Paola Masino, eccentrica vestale
A Roma negli anni Ottanta era un’istituzione. La vedevi sempre alle prime, a teatro e all’Opera, una signora alta e sottile con i capelli ondulati raccolti a crocchia, percorsi da pochi fili bianchi malgrado l’età (era del 1908) e la vedevi nel foyer che parlava parlava parlava, fitto fitto, sempre, con questo e con quella, col suo cappotto pied-de-poule e la borsetta nera infilata nel braccio. Si riconosceva subito, per l’altezza, ma soprattutto per un paio di grandi occhiali da vista dalle lenti scure, azzurrognole, che non toglieva mai, mai che li cambiasse con lenti trasparenti. Un vezzo, una necessità? Un modo sardonico di esaltare la propria natura sulfurea, acida, stregonesca? Si chiamava Paola Masino, per i più l’eterna compagna di un grande scrittore semidimenticato, Massimo Bontempelli, morto nel 1960, e lei rimasta a far da vestale al suo ricordo e a rimestare fra le sue carte. Ma non era solo questo Paola Masino. Anzi, prima di tutto è stata e resta, un grande talento femminile: estrosa, coltissima, eccentrica, autrice di un mucchietto di libri, alcuni pubblicati con successo nella giovinezza e poi entrati nel buio della dimenticanza (capita ormai a nomi ben più celebri), altri rimasti nel cassetto, e da ultimo autrice esclusivamente di libretti d’opera per musicisti contemporanei, quelli insomma che nessuno vuole ascoltare.
Mi capitò di conoscerla nell’inverno del 1983 per un’intervista, ma di stregonesco non trovai nulla. Salii all’attico del suo vecchio appartamento, che era stato dei genitori, in via Liegi, una zona periferica del Quartiere Parioli, e mi ritrovai avvolta di luce, quanto lei era sempre tutta nera e malinconica. Subito mi fece fare il tour della casa, mi mostrò i fiori che coltivava sul terrazzo, svelta tagliandone uno, il più bello, per donarmelo. E dentro ecco il pianoforte che ormai non suonava più e libri libri libri che percorrevano ogni stanza, polverosi, pesanti, soffocanti. Alla parete un quadro di De Pisis la ritraeva giovane e bella, con grandi occhi chiari e drammatici. Su un tavolino basso era messa a dormire una magnifica scultura di donna accoccolata, di schiena. “E’ il più bel nudo di Arturo Martini” mi disse. “Forse uno dei più bei nudi del ‘900. Oh, mica perché lo dico io, lo dice tutta la critica! E’ bello perché non è polemico e non è lezioso”.
Dalla Tartaruga, casa editrice femminista che godeva a quei tempi di molta attenzione, era appena stato riproposto uno dei suoi romanzi più stravaganti, “Nascita e morte della massaia”, scritto alla fine degli anni Trenta e, dopo varie vicissitudini che contemplarono la censura fascista come un bombardamento alleato che ne distrusse la prima tiratura, pubblicato nel ’45 da Bompiani, ma oscurato dalla sempre ostile critica di regime che lo considerò “disfattista e cinico”. E’ la storia di una giovane donna irriducibile e ribelle, che una volta normalizzatasi, e quindi sposatasi, diventa preda di una pazzoide casalinghitudine (tanto per citare il libro di Clara Sereni, notissimo in quel periodo) e di una fissazione maniacale per l’ordine e le pulizie. Naturalmente la “Massaia”, come scrisse Silvia Giacomini nell’introduzione, “riguarda le casalinghe come ‘Moby Dick’ gli studiosi di balene”. E’ piuttosto una disperata ricerca d’identità fuori dagli stereotipi femminili imperanti, una ribellione radicale e fallimentare, uno scavo nella scissione profonda della natura della donna divisa fra dover essere e anarchia desiderante, complesso incontro col doppio che tentiamo di soffocare e che, proprio per questo, esplode un bel giorno ingovernabile e funesto.
A Paola Masino, però, non sembrava importare più di tanto quella tarda riscoperta, da parte delle femministe e non solo: la critica ufficiale, sui maggiori quotidiani, non aveva esitato a definire “straordinario” “Nascita e morte della massaia”. Lei scuoteva la testa: “E per questo crede che la gente si sia precipitata in libreria a chiedere il mio romanzo? L’amore per la letteratura non marcia di pari passo con la società di massa”. Tanto meno oggi. Oggi che una novecentista come Marinella Mascia Galateria si è messa a rovistare nei vecchi cassetti, grazie anche alla fiducia accordatale dal nipote e erede della scrittrice, Alvise Memmo, e ne sta riportando alla luce testi inediti o dimenticati. In realtà i “vecchi cassetti” sono, meno poeticamente ma più saldamente, un Archivio: l’Archivio del Novecento dell’Università La Sapienza di Roma, cui il conte Memmo – attraverso la mediazione della docente – ha consegnato le carte dell’illustre zia (è il figlio dell’unica – e amatissima – sorella di Paola, Valeria).
Galateria, studiosa del ’900 italiano e, fra gli altri, proprio di Bontempelli, ha così scoperto lo spumeggiante “Album dei vestiti” (pubblicato l’anno scorso da Elliot) – sorta di autobiografia attraverso gli abiti, scritto fra il ’58 e il ’63 – e ha ora riportato in vita il romanzo forse più cupo e affascinante della Masino, “Periferia” (edizioni Oèdipus), storia di un gruppo di ragazzini “cattivi” e bradi che giudicano senza un briciolo di compassione il mondo degli adulti e fondano, in un’articolata mappa di giochi di strada, una loro società altra, foriera di violenza, sopraffazione e amore, senza nessuna illusione di alternativa o riscatto. Un fuoco di fila di immagini, invenzioni, dialoghi, situazioni rudi e a tratti elegiache che diventa spietato affondo nella natura umana, molto al di là di una non nascosta critica all’ideologia pompier della propaganda fascista su famiglia e ruoli sessuali. “Periferia”, infatti, uscì da Bompiani nel 1933 (secondo romanzo dopo “Monte Ignoso”, che si era aggiudicato il Premio Viareggio due anni prima). Il volto segreto di famiglie in cui serpeggiavano violenze e abusi, stupri e infanticidi, e la chiara visione di una progressiva devastante occupazione edilizia della Roma verde e periferica, non potevano andare a genio al regime che ne bollò l’autrice quale “scribacchina”.
La lunga prefazione che Galateria ha apposto al romanzo è anche un’invitante, preziosa biografia di Paola Masino la cui vita fu avvolta nello scandalo, persino prima che la giovane donna si affacciasse alla ribalta della Letteratura e del romanzo. Da quando, esattamente, conobbe Massimo Bontempelli e se n’innamorò, riamata. Un amore durato una vita intera, ma che dovette pagare un prezzo alto al moralismo perbenista di una società che, almeno quanto a giudizi e pregiudizi erotico-sentimentali non sembra cambiata poi tanto. Quando si conobbero, nel 1927, Paola non aveva ancora compiuto diciotto anni. Lui ne aveva trenta di più ed era sposato con un figlio. Famiglia, però, da cui viveva da tempo separato. E’ Bontempelli, direttore della rivista 900, a pubblicarle i primi testi, ma la coppia, per poter vivere liberamente il rapporto, deve aspettare la maggior età di lei. Finalmente, nel ’29, per allontanarsi dai pettegolezzi si trasferiscono insieme a Parigi, dove fanno vita bohèmienne.
Sono così poveri che lei non può permettersi né vestiti né gioielli e allora adorna vecchi abiti con monili fantasiosi: ghirlande d’edera, fiori al posto di spille d’oro, bracciali e collane altrettanto vegetali. Ma sono felici. Scrive infatti alla madre il 22 marzo del ’46, e non solo per rassicurarla: “La nostra vita mi piace moltissimo”, e a me, quel giorno dell’83 in viale Liegi, descrisse in questi termini l’esperienza parigina: “Era una vita meravigliosa. Eravamo poveri, ma non ce ne importava niente. Abbiamo saltato qualche pranzo e qualche cena per comprare libri, ma era una cosa normale per noi. Parigi era stupenda in quel periodo. C’erano De Pisis, Pirandello, Palazzeschi, Picasso, Valery, Max Jacob… un vero crogiolo d’intelligenza”.
Grazie a tante amicizie artistico-letterarie internazionali strette nella bohème francese e in tanto altro vagabondare, Paola riuscì negli anni a mettere insieme una collezione molto speciale: un mazzo di oltre duecentocinquanta carte da gioco (“la carta è un simbolo metafisico” diceva) ognuna firmata da un grande pittore, da Carrà a Burri, da Fautrier a Campigli, da Guttuso a Consagra, da Cocteau a Calder. Saranno esposte per la prima volta tutte insieme in dicembre, in una mostra allestita a Roma, a Palazzo Braschi, mentre uscirà in contemporanea, per Elliot, in una collana di testi brevi (“Lampi”), sempre a cura di Marinella Mascia Galateria, il racconto “Anniversario”, un viaggio di due sorelle all’indietro nel tempo, alla giovinezza dei genitori, pubblicato una prima volta sul Mercurio della De Céspedes nel 1948 e compreso, però in forma incompleta, nella raccolta “Colloquio di notte”, che uscì nel ’94, a cura di Maria Vittoria Vittori, per un’altra casa editrice femminista, La Luna, animata da Maria Rosa Cutrufelli e ormai introvabile.
Fu proprio la Cutrufelli a definire Paola Masino “insofferente d’ogni costrizione, fiera dissacratrice di convenzioni e nemica d’ogni ipocrita perbenismo”. A distanza di tanti anni questo elemento anarchico, profondamente anticonformista colpisce ancora potentemente, quasi questa scrittrice venisse oggi a riempire un vuoto più che mai abissale, quello dell’eccentricità, del coraggio affidato a parole e trame ostiche e inconsuete, capaci di sgradevolezze tanto poco “commerciali”. Con impressionante preveggenza nella solita intervista dell’83 analizzò la nuova condizione in cui si ritrovano gli intellettuali e gli scrittori nell’epoca dell’editoria diventata industria e dell’arte governata non più dagli esperti, ma dai mercanti. E’ un’analisi talmente lucida che riporto il passo interamente: “Vede, il problema oggi è che anche i più grandi artisti per entrare in un circuito di vendita, per ‘piazzare’ i loro prodotti, non possono più fare affidamento solo sul valore della propria opera. E’ necessario un apparato di sostenitori che parlano continuamente di te, che ti citano, che ti pubblicizzano, che ti invitano in televisione, alla radio. E’ necessario essere continuamente sulla scena, scrivere sui giornali, e via dicendo. Questa rete porta con sé naturalmente una serie di legami, di amicizie che ‘servono’ e quindi non rende più attendibili i giudizi della cosiddetta ‘critica’. Ma l’alternativa al compromesso è il silenzio, la povertà, l’oscurità. Non tutti si sentono di fare una scelta tanto poco produttiva. Uno scrittore, un artista, ha bisogno del pubblico. Senza un consenso la vena si inaridisce. Credo purtroppo che in una società incolta e approssimativa come quella italiana di oggi non si possa eludere un simile meccanismo”.
Chi l’ha conosciuta la racconta come persona arguta e ironica, sfrontata e “maschile”. Non si sentiva a suo agio nei panni femminili classici, proprio lei che aveva votato la sua vita a un unico grande amore, lei che del femminile aveva le destrezze e le umili capacità manuali (aveva passato, per dire, il giorno del Natale ’39 a smontare e ricucire un vecchio cappotto alla sua grande amica Anna Maria Ortese). Lei che rinunciò ad avere figli per non soggiacere ai prevedibili destini femminili che le facevano orrore; lei che in una lettera ai genitori del 1940 si sfoga così: “Se potessi finire il mio libro! Se questi maschi maledetti sapessero quanto più noi di loro desideriamo fare certe cose che loro mettono come pegno della loro stima e poi ci tolgono la possibilità di compierle” (citata dalla Vittori nell’introduzione a “Colloquio di notte”); lei che (in “Periferia”) fa dire a un personaggio, Fulvia, una bambina “di natura feroce e spensierata”, di non voler avere figli: “Cascano e si fanno male, come le bambole. Bella preoccupazione. Io farò la donna famosa, dunque devo sposare un re”.
Fu Bontempelli il suo re. In una lettera giovanile alla madre, raccolta in “Io, Massimo e gli altri” (Rusconi, 1995, a cura di M. V. Vittori) racconta che fu l’amico scrittore Arturo Loria ad aprirle gli occhi, lei si credeva innamorata non di Bontempelli, ma di un uomo più giovane, sui trent’anni: “Fa male, Paola, a voler bene a un altro uomo, lei” le disse Loria. “Lei è troppo intelligente e irrequieta. Ha bisogno di un uomo un po’ vecchio e molto intelligente. Un uomo completamente formato, che non la tema, perché lei si mangia tutti gli uomini di trent’anni. Solo Bontempelli è l’uomo per lei e lei potrebbe renderlo felice. S’innamori di Bontempelli, Paola”.
Era intelligente, irrequieta e abitata da foschi fantasmi fin da piccola, che spiegano – a dispetto della sua vivacità sociale, della sua ironia e grazia gentile che indubbiamente possedeva anche quando era una vecchia signora – la buia visione del mondo e dell’umanità che esprime nei libri. In una splendida intervista rilasciata a Enrico Filippini, sulla Repubblica del 7 giugno 1982, si racconta così: “Io ero un grumo di morte, di spavento, di dolore. Sono nata impastata di questo dolore. Per tutta la vita ho fatto sogni terrificanti: Bontempelli li raccoglieva con l’intenzione di spedirli a Freud”. E poi ne racconta uno. In una spianata, che è il paesaggio della sua infanzia, vede una bara che procede su zampe di gallina. A un certo punto dalla bara esce il braccino striminzito di una vecchia che la saluta e insieme la invita a seguirla.
E certo non è un caso che la protagonista della “Massaia,” bambina, si sdrai in un baule che “fungeva da armadio, letto, credenza” e, coperta di muffa e sporcizia, avrebbe voluto non uscirne più.
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