Il mito di Cefalonia
L’annientamento della divisione Acqui dell’XI armata dell’esercito italiano, avvenuto a opera dei tedeschi a Cefalonia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, non cessa di interessare opinione pubblica e storiografia per diverse e fondate ragioni: la tragicità di quanto accadde; l’incertezza e il carattere ancora controverso di molteplici aspetti della tragedia e del ruolo di alcuni personaggi chiave, in primis del comandante della divisione, generale Antonio Gandin, e dell’ufficiale Renzo Apollonio; la portata e l’attribuzione delle responsabilità di quanto accadde e l’uso politico che dell’eccidio fu fatto nel dopoguerra.
Elena Aga Rossi – studiosa ben nota per altri lavori sullo stesso periodo (“Una nazione allo sbando” del 1993, “Una guerra a parte. I militanti italiani nei Balcani 1940-1945” del 2011) – torna ad affrontare la vicenda nel suo recente e documentato libro “Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito” (Il Mulino, Bologna 2016). Lo scontro tra i due corpi di occupazione italiano e tedesco, presenti a Cefalonia da alleati fino all’8 settembre del 1943, causò nell’isola intorno a 2.000-2.500 caduti italiani su 11.500 effettivi, ma altri autori ne calcolano fino a 9.000. A Corfù i caduti furono circa 6-700 su 4.000-4.500 effettivi. Il che significa, qualunque sia la valutazione corretta, che fu il più grande massacro di militari italiani compiuto dai tedeschi nel corso del secondo conflitto mondiale. L’efferatezza della vicenda fu dovuta tuttavia non solo al numero dei caduti in battaglia.
Dopo la resa, i soldati sopravvissuti agli scontri furono internati in condizioni disumane. In parte (1.000-1.200) furono costretti a lavoro coatto nella stessa Cefalonia, ma i più furono deportati in Grecia e poi in Germania, in Europa Orientale, in Russia: circa 6.700 uomini la cui storia “paradossale e agghiacciante, lacunosa e ignorata, intricata e confusa” è ancora per lo più da scrivere (pp. 81-84). Cosa eticamente e militarmente ancor più grave, anche se con numero inferiore di vittime, fu la fucilazione quasi immediata e senza neppure una parvenza di interrogatorio di buona parte degli ufficiali che dopo i combattimenti si erano arresi e avevano consegnato le armi. Furono risparmiati solo i trentini e gli istriani e i pochi che si dichiararono pronti a continuare la guerra dalla parte dei tedeschi. Infine, “non vi fu alcun rispetto per i corpi dei caduti. I tedeschi – scrive Aga Rossi – vietarono ai prigionieri italiani e ai greci di seppellirli e si liberarono dei loro corpi ammassandoli in fosse comuni, cospargendoli di benzina e bruciandoli, o gettandoli in alto mare…Una ventina di marinai italiani, costretti a trasportare le salme su zattere, furono eliminati a loro volta… Per molti giorni i falò con i corpi che bruciavano continuarono a emettere colonne di fumo; si dice che gli abitanti di paesi vicini si domandavano cosa fossero e qualcuno rispose: ‘E’ la Divisione Acqui che va in cie-lo’” (pp. 60-61).
Fu insomma una strage deliberata, che al processo di Norimberga il generale Telford Taylor definì come “una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato” perpetrata contro uomini che “indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra” (p.120). Per di più a commettere quei crimini non furono reparti speciali delle SS, bensì l’esercito regolare tedesco, la Wehrmacht, per cui fu il generale Hubert Lanz, comandante del corpo d’armata tedesco incaricato del disarmo dell’XI armata italiana, a essere poi condannato a Norimberga. Peraltro, sostiene Aga Rossi, proprio perché ne era stata autrice la Wehrmacht, in Germania sull’eccidio di Cefalonia calò per diversi decenni un imbarazzato silenzio rotto solo negli anni Ottanta da Erich Kuby e pochi altri che riconobbero che gli italiani non furono affatto traditori dei loro ex-alleati, e che al contrario furono i generali tedeschi a ingannare gli italiani prima e dopo lo scontro armato (p.118).
Il riconoscimento dei crimini tedeschi non risolve tuttavia il problema delle ragioni della sconfitta di una divisione che aveva dato prove di grande coraggio e disposizione al sacrificio nei precedenti combattimenti (tra il dicembre 1940 e l’aprile 1941 aveva perso circa un quarto dei suoi effettivi in combattimenti contro i greci) e che a Celafonia aveva una netta superiorità numerica rispetto ai tedeschi. Al riguardo l’attenzione è stata focalizzata a lungo soprattutto sui comandi militari dell’XI armata e in particolare su quello della divisione Acqui, generale Antonio Gandin. Gandin fu accusato di incertezza, se non di pusillanimità, e fu persino sospettato di collusione con i tedeschi dal tenente Apollonio che con una parte degli ufficiali era contrario ad arrendersi e consegnare le armi come il comando tedesco di Cefalonia aveva richiesto già all’indomani dell’8 settembre. Ritenevano la consegna delle armi un disonore insopportabile e, secondo quanto raccontò Apollonio al suo rientro in Italia, erano animati da spirito resistenziale antitedesco e antifascista. Gandin, secondo Apollonio, avrebbe perso tempo trattando inutilmente per una settimana con i tedeschi, mentre essi si rafforzavano e guadagnavano posizioni strategiche decisive.
