Quei camici neri
Il dottor Schweitzer e poi l’eutanasia: la caduta della grande scienza tedesca. Settant’anni fa a Norimberga il processo ai medici nazisti. E’ consolante presentarli come “i medici delle SS”. Ma non erano tutti burattini di Hitler, avevano scelto di partecipare
Il 21 novembre 1946, i medici nazisti presero posto sul banco degli imputati nell’immensa aula del tribunale di Norimberga. Una folla rumorosa e numerosa si accalcava nella parte riservata al pubblico. C’erano molti grandi nomi della medicina europea ad assistere a un evento senza precedenti. Quando fu pronunciato il suo nome, Karl Brandt, il medico personale di Adolf Hitler che aveva presidiato all’eutanasia dei bambini e dei disabili, avvicinatosi alla sbarra disse, con voce calma e forte: “Mi dichiaro non colpevole”. Quel medico idealista dell’Alsazia aveva sognato di partire per l’Africa equatoriale francese che adesso è chiamata Gabon. Voleva servire i malati e i poveri in una striscia di terra seminata a caffè, aranci e limoni, stretta tra una foresta densa di vapori e un fiume lentissimo e giallastro. Brandt sognava di lavorare con il dottor Albert Schweitzer. Uno che avrebbe dedicato la sua vita alla cura di “tutto ciò che si muove”.
Il “grande dottore bianco”, come lo chiamavano gli africani, un uomo dalle mani severe e giuste che a Lambaréné, su un terreno messogli a disposizione dalla Società missionaria di Parigi, accolse sofferenti di lebbra, di dissenteria e di molte malattie tropicali. Contro la cultura dell’eutanasia, Schweitzer affermava sempre: “Rimanere in vita è un atto etico”. Diceva che la natura non conosce rispetto per la vita, ma l’uomo sì. L’uomo, diceva, “è morale soltanto quando considera sacra la vita in quanto tale”. Con queste parole Schweitzer spiegava il senso del suo impegno a favore dei malati. Era questo il significato più miracoloso del suo “village de la lumière”, il villaggio della luce.
Brandt fece sua una concezione opposta della medicina. La maggior parte dei medici alla sbarra a Norimberga aveva tutte le caratteristiche di rispettabilità civica e scientifica. Molti non erano burattini nazisti, ma avevano fatto le loro carriere come medici molto prima che Hitler salisse al potere. E avevano fornito contributi preziosi alla ricerca scientifica. Nel 1967 Feltrinelli traduce e pubblica in Italia il libro di Alexander Mitscherlich e Fred Mielke, “Medicina disumana”. Sono le cronache e i documenti del processo di Norimberga. La sua prima edizione fu riservata all’Ordine dei medici della Germania occidentale e per incanto sparì dalla circolazione, tanto era l’imbarazzo. “Gli annali della caduta della medicina tedesca sono pieni di nomi di scienziati di fama internazionale come i professori Planck, Rudin, e Hallervorden e medici come Georg Schaltenbrand, che ha condotto gli esperimenti neuro-immunologici non in un campo di concentramento, ma alla Julius-Maximilians-Universität di Würzburg”, ha scritto Hartmut Hanauske-Abel, studioso di storia della medicina nazista.
Uno dopo l’altro, i 23 medici si dichiararono tutti “non colpevoli”. Il dottor Siegfried Handloser, viso scarno e solcato dalle rughe, si sarebbe difeso con energia. Fino al 1928 aveva diretto l’ospedale di Ulm. Nel 1941 divenne ispettore dei servizi di Sanità dell’esercito. Fece pressioni perché si sperimentasse un vaccino contro il tifo, che stava decimando le truppe tedesche. Le prove contro di lui erano schiaccianti e la sua collusione con la scienza dei campi di concentramento sotto gli occhi di tutti. Eppure, gli fu concesso l’ergastolo, anziché la pena di morte. A Handloser fece seguito sul banco degli imputati Paul Rostock, il più ingenuo e il più onesto degli accusati, amico di Brandt e suo maestro e mentore. Si era iscritto alla facoltà di Jena, dove aveva consacrato tutto se stesso alla professione di chirurgo.
