore totale di circa 350 miliardi di euro. Le sofferenze vere e proprie ammontano a 200 miliardi lordi. Per fronteggiarli, il sistema bancario ha messo da parte risorse per 120 miliardi. Restano 80 miliardi, chi se ne fa carico?
A questo punto entra in scena Alessandro Penati. Brillante economista, docente alla Cattolica con un background che porta alla scuola liberal-monetarista di Chicago, dopo tanti anni di accademia e di urticanti commenti sui grandi giornali (il Corriere della Sera e poi la Repubblica e il Sole 24 Ore) va in Lussemburgio e fonda una società di gestione di risparmio (oggi intermedia attivi per 14 miliardi di euro) che chiama Quaestio (ricerca, ma anche disputa scolastica o, diononvoglia, interrogatorio con tortura). Gli dà una solida mano proprio Guzzetti con la Fondazione Cariplo che diventa il principale socio (al 37 per cento). E qui, a forza di cercare e porsi domande, viene fuori una soluzione che sembra l’uovo di Colombo: dar vita a un soggetto privato molto più agile ed efficace di una bad bank pubblica.
Penati fa il giro delle sette chiese tra banche e ministeri, ne parla con Claudio Costamagna alla Cassa depositi e prestiti (della quale le Fondazioni guzzettiane sono azioniste), la spiega agli uomini di Renzi. Lì per lì sono tutti entusiasti. Ma quando si tratta di aprire il portafoglio le cose si fanno più complicate. Intesa aderisce subito con un miliardo e anche Unicredit sottoscrive la stessa quota anche se con minor entusiasmo. Poi ci sono le Fondazioni e la Cdp, così si arriva a tre miliardi, altre adesioni minori portano la dote a quattro. Il salvataggio della Popolare di Vicenza e di Veneto banca costa 2,7 miliardi e Atlante, che doveva solo fare da traghetto, si ritrova ad essere l’azionista di riferimento che nomina i nuovi vertici e disegna il futuro.
Il fondo non ha intenzione di restare incastrato nel Triveneto, il suo compito è dare alle banche risanate nuovi assetti proprietari.
Penati sceglie per la Popolare vicentina un super manager come Gianni Mion che ha guidato il cambiamento di pelle della famiglia Benetton dai maglioncini colorati alle infrastrutture. L’operazione piace anche a Luca Zaia, presidente leghista della regione Veneto che ha elogiato apertamente Mion, ma (ça va sans dire) non al sindaco di Verona Flavio Tosi il quale, attraverso la Fondazione Cariverona azionista di Unicredit, ha qualche voce in capitolo. Mion annuncia 1.500 esuberi alla Popolare di Vicenza e i sindacati minacciano lotta continua. Ci sono da sciogliere nodi rilevanti come l’azione di responsabilità nei confronti dei vecchi azionisti (a cominciare dall’ex padre padrone Gianni Zonin che però a questo punto cerca di risultare un quasi nullatenente) e affrontare gli esposti che fioccano come neve alpina (sono già settemila). S’è messa di mezzo, ça va sans dire, la procura che, per ora, indaga soltanto. Il dossier, in vista dell’assemblea di novembre, è già debordante di guai.
Alessandro Penati (foto LaPresse)
Nell’incontro a Francoforte del 18 ottobre i vigilantes della Bce hanno detto a Penati che deve fondere la Popolare vicentina con Veneto banca, trovare 2,5 miliardi di capitale e sistemare i crediti marci entro la fine dell’anno. Cioè ormai in poche settimane. Ma è difficile che arrivino acquirenti prima di aver ripulito le due banche. Il saggio Guzzetti suggerisce prudenza perché il rischio è che Atlante si assuma compiti e oneri che non voleva e ai quali non è preparato. Il fondo ha in cassa ancora 1,2 miliardi di euro per ricapitalizzare la Banca Popolare di Vicenza la quale ha anche un forte bisogno di liquidità (si parla di 6 miliardi di euro). C’è poi da vendere crediti deteriorati per circa 3,8 miliardi. A che prezzo? In bilancio sono stati già svalutati del 50 per cento, adesso si parla di collocari al 25 per cento con una perdita consistente, non lontana dal miliardo di euro.