Questa versione dei fatti, che catapultava Apollonio al ruolo di massima guida della resistenza ai tedeschi a Cefalonia, ebbe vita facile nel Dopoguerra perché risultava estremamente funzionale alla costruzione del mito della divisione Acqui come culla della resistenza antitedesca e antifascista. D’altronde Apollonio poté personalmente promuoverla, dato che, a differenza di Gandin e degli altri ufficiali che erano stati fucilati subito dopo la resa, egli era riuscito in modo rocambolesco, ma non del tutto chiaro, a salvarsi. Essa fu contestata da diversi attendibili testimoni, ma la storiografia e la pubblicistica filo-resistenziale di sinistra continuarono pervicacemente ad alimentarla. Elena Aga Rossi la sottopone ora a una documentata e rigorosa verifica e perviene a una rappresentazione alquanto diversa degli orientamenti ideologici degli ufficiali e dei soldati della divisione, e soprattutto delle figure di Apollonio e di Gandin.
Aga Rossi sottolinea che Apollonio, dopo essersi salvato dal plotone d’esecuzione in modo assolutamente non chiaro, secondo qualche testimone dismettendo la divisa da ufficiale e indossando quella di soldato semplice, collaborò attivamente e continuativamente con i tedeschi fino alla loro ritirata dall’isola, ricoprendo anche incarichi di un qualche rilievo. Quando i tedeschi abbandonarono l’isola, rispolverò suoi precedenti contatti con i resistenti greci dell’Elas. Rientrato in Italia qualificò in chiave antifascista il suo rifiuto di arrendersi all’indomani dell’8 settembre e sostenne che dopo battaglia era stato costretto a collaborare con i tedeschi. Divenne quindi l’uomo simbolo su cui fu costruito il mito della resistenza antitedesca, e quindi antinazista e quindi antifascista della divisione Acqui. Un percorso che desta molti sospetti di opportunismo e camaleontismo.
Dall’esame accurato delle lettere scritte da ufficiali e soldati alle proprie famiglie e da altre testimonianze emerge per di più che gli orientamenti antifascisti nella divisione Acqui, come già a suo tempo ebbe a sostenere Gian Enrico Rusconi (“Cefalonia. Quando gli italiani si battono”, Einaudi 2004), contrariamente a quanto sostenuto da Apollonio, erano in realtà nettamente minoritari, come non erano d’altro canto maggioritari quelli fascisti. La maggior parte delle testimonianze mostra invece la prevalenza di uno spiccato senso di fedeltà dei soldati alla patria e al re e la loro decisione di non cedere le armi appare in larga prevalenza il frutto di un elevato senso dell’onore militare e anche del timore che, senza più armi, essi sarebbero rimasti completamente in balìa dei tedeschi, che avrebbero tranquillamente potuto non farli più tornare in Italia. E fu in nome della patria quindi che caddero combattendo o fucilati dopo la resa, a cominciare da Gandin, che morì al grido di “Viva l’Italia, viva il re” e che ebbe con pieno merito la medaglia d’oro alla memoria. Eroi più che mai quindi i morti di Cefalonia, Corfù e delle isole minori, ma eroi soprattutto della patria e assai poco della resistenza antifascista.
La rivalutazione della figura e dell’operato di Gandin da parte della Aga Rossi è circostanziata e decisa, in linea anche in questo caso con quella operata da Rusconi. Il tentativo di Gandin di trovare una forma di accordo con i tedeschi che fosse a un tempo onorevole per i soldati italiani e capace nel contempo di garantire ai tedeschi che le armi italiane non sarebbero finite nelle mani degli alleati una volta che la divisione fosse rientrata in Italia, appare ben motivato dalla realtà dei rapporti di forza militare esistenti tra italiani e tedeschi a Cefalonia. Gandin riteneva che la superiorità numerica della fanteria italiana sarebbe valsa a poco contro l’assoluta superiorità dell’aviazione tedesca – cosa invece del tutto sottovalutata dagli ufficiali oltranzisti e da Apollonio. Aprì la trattativa perché i comandanti tedeschi lo ingannarono, dandogli a intendere che avrebbero consentito agli italiani di rientrare in patria, mentre l’ordine emanato da Hitler non era quello del semplice di-sarmo, ma quello della resa incondizionata e dell’internamento dei soldati italiani, e, in caso di loro resistenza armata, quello di non fare tra di essi prigionieri. Avanzò la proposta di compromesso di consegnare le armi pesanti, ma di conservare quelle di mera difesa personale, salvando così ai suoi uomini l’onore militare, la vita e la possibilità del rimpatrio. I tedeschi però non volevano solo le armi, volevano la divisione, e quando si trovò di fronte alla rinnovata richiesta di disarmo immediato e completo, comprese che era stato truffato e che non restava altro che combattere e quasi certamen-te morire.
Non fu dunque la resistenza degli ufficiali, come Apollonio sbandierò dopo il suo ritorno in Italia, a indurre Gandin alla decisione di combattere, ma l’aver compreso di essere stato ingannato dai tedeschi e che i suoi uomini sarebbero stati internati. Né fu decisiva, per l’esito negativo della battaglia, la settimana di trattative intercorsa tra l’8 e il 15 settembre, giorno di inizio degli scontri. Per quanto le truppe di terra tedesche si fossero rafforzate in quei giorni, in realtà a determinare rapidamente l’esito dello scontro fu l’assoluta libertà che ebbe l’aviazione tedesca di distruggere indisturbata dall’alto tutte le postazioni italiane.
E’ a questo punto che entrano in gioco le responsabilità veramente decisive del disastro militare, che sono da ricercare, secondo Aga Rossi, ben più in alto del livello di Gandin e, a maggior ragione, degli ufficiali oltranzisti: assodato che la colpa dei crimini di guerra successivi alla battaglia resta esclusivamente in capo a Hitler e ai militari tedeschi che ne eseguirono gli ordini, le maggiori responsabilità della sconfitta militare italiana a Cefalonia risalgono principalmente al governo Badoglio. Di fronte alla minuziosa preparazione tedesca all’ipotetica resa italiana, si riscontra infatti da parte del governo italiano, che quella resa stava realmente trattando, l’incredibile, assoluta mancanza di direttive e di piani precisi riguardo al disimpegno delle forze italiane di occupazione di territori stranieri, e segnatamente riguardo a quelle di stanza nell’area balcanica, dove erano presenti ben 650.000 uomini, ossia oltre il 30 per cento dell’intero esercito italiano. Hitler sin dal maggio del 1943, nel timore di un crollo militare e politico dell’alleato, aveva ordinato di porre le forze di occupazione italiane nell’Egeo sotto il comando tedesco.
Tra fine luglio e metà di agosto aveva fatto predisporre il piano Achse, che prevedeva, in caso di defezione dell’Italia, l’assunzione da parte tedesca del controllo del territorio metropolitano italiano e delle zone occupate dagli italiani in Francia e nei Balcani, previo disarmo delle truppe italiane di occupazione e l’uso della forza contro coloro che si fossero opposti. Al contrario il governo Badoglio, quando decise di aprire le trattative per giungere all’armistizio, non si preoccupò minimamente di mettere a punto una strategia per far rientrare in patria i corpi di occupazione armata all’estero, eventualmente anche attraverso le Nazioni Unite come gli stessi anglo-americani suggerirono durante le trattative a Lisbona. Secondo il Capo di Stato maggiore delle forze armate italiane, generale Vittorio Ambrosio, Badoglio aveva addirittura preventivato la perdita anche di 500.000 uomini pur di “non insospettire” i tedeschi. Quindi chiese agli alti comandi dell’esercito di continuare a collaborare con i tedeschi contro gli anglo-americani e di tenere i comandi militari nei Balcani completamente all’oscuro di ciò che stava accadendo sul fronte delle trattative (pp. 21-22).
Stando così le cose, si spiega perché non fu dato nessun ordine di spostare le truppe dei Balcani verso le coste e i porti, come gli anglo-americani avevano suggerito. Il generale Carlo Vecchiarelli, comandante dell’XI armata in Grecia, venne a sapere per la prima volta dell’imminente armistizio da un ambiguo promemoria consegnatogli addirittura la sera del 7 settembre. E si spiega anche perché Gandin poté essere facilmente ingannato dai tedeschi e soprattutto perché nulla di tempestivo e incisivo fu fatto quando, sotto il martellamento indisturbato dell’aviazione tedesca, egli chiese disperatamente una qualche copertura aerea o una qualche forma di soccorso per i suoi uomini. La sorte della divisione Acqui purtroppo era già stata irrimediabilmente e tragicamente decisa dall’imprevidenza e dall’insipienza del governo italiano. E di fronte a questa sconvolgente, misera-bile realtà, l’eroismo e l’amor di patria dei soldati mandati a morire rifulgono più che mai nella luce purissima del martirio.
Nella ricerca storica non c’è mai nulla di definitivo. Credo però che per quanto riguarda la tragica “questione Cefalonia”, nel libro di Aga Rossi, frutto di anni di pazienti ricerche e di grande rigore interpretativo e critico, ci sia molto di definitivo.
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