Apolitico, nel 1927 diventò primario del reparto chirurgico dell’ospedale di Bochum, fino ad approdare alla docenza di Chirurgia all’Università di Berlino, dove insegnò cinque anni. Non fu mai un acceso sostenitore né un acerrimo oppositore del regime nazista, quanto un medico patriottico. Su richiesta di Brandt, Rostock entrò a far parte del Consiglio della ricerca del Reich. A Norimberga, il dottor Rostock avrebbe motivato così la decisione di partecipare agli esperimenti medici: “Volevo cercare di migliorare le nostre conoscenze per poi utilizzare tali conquiste scientifiche in periodo di pace. Penso che le mie iniziative non siano state del tutto inutili, perché durante tutto il periodo di guerra le ricerche scientifiche non furono abbandonate. Neppure in sogno avrei potuto immaginare che un giorno, proprio per quelle mie iniziative, sarei stato esposto ad accuse così mostruose”.
Kurt Blome era un medico e un nazionalista. Nel 1938 fondò un’accademia di studi medici a Budapest. Alla sua inaugurazione parteciparono medici e scienziati provenienti da molte nazioni. Nessuno sollevò problemi sul percorso intrapreso dalla medicina sotto Hitler. Nel 1943, Blome divenne plenipotenziario al Consiglio della ricerca del Reich, nel settore delle ricerche sul cancro e la guerra biologica. Nel frattempo venne nominato professore alla facoltà di Medicina dell’Università di Berlino. Ossuto nei tratti, teso e nervoso, Blome si difese con orgoglio a Norimberga, rivendicando la bontà delle sue azioni. Un altro degli imputati, il dottor Karl Gebhardt doveva la sua ascesa ai vertici della medicina nazista al fatto che era cresciuto assieme a Heinrich Himmler. Nel 1937, a soli quarant’anni, era già ordinario all’Università di Berlino. I suoi esperimenti erano noti anche all’estero, tanto che il governo polacco in esilio lo condannò a morte. Fu poi la volta del dottor Gerhard Rose, corpulento, capelli bianchi, barba rasata. Il più illustre degli scienziati, un luminare delle malattie tropicali.
Gli accusati continuarono a succedersi al banco degli imputati. Rudolf Brandt, grassoccio, capelli rasati, miope, era il segretario di Himmler. Wolfram Sievers, la barba folta, lo sguardo penetrante, sembrava Rasputin. Hermann Becker-Freyseng si presentava come un ometto con le orecchie a sventola. Helmut Poppendick aveva il portamento dimesso, primario dell’ospedale di Virchow, specializzato in malattie ereditarie, e poi incaricato dalle SS al Servizio della razza. Karl Genzken, robusto, dai trati duri e decisi, era capo del Servizio di sanità delle SS. Joachim Mrugowsky, dallo sguardo altero, era capo dell’Istituto di igiene delle SS, incaricato fra le altre cose di provvedere al gas Zyklon B di Auschwitz.
Herta Obersheuser era l’unica donna fra gli imputati, esperta di malattie della pelle, cattolica. Waldemar Hoven, “il bel Waldemar”, mingherlino, responsabile medico nel campo di Buchenwald, fu uno dei medici più direttamente compromessi con gli esperimenti nei campi e con iniezioni selvaggie di fenolo. Wilhelm Beiglböck era lo specialista degli esperimenti sulla sopravvivenza in mare. Fritz Fischer, brandeburghese, sperimentò numerosi farmaci su esseri umani, e nel febbraio 1943 a Berlino tenne una conferenza sulle sue scoperte. Sigmund Ruff, magro, elegante, diede subito il suo appoggio agli esperimenti, e li condusse lui stesso a Dachau. Hans Romberg, come Ruff, si interessava di medicina dell’aviazione e ne divenne il collaboratore. August Weltz, massiccio e sportivo, era responsabile dell’Istituto per la medicina aeronautica a Monaco. Di Konrad Schäfer e Adolf Pokorny, il classico medico di Berlino colto, non si riuscì a provare la colpevolezza. Il generale medico Oskar Schröder, come Handloser, giustificò la sua partecipazione agli esperimenti sugli esseri umani. Viktor Brack, padre di sei figli, non era medico, ma il più alto responsabile politico e civile dell’eutanasia.