Bisogna fare attenzione che il lavoro di pulizia e la fusione non vadano a scapito di quei piccoli azionisti e risparmiatori per i quali tanto si è speso il Penati economista. Non solo. Se non si arriverà in tempi brevi alla vendita della nuova banca post-fusione si crea una situazione anomala in Veneto. Unicredit e Intesa sono ben insediate nella regione anche grazie, rispettivamente, a Cariverona e Cariveneto, inoltre sono le due principali socie di Atlante che allo stato attuale è l’azionista unico della Popolare vicentina e di Veneto banca. Una posizione dominante, quasi monopolistica, che non può non allarmare l’Antitrust.
Tutto questo s’aggiunge ai grattacapi che vengono da Siena. La quaestio (letteralmente parlando), tanto più per un economista formatosi a Chicago, è: bisogna proprio salvare il Montepaschi? Ci hanno provato più governi con i Tremonti bond poi diventati Monti bond. E’ finita che il Tesoro è il principale azionista di una banca che si trova nei guai per aver fatto il passo più lungo della gamba comprando nel 2007 Antonveneta senza averne i quattrini e poi coprendo il buco con magheggi finanziari e manovre illecite, secondo la magistratura. Atlante ha il compito di sistemare i prestiti inesigibili, premessa per aumentare il capitale. Per questo si fa avanti JP Morgan insieme a Mediobanca e qui arriva la cena galeotta tra Matteo Renzi e Jamie Dimon il quale, però, nonostante tutta la sua potenza, non riesce a diventare deus ex machina nel piccolo mondo senese, antico e segreto. Beppe Viola, amministratore delegato, viene sostituito da Marco Morelli che ha lavorato in JP Morgan, in Intesa e anche in Mps (era direttore finanziario ai tempi dell’infausta fusione). Si è dimesso dalla presidenza anche Massimo Tononi, già assistente di Romano Prodi e sottosegretario nel suo governo dal 2006 al 2008. Ma il cambio al vertice non è servito a nulla: allo stato attuale nessuno vuol rischiare quattrini in una impresa giudicata quasi impossibile come risanare Mps.
Marco Morelli (foto LaPresse)
Martedì 25 ottobre Morelli ha annunciato il suo piano lacrime e sangue, senza convincere la Borsa. “La luna di miele è durata sei settimane”, ha scritto Bloomberg. Trovare 5 miliardi sembra irrealistico. Più fattibile potrebbe essere la proposta di Corrado Passera che prevede solo 2 miliardi, ma punta molto sulla trasformazione in azionisti di chi detiene obbligazioni Mps di ogni tipo e genere. A giudicare dall’entusiasmo, sembra che per la Borsa l’uomo del Monte possa essere l’ex manager-banchiere-ministro, a capo di una cordata di fondi d’investimento dei quali non ha rivelato l’identità. Si parla anche dell’onnipresente e sulfureo fondo sovrano del Qatar, ma lo stesso Morelli ha ammesso che non c’è nessuna fila di pretendenti davanti a palazzo Salimbeni. Anche perché non è chiaro quanti npl saranno venduti. La banca ne ha in pancia per 27 miliardi di euro, cedendoli al 33 per cento del loro originario valore si tratta di 9,2 miliardi. Saranno le agenzie di rating a stabilire l’ammontare della tranche senior che sarà garantita dal governo. L’obiettivo è ottenere una dimensione pari a 5,8 miliardi che renderebbe più facile l’operazione: se li caricherebbe JP Morgan sotto forma di garanzia per un prestito ponte, Atlante potrebbe assorbire 1,6 miliardi e un miliardo e mezzo resterebbe agli azionisti.
Valutare i crediti in sofferenza è esso stesso un business lucroso che ha provocato un altro conflitto tra JP Morgan e Atlante. Pullulano ormai anche in Italia le società specialiste. Gli americani si sono affidati a Italfondiario, vecchia banca oggi controllata da Do Bank ucita da una costola di Unicredit e presieduta da Carlo Castellaneta, la quale a sua volta fa parte del gruppo finanziario statunitense Fortress. Penati invece ha messo in campo il Credito Fondiario, anch’esso un nome antico che risale addirittura alla Sardegna dell’Ottocento e oggi fa parte del fondo Tages guidato dal finanziere Panfilo Tarantelli e da Umberto Quadrino, ex manager della Fiat. Insomma, l’uno non si fida dell’altro, anche perché JP Morgan ha tenuto molte carte al coperto. E qui veniamo all’altro guazzabuglio: il capitale. Gli npl servono a garantire l’aumento e JP Morgan ha messo una put come dicono i finanzieri: se le cose andassero storte, potrebbe prendersi tutti i 27 miliardi, ma a 17 centesimi anziché a 33. Un prezzo che rende molto più facile rivendere i crediti. Atlante, così, resterebbe con le pive nel sacco. Lo ha denunciato Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera.
E sono rifioriti i retroscena: l‘ex direttore è sempre stato amico di Penati, di Guzzetti, di una filiera politico-finanziaria che risale a Giovanni Bazoli. Dunque, si delineano due cordate: quella americana e quella della vecchia finanza cattolica. Il governo che con il Tesoro e la Cdp ha sostenuto Atlante, adesso gioca su entrambi i tavoli forse perché non vuole che il titano finisca per reggere davvero sulle sue spalle la volta del sistema bancario italiano, o forse perché semplicemente teme che questo groviglio esoterico di crisi bancarie, di finanzieri d’assalto, di locuste e avvoltoi, si trasformi in una trappola gigantesca. Intanto a Siena ci sono 2.500 posti di lavoro in meno se passa il piano Morelli. Altrettanti potrebbero uscirne dalla fusione tra le due banche venete. Unicredit ha annunciato 3.200 esuberi.
Alle schiere dei colletti bianchi disoccupati, s’aggiunge il popolo dei risparmiatori in marcia. L’aumento di capitale di Mps implica che vengano trasformate in azioni anche le obbligazioni subordinate. Ce ne sono per 4 miliardi e 899 milioni con scadenza nei prossimi due anni. Tra questi un bond da 2 miliardi e 160 milioni emessa nel 2008 che scade nel luglio 2018, venduto a 60 mila clienti per l’acquisizione di Antonveneta. Un titolo privo di rating e mai quotato, trattato solo dentro Mps Capital System, in caso di bail-in sarebbe il primo a cadere con conseguenze anche sulla capitalizzazione della banca. Si agitano i malcapitati, fioccano le denunce, si muovono le procure, tra il cantar del grillo e il rullar di tamburi, vuoi vedere che ha ragione David Handler, cinico finanziere americano citato da Bloomberg: “Meglio chiudere Mps come successe alle casse di risparmio americane alla fine degli anni 80”; allora, tolto il bubbone rifiorì l’economia.
L’Italia oggi ha troppe banche generaliste, piccole e inefficienti, ma poche aziende creditizie in grado di competere su un mercato finanziario sempre più sofisticato. Con i quattrini necessari a ripescare il Monte si potrebbero creare una dozzina di banche specializzate, con una buona dotazione di capitale, in grado di assorbire gli impiegati in esubero e aprire nuovi orizzonti operativi. Ma solo lanciare il dubbio, alla vigilia del referendum, “vuol dire mettere in discussione la stabilità del paese”, commenta con Bloomberg il finanziere milanese Gianluca Codagnone. E tra la razionalità economica e quella politica è quasi sempre quest’ultima a prevalere. Ecco perché Guzzetti, anche se pentito, non si tirerà indietro.
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