Il romanzo della vergogna
Più osservo su di me e sugli altri le cause e gli effetti della vergogna, più sospetto che questo sentimento primario e terribile abbia qualcosa della vocazione. Certo ha a che fare, in molti casi, con un eccesso di autocoscienza. “La vergogna ha una natura strana, dispettosa: per difendersi da una cosa l’attira nei suoi recessi più intimi”, diceva Gombrowicz. E appunto questa è la logica fatale della coscienza: che illumina un punto oscuro, e per dissolverlo lo ingigantisce. Una volta mangiata la mela della consapevolezza più affilata, ci s’imbatte ogni istante nel proprio male. Il bene, la purezza vivono solo inconsapevoli: coscienza equivale a recita, mistificazione, sdoppiamento. “Ci sono solo due specie di aria che noi possiamo respirare: quella del paradiso e quella della vergogna”, ha scritto Calasso su Kafka.
L’Eden svanì appena fu colto il frutto della conoscenza. Come racconta il “Genesi”, l’uomo e la donna “si nascosero dal Signore” scoprendo la nudità, la vergogna di essere trapassati dallo sguardo. E qui si pensa ai video che sul web violano l’intimità, spingendo chi è violato a cancellarsi dal mondo. Già, il web: ecco un Dio che è davvero “in ogni luogo”, uno sguardo ubiquo in grado di erodere l’ultimo margine d’ombra che permette agli uomini di conservare un’idea eroica di se stessi. Ma anche quando l’Altro non si manifesta, la vergogna implica che sia in noi come fantasma mentale: ci guardiamo coi suoi occhi e restiamo paralizzati. In questa pietrificazione, come sapeva Sartre, la vista gioca un ruolo determinante, riducendo il soggetto a oggetto. E infatti la psicoanalisi, che a lungo ha ignorato (rimosso?) la vergogna, insistendo sul sentimento contiguo ma radicalmente diverso del senso di colpa, propone un set destinato a neutralizzare l’occhio, col terapeuta alle spalle del lettino.
Particolare di "La cacciata dal Paradiso" di Masaccio
La Bibbia intreccia i due fili che dànno i loro colori a ogni vergogna: l’identità e le azioni, ciò che si è e ciò che si fa. Nell’altra cultura che sta alle radici del nostro immaginario, quella greca, la vergogna appare legata all’onore e al pudore, come in molte civiltà antiche e aristocratiche: è il contraccolpo di una dignità compromessa, che conferma l’ordine del cosmo; esattamente l’opposto di ciò che accade nella nostra società democratica e spudorata, dove la massima licenza si ripaga con un’oscillazione continua di ruoli e autostima, con uno snobismo e un narcisismo che rendono qualsiasi ferita annichilente perché insensata. Di solito, però, ci facciamo un’idea discutibile di quell’arcaica dignità.
Nel testo che fonda il canone dei greci, non troviamo la vergogna proprio là dove il nostro occhio la riterrebbe inevitabile. Siamo al XXII libro dell’“Iliade”. Dopo un attacco acheo, Ettore è solo fuori dalle mura. Per orgoglio non vuole ritirarsi, e decide di affrontare Achille. Ma davanti al bronzo abbagliante del Pelide, la volontà non può nulla: è preso dal panico, e fugge. Tre volte i guerrieri girano intorno alla rocca, finché Atena, travestita da Deifobo, convince il troiano a battersi. Seppure tramite un falso aiuto, Ettore torna dunque in sé. Ma quanto diversa è questa parabola di paura e ritrovato coraggio rispetto a quella, poniamo, di un romantico Homburg. Nessuno qui – né il poeta, né gli uomini, né gli dèi – disprezza il fuggitivo. Tutti considerano fatale che in certe situazioni perfino l’uomo più coraggioso possa ridursi a un corpo terrorizzato. Nell’“Iliade”, chi soccombe alla materia mai “è visto per questo come un essere spregevole”, dice la Weil. Omero (la civiltà greca) sa che anche quando rende i guerrieri simili a tempeste inarrestabili, la forza non è un loro possesso, ma passa di campo in campo svilendoli a “cose” – fulmini gli uni, tronchi mozzati gli altri. E se gli eroi vengono travolti, tremano come tutti.
Achille uccide Ettore
L’equità omerica ci dà un’immagine della vergogna legata all’onore e al coraggio molto diversa da quella che troviamo avanzando lungo la storia dell’occidente. Può sembrare che a poco a poco le etiche esaltino e condannino con più chiarezza il valore e la viltà, aprendo insieme una nicchia alla cristiana compassione. Ma forse la geologia morale decisiva è quella che opera una sinistra identificazione tra sventura e colpa vergognosa: l’irrigidirsi degli ideali di comportamento, confondendo la dignità con la declinazione di una regola, la sottrae virtualmente al rischio delle situazioni davvero estreme perché “senza nome”, irriducibili a precedenti o a leggi. Finché nell’età moderna questi codici di retorica latina o provvidenziale si scollano dall’io, che li percepisce come doveri cavallereschi sempre più estranei. Società e singolo si separano: e alla vergogna codificata, non vergognosa, se ne sostituisce via via una più insidiosa e intima. E’ il tarlo dell’autocoscienza individualista che rende difficile essere e agire come sarebbe degno.
Moderno è l’uomo scisso tra intelligenza e volontà, ormai inversamente proporzionali: “Così il sapere ci fa tutti vili, / e la pallida ombra del pensiero / annebbia il color vivo del decidere”, dice Amleto. E in quell’“Amleto” incanaglito che è “Misura per misura”, il condannato Claudio celebra la nuda vita senza onore né pudore. Invano il duca gli ripete che questa vita è appena “lo zimbello della morte”. Quando la sorella novizia lo avvisa che potrebbe salvarlo solo dandosi al vicario Angelo, certa del suo sdegnato rifiuto, Claudio la invita invece a cedere, perché “la morte” è più “terribile” di qualunque offesa. Riecheggia qui l’Achille dell’“Odissea”, che anziché regnare nell’oltretomba vorrebbe servire il più povero contadino sulla terra. Ma ora a parlare non è un’ombra, è un uomo vivo che il cristianesimo non consola più; e a Isabella la sua paura sembra abietta. Parla di “shamed life”, lo chiama “codardo senza fede”, e sotto i suoi “vergogna, vergogna” sommerge senza pietà quel ragazzo che “ha violato la legge come in sogno”.
E proprio in un’altra commedia nera che potrebbe essere tutta un sogno, come “Misura per misura” è tutta una beffa, troviamo una défaillance analoga ma ben più decisiva. Il “Principe di Homburg”, condannato alla pena capitale per le sue intemperanze di soldato, ripete due secoli dopo Claudio il lamento di Achille. Davanti alla fossa, la morte prima sfidata con temerarietà in battaglia gli appare in tutta la sua fredda insensatezza, che niente può compensare. Per evitarla, Homburg è pronto a strapparsi i gradi, a mietere i campi, persino a rinunciare all’amata Natalia. Anche qui, davanti al ragazzo c’è una ragazza: ma non lo umilia. Solo con lo zio si sfoga: “Come può abbassarsi tanto un uomo che era considerato un eroe?”. Eppure, tra lacrime e sorrisi dolorosi, attenderà che Homburg ritrovi il suo orgoglio. Tuttavia la conclusione non evitò all’autore lo sdegno del pubblico. Ma come? Voleva esaltare un condottiero nazionale, ingraziarsi una sua discendente, e ne faceva un vigliacco? Il fatto è che Kleist, diviso tra militarismo e ossessioni autodistruttive, non può essere classicamente nobile: è costretto a raccontare una coscienza risucchiata dall’inconscio, dove le grandi passioni si mischiano a crudeltà parodiche, eccessive, o franano in mezzo a puerilità grottesche.
Di lì a poco la tragedia si rivela strettamente imparentata al ridicolo, marchio indelebile di un mondo privato di Dio e consegnato all’oscenità nuda dell’esistere. Nascono allora i buffoni dostoevskiani. La loro vergogna è irreparabile, perché è la pasta stessa di cui sono fatti. L’unico sollievo sta nella voluttà di degradarsi e denigrarsi. Sta, quindi, anche nel parlare: in una verbosa arringa che non può mai assolvere né condannare una volta per tutte, ma che finché dura può schivare il giudizio altrui. E spesso il giudizio è uno sguardo. Come quello di Liza, che l’io narrante delle “Memorie dal sottosuolo” non tollera perché lo invita a un dialogo mite, alla pari, quando lui può concedersi solo monologhi e rapporti sadomasochisti. L’idealizzazione persecutoria di sé gli costa un morboso terrore del ridicolo, e appunto per questo vi inciampa a ogni passo, compromettendo qualunque rapporto. Un eccesso di consapevolezza lo conduce a un febbrile eccesso di suscettibilità: si sente sempre addosso un occhio sprezzante. Eppure questo impiegatuccio sa che la vergogna è una cosa sola con la vertigine dell’autocoscienza: “Forse che una persona consapevole può avere un benché minimo rispetto di sé?”. Ma senza rispetto non si può “consistere”: solo umiliarsi e umiliare, o risarcire i fallimenti reali perdendosi in un ininterrotto esprit de l’escalier, nelle eroiche fantasie libresche subito indovinate da Liza. E se le fantasie esplodono in un aborto di beau geste, o nel tentativo di provocare qualcuno in un’osteria o sul corso, è perché l’acting out sembra poter restituire la faccia perduta nella vita quotidiana.
Questo della provocazione, concepita come seconda chance per vincere la realtà che lo ha vinto, è un tratto tipico del personaggio “vergognoso”. Lo ritroviamo, descritto con malinconia commovente, nell’esemplare parabola di “Lord Jim”. Anche il Caino conradiano cerca un casus belli per dimostrare intatta la sua dignità, malgrado l’evento che l’ha marchiato; e alla fine sfiora un riscatto epico, che però gli attira un’altra nemesi. Il suo trauma è famoso. Ubriaco di sogni romantici, Jim s’imbarca sul Patna, che ha nella stiva ottocento pellegrini diretti alla Mecca. Ma nell’Oceano Indiano i sogni s’infrangono, con l’immagine di sé che li nutriva. Una notte, la nave cozza contro un ostacolo ignoto e sembra sul punto di affondare. L’equipaggio scappa sulle scialuppe, incurante dei pellegrini. Il protagonista esita, come paralizzato, poi in un istante d’indefinibile rassegnazione salta. Ma il Patna resta a galla, e viene rimorchiato. Jim, solo, si presenta al processo, rimanendo immobile davanti a deposizioni capaci di ridurre “un uomo in cenere dalla vergogna”. Poi, privato del brevetto di ufficiale, migra di porto in porto, fuggendo a est appena qualcuno allude al suo passato: per sopravvivere non può fermarsi, come l’io delle “Memorie” non può smettere di parlare.
Del resto, anche Jim ha un continuo bisogno di spiegarsi: e a Marlow, il narratore intermediario di Conrad, ripete che quella notte non era ancora pronto. Se l’incidente lo tortura non è solo per la vergogna, ma anche perché lo considera un’occasione perduta di eroismo: e appena fantastica su come avrebbe potuto agire, riaffiora sul suo volto una gloria immaginaria. La sorte gli sembra un avversario privo di fair play, che gli ha fatto lo sgambetto prima del fischio d’inizio; ma Marlow ribatte che la realtà è appunto l’incontro con ciò che non si può prevedere: “E’ sempre l’inaspettato a succedere”. L’hic Rhodus mancato da Jim, fuso col monologo sordido del sottosuolo, riaffiora nella “Caduta” di Camus. Qui un ex avvocato parigino, che si è rifatto una vita da “giudice-penitente” in un bar di Amsterdam, patteggia con la vergogna riversando sull’intera umanità il giudizio che ha di sé, per annegare l’autocondanna in una notte dove tutte le coscienze sono nere. Come in “Lord Jim”, questa condanna riguarda un’omissione “acquatica”: un’altra cruciale notte, l’avvocato ha sentito il tonfo di una ragazza che si buttava nella Senna e ha tirato dritto. Anche lui pensa spesso a una seconda chance, ma sa che è più prudente lasciarla tra le possibilità astratte: “L’acqua è così fredda! (…) e sarà sempre troppo tardi, per fortuna”.
La linea Dostoevskij-Camus è quella dell’esistenzialismo: l’uomo scopre l’arbitrarietà della sua vita, e ogni scelta diventa un’ordalia che lo può esaltare o abbattere. Al di là dei contegni crudeli o meschini, è l’idea che atti ed eventi si susseguano senza necessità a generare un metafisico e vergognoso rimorso. Le conclusioni estreme le trae Kafka, che riscrive il “Genesi” in un mondo senza Dio. Mentre lo ammazzano “come un cane”, il K. del “Processo” pensa che la vergogna gli sopravvivrà: vi è così immerso da vivere perfino la morte, ciò che l’uomo ha di più proprio, dal punto di vista degli altri. Ma esistono anche vergogne in apparenza meno sinistre, che tuttavia proprio per il loro carattere prosaico e imbarazzante possono annichilire quanto quelle “tragiche”. Sono vergogne che rivelano una pura impotenza, senza colpa né chance eroiche, di cui si stenta a dire il nome. Si pensi ad “Armance”, il cui tema è appunto l’impotenza, parola che Stendhal evita di pronunciare fino all’ultima riga. Anche Octave prova qui a sfuggire alla sua piaga segreta con improvvisi colpi di testa. Bello, intelligente, ma cupo e gelido, è spaventoso negli scatti di furore, e se ne compiace: meglio che lo ritengano folle o assassino, piuttosto che indovinare la sua menomazione. Non può nemmeno compatirsi, perché “la vergogna (…) gli impediva di avere pietà di se stesso”.
Ci sono infine umiliazioni ancora più “indicibili” e irredimibili per la loro comicità, che forse sottovalutiamo proprio perché ci vergogniamo di citarle. Un racconto di Landolfi, “Sub specie flatus”, inizia così: “Sul più bello della sua prima estasi d’amore, una giovanissima sposa trullò”. Questa involontaria flatulenza stende sulla coppia un’ombra che la volontà non basta a scacciare, dato che per difendersi dall’imbarazzo la coscienza “l’attira nei suoi recessi più intimi”. Il marito subito rimugina: tacere? Affrontare il discorso? Alla fine parla, e rassicura la sposa con tenerezza. Poi, una sera, trulla anche lui. Pari e patta, dunque? Neanche per sogno, perché l’amore sprofonda in un calcolo di reciproche indulgenze, e ogni mossa rende ormai i due “sospettosi e avversi”. “Trullato che s’abbia una volta”, conclude Landolfi, “non si sa dove si può andare a finire”. Sarà troppo, affiancare ai casi classici e clinici una scenetta del genere? Forse no, dato che proprio queste vergogne “epidermiche” sono le più tipicamente moderne: l’immagine che l’uomo ha di sé è così labile che ogni minimo infortunio, destinato a sottolineare il divario tra ciò che dovrebbe accadere “secondo standard” e ciò che accade nei fatti, può risultare devastante. Ci si vergogna di vergognarsi, perché è segno d’insuccesso, e così il sentimento dilaga senza argini; il ridicolo non conosce più riscatti, e impedisce di sublimare il dolore. Landolfi ci dice che più il nostro mondo è futile e derisorio, più è mostruoso. E viceversa.
Il Foglio sportivo - in corpore sano