Gli investigatori degli Alleati percorsero tutta la Germania per trovare prove e documenti che incriminassero gli imputati. Ma i nazisti avevano accuratamente distrutto le prove Le installazioni sperimentali erano enclave all’interno dei campi di concentramento. E la leadership nazista era stata svelta anche nel liquidare i partecipanti alla ricerca medica. Molti medici scelsero il suicidio. Il processo fu presentato come quello ai “medici delle SS”. Nulla di più falso, seppure molto consolante. Tre degli imputati erano amministratori, solo sette dei medici accusati erano ufficiali delle SS, e quattro non erano neppure iscritti al Partito nazista. Essi differivano non solo politicamente, ma anche in termini di esperienza medica e di provenienza sociale. Diciassette erano di fede protestante, sei i cattolici. Soltanto tredici dei ventitré accusati avevano abiurato la religione cristiana, in ottemperanza all’ideologia nazionalsocialista. Dei venti medici accusati, quattro erano chirurghi (Karl Brandt, Fischer, Gebhardt e Rostock), tre dermatologi (Blome, Pokorny, Oberheuser), quattro batteriologi (Handloser, Mrugowsky, Rose e Schröder), uno internista (Beiglböck), uno radiologo (Weltz) e due medici generici (Genzken e Hoven).
Nessuno dei medici processati e impiccati a Norimberga provò rimorso per quello che aveva fatto. Rivendicarono invece la bontà e la legittimità delle loro azioni. Karl Brandt: “Sono un medico e in coscienza c’è la responsabilità verso gli esseri umani e la vita (…) Pensate che sia stato un piacere per me ricevere l’ordine di consentire l’eutanasia? Mi sono preoccupato di ogni bambino malato come se fosse il mio”. Handloser usò parole latine: “Scientiae, Humanitati, Patriae”. Per la scienza, l’umanità e la patria. Rostock: “Nella mia vita non ho mai lavorato per uno stato o un altro, né per un partito politico in Germania, ma solo per la scienza medica e i miei pazienti”. Schröder: “I miei occhi hanno sempre guardato a un solo scopo: aiutare e curare”. Gebhardt: “Ho sempre cercato di vedere ogni malattia come una condizione umana di sofferenza. Per me era importante che gli esperimenti avessero valore scientifico pratico per testare l’immunizzazione e proteggere migliaia di feriti e malati”. Mrugowsky: “La mia vita, la mia azione e i miei scopi erano puliti”. Poppendick: “Le moderne conquiste della scienza non possono essere raggiunte senza sacrifici. Sono convinto che gli esperimenti sugli esseri umani furono sforzi coscienti di scienziati seri per il bene dell’umanità”. Beigbloeck: “Gli esperimenti dovevano salvare vite umane”.
Karl Brandt, Brack, Gebhard, Mrugowsky, Hoven, Sievers e Rudolf Brandt furono condannati a morte. Fischer, che aveva attuato gli esperimenti di Ravensbruck, Genzen, Handloser, Rose e Schröder, furono condannati all’ergastolo (amnistiati poco dopo). Becker-Freyseng e Oberheuser, anche loro medici a Ravensbruck, furono condannati a vent’anni. Beiglböck e Poppendick a dieci anni. Blome, Pokorny, Romberg, Rostock, Schäfer e Weltz uscirono dal tribunale da uomini liberi.
Quegli imputati erano ai vertici della medicina tedesca. E il paradosso è che la ricerca medica nazista toccò il suo culmine nel 1944, quando le sorti della Germania di Hitler erano segnate. Incentivi alla sperimentazione umana vennero garantiti anche a guerra persa. Molti dei medici processati a Norimberga provenivano dalla facoltà di Medicina di Berlino, che penò molto a liberarsi della fama di scuola dell’assassinio. L’Università di Berlino era implicata nel processo agli esperimenti di Ravensbruck. Quando venne pronunciata la condanna a morte per Karl Brandt, numerose personalità scientifiche insorsero a favore del medico di Hitler: i chirurghi Domrich e Sauerbruch, il patologo Robert Roesle, il farmacologo Heubner, il ginecologo Stoeckel e molti altri. Trovarono oltraggioso che un medico idealista e coscienzioso come Brandt potesse essere mandato al patibolo.
C’era chi, come il dottor Joachim Mrugowsky, era stato l’allievo prediletto di Emil Abderhalden, il pioniere svizzero della biochimica che aveva studiato l’isolamento delle proteine durante la gravidanza. Dopo aver distribuito il gas Zyklon B ad Auschwitz in quanto responsabile dell’Istituto di igiene razziale, il dottor Mrugowsky si chiudeva nella sua biblioteca, per immergersi nei testi di Alexander von Humboldt e di Jakob Böhme. Nella mente di uno dei medici impiccati a Norimberga, il funzionamento delle camere a gas non era in disaccordo con il “Faust”. Tutto in nome del motto di Goethe: “Sich überwinden”. Superarsi.
Tutti quei medici pensavