Il postino del gulag
E’ passato alla storia, della politica e della letteratura, come il malinconico e sensuale profeta di una visione dell’America latina che, dopo anni di carcere, esilio e sofferenze, si era incarnata per lui nella realtà politica del suo paese, guidato sulla via del socialismo dall’amico Salvador Allende. Ma Pablo Neruda morì nel momento stesso in cui cominciava il calvario del popolo cileno e il suo funerale fu il primo atto di protesta contro la dittatura militare appena instaurata. Neruda ha assunto così il ruolo, romantico e appassionato, che per la generazione della Seconda guerra mondiale ebbe Federico García Lorca. Eletto senatore nel 1944, esiliato per aver denunciato aspramente il presidente González Videla, Neruda cantò l’America del sud diseredata e che non ha lasciato traccia di sé se non nel lavoro. Ma la sua figura, a forza di mitizzazioni, è diventata una impalpabile agiografia.
Quando uscì il film “Il postino” con Massimo Troisi, un gruppo di studiosi della storia del cinema accusò la pellicola di presentare un’immagine falsamente idealistica e bonaria del poeta cileno. “Neruda – disse lo storico Peter Collier – non era il personaggio benevolo che nel film viene mostrato intento a istruire un postino analfabeta”. Collier e altri critici intervennero contro il film italiano durante un convegno organizzato a Hollywood dagli Studi Paramount. Stephen Schwarz, un critico del San Francisco Chronicle, stroncò il film con una recensione intitolata “Questo Postino porta sempre vizi”. Adesso esce un altro film apologetico sul poeta cileno. Si tratta di “Neruda” del regista Pablo Larraín. Il poeta-eroe in fuga.
“Guardo dalla finestra. Dei soldati montano la guardia per le strade. Che succede? Perfino la neve ha smesso di cadere. Seppelliscono il grande Vishinsky. Le strade si aprono solennemente per far passare il corteo funebre. Si fa un silenzio profondo, un riposo nel cuore dell’inverno, per il grande combattente. Il fuoco di Vishinsky ritorna alle fondamenta della patria sovietica”. Questa è soltanto una delle tanti liriche che Neruda scrisse in onore di Andrey Vishinsky, il terribile procuratore dei processi pubblici di Mosca. Così parlava Neruda, “il più grande poeta del Novecento in qualsiasi lingua”. O almeno così ha detto Gabriel García Márquez.
Pablo Neruda con con la moglie a Viareggio (foto LaPresse)
Probabilmente non è più possibile arrestare questa corrente affabulatoria attorno al culto di Neruda, la cui fama deriva quasi interamente dall’impegno in politica. Neruda verrà insignito del Premio Stalin per la pace nel 1953 e il lauto ricavato di quel riconoscimento il poeta lo impiegò non per il pueblo, ma per costruire la sua casa in riva al mare, La Chascona. “Neruda era un uomo di potere, che decideva a chi concedere il salvacondotto e a chi no”, ha scritto Collier. Il riferimento è al Neruda diplomatico a Parigi, che prese parte al salvataggio in Cile che la nave Winnipeg operò a favore di duemila esuli antifascisti spagnoli. La Winnipeg lasciò Pauillac, il porto di Bordeaux, il 4 agosto 1939. Neruda si trovava sul molo, col suo cappello bianco, accanto alla sua seconda moglie Delia del Carril, a salutare la barca che prendeva il largo e che portava in salvo gli antifranchisti comunisti. Un affascinante leggenda, ma che nasconde alcune verità.
“Neruda ha svolto il ruolo di rovescio di Schindler”, scrive Stephen Schwartz. “Usando il suo status di diplomatico, ha fatto in modo che i passaporti a bordo della Winnipeg andassero ai rifugiati che condividevano la sua politica e le sue idee, che erano quelle di Stalin. I rifugiati respinti sono stati poi condannati all’internamento o alla morte in Francia, che è caduta un anno dopo nelle mani di Hitler”.
Nel suo libro “Beyond death and exile”, Louis Stein osserva che gli anarchici e gli anticomunisti (alla George Orwell) “hanno avuto una piccola quota dei posti disponibili sulla Winnipeg”. Un leader spagnolo anticomunista di sinistra, Federico Solano Palacio, ha dichiarato che l’86 per cento delle domande da parte degli anarchici per salire sulla nave di Neruda furono rigettate. Nel maggio 1940, il messicano comunista David Alfaro Siqueiros, in un tentativo di assassinio che avrebbe avuto successo tre mesi più tardi con Ramon Mercader, cercò di uccidere Lev Trotzky. Siqueiros venne rilasciato su cauzione. Ma subito dopo, Neruda lo avrebbe aiutato a organizzare la sua fuga con un passaporto cileno.
Per il resto della sua vita, Neruda avrebbe espresso orgoglio per questa azione, che aveva portato alla sua sospensione dal servizio diplomatico cileno. Il 24 gennaio 1988, il supplemento letterario del New York Times, un magazine non certo tacciabile di essere l’organo della Cia, pubblicò un saggio sterminato dal titolo “Intellettuali e assassini”, accompagnato dalle fotografie di Neruda e Siqueiros, in cui si collegava il poeta cileno all’Nkvd, la spietata polizia politica sovietica. I “killerati”, i killer letterati.
Alla morte di Stalin nel 1953, Neruda ha scritto questa ode: “Stalin è il mezzogiorno, la maturità dell’uomo e dei popoli. La luce non è scomparsa. Il fuoco non è scomparso”. Questi versi non appaiono nelle antologie del suo lavoro in lingua inglese. Lo stalinismo di Neruda lo portò a rompere con un altro grande scrittore, il Premio Nobel per la Letteratura messicano Octavio Paz, che scriverà: “Neruda è diventato sempre più stalinista, mentre io lo sono diventato sempre meno e meno incantato da Stalin. Così abbiamo smesso di parlarci. Per lui chiunque non fosse uno stalinista era un reazionario. Era malato di stalinismo”. Scriverà ancora Paz: “Quando penso a Neruda e ad altri famosi scrittori stalinisti, sento il brivido che mi dà la lettura di certi paesaggi dell’Inferno”.
Ilan Stavans, un professore di origine messicana all’Amherst College, ha definito Neruda “il portavoce asservito”. Questo volto di Neruda non emerge dai film apologetici prodotti. Per trovarlo si deve leggere Adam Feinstein, autore della biografia definitiva del poeta, “Neruda. A passion for life” (Bloomsbury).
A casa dello scrittore messicano Javier Wimer, Neruda incontrò José Revueltas e il poeta Eduardo Lizalde, che cercarono di convincerlo che non poteva continuare a ingannare se stesso e gli altri, ben sapendo ciò che succedeva davvero in Unione sovietica, e che doveva, visto il suo grande prestigio intellettuale e morale, denunciare l’esistenza dei gulag, la persecuzione dei dissidenti, la soffocante mancanza di libertà. Un giornalista presente, Marco Antonio Campos, ha osservato che “Neruda ascoltava, non senza una certa apprensione”, ma che tacque.
“La sua posizione era abbastanza potente da poter parlare contro i gulag”, scrive Feinstein. “Quando Pablo Neruda fece i nomi di 628 persone, uomini e donne, che erano state rinchiusi nel campo di concentramento di Pisagua, senza essere stati interrogati o informati delle accuse contro di loro, sembrava non rendersi conto che il suo eroe, Stalin, stava mettendo a tacere i suoi avversari politici con gli stessi metodi brutali di Gonzalez Videla”. Scrive ancora Feinstein: “Sulla questione dei poeti russi perseguitati in quello stesso anno sotto Stalin, Neruda rimase in silenzio. Anzi, in un discorso a Città del Guatemala nel 1950, Neruda parlò di un ‘chiacchiericcio’ secondo cui in Unione sovietica scrittori e musicisti e scienziati dovevano modellare le loro creazioni alla richieste di alcuni leader. ‘Questa è un’altra calunnia della reazione internazionale’, disse”.
La cosa incredibile non è che Neruda abbia detto queste cose (fu in buona compagnia nel negare l’esistenza del gulag, vedi Jean-Paul Sartre, Louis Aragon e altri). La cosa scioccante è che, venticinque anni dopo, nelle sue memorie, il poeta cileno ha continuato a negare tutto: “A Mosca, gli scrittori vivono in costante fermento, un continuo scambio di idee”.
Eppure all’epoca si sapeva tutto. Si sapeva che dei duemila scrittori arrestati in Urss circa 1.500 sono scomparsi nei lager rossi. E che molti furono fucilati, imprigionati, deportati, confinati, esiliati, ma anche coloro che scamparono a questa sorte videro la loro vita distrutta, i loro libri sequestrati, la loro opera cancellata. Alcuni furono condotti al suicidio, come Marina Cvetaeva, altri furono proibiti e perseguitati per molti anni, come Michail Bulgakov, Anna Achmatova (le fucilarono il marito, Gumilev), Varlam Salamov, Aleksandr Solgenitsin. Michail Koltsov, il giornalista che narrò sulla Pravda la guerra di Spagna, venne fucilato dopo un processo-farsa durato venti minuti.
Ci fu chi, come il regista Vsevolod Emiljevic Mejerchol’d, si impegnò per il controllo ideologico dei teatri statali, per finire poi fucilato. E poi ancora Isaak Babel, Osip Mandel’stam, Boris Pilnjak. Ma come ha scritto un altro studioso di Neruda, Dominic Moran, “secondo Neruda per fare una omelette bisognava rompere qualche uovo. Ma ci si domanda dei torturati nelle prigione céche e di chi cercava le ossa dei propri cari nel gulag”.
Anche durante la Guerra fredda e dopo la morte di Stalin, Neruda si fece portavoce nel mondo della concezione sovietica del “pluralismo” (leggi tirannia del pensiero unico comunista). Nel 1965, Neruda e la moglie Matilde sono a Budapest, dove dieci anni prima c’era stata la prima rivolta contro Mosca. Come scrive sempre Feinstein, “Neruda si unì all’amico guatemalteco Miguel Angel Asturias per scrivere un piccolo libro… sulle delizie del cibo ungherese, ‘Comiendo en Hungria’”. Il cibo ungherese…
Nel 1966 al Pen Club c’era da scegliere se stare con Ignazio Silone, l’antifascista anticomunista demonizzato come rinnegato dal Comintern, o con Neruda. E fu il poeta rosso, voluto al Pen da Arthur Miller, a essere bersagliato dai flash dei fotografi al pari di una star e a raccogliere più consensi. Lo scrittore abruzzese elogiò gli intellettuali della rivolta in Ungheria e in Polonia e difese l’autore del “Dottor Zivago”, Boris Pasternak.
A tenere banco al Pen i casi di Andrei Sinyavsky, lo scrittore finito nel gulag per aver pubblicato sotto pseudonimo in occidente, e di Valery Tarsis, anche lui in esilio. Neruda diede del “clown” a Tarsis e, a domanda su Pasternak, rispose: “Non sono d’accordo quando gli scrittori sono perseguitati per il loro lavoro. Ma penso anche che sia mio dovere non contribuire alla Guerra fredda”.
Quando Octavio Paz lesse “Arcipelago gulag” di Aleksandr Solgenitsin ebbe una epifania. “Ora sappiamo”, scrisse, “che lo splendore che sembrava a noi una nuova alba è stata quella di una pira intrisa di sangue… I nostri errori in questo senso non sono stati semplici errori… erano un peccato nel senso antico del termine, qualcosa che colpisce l’intero essere… Questo peccato ci ha macchiato e fatalmente ha anche macchiato i nostri scritti… Lo dico con tristezza e umiltà”. Paz avrebbe dedicato gli ultimi vent’anni della sua vita a lavare via questo “peccato”. Neruda no. Il poeta cileno avrebbe definito il caso Solgenitsin come “una controversia che coinvolge passioni altamente personali” e che lui, Don Pablo, il lirico rosso, non aveva “nessuna intenzione di diventare uno strumento di propaganda contro l’Unione sovietica”. “Dopo tutto”, ha proseguito Neruda, “ci sono più scrittori in conflitto coi propri governi nei paesi capitalisti che nei paesi socialisti”.
Fino all’ultima cartolina, Neruda è stato il puntuale postino del gulag.
Il Foglio sportivo - in corpore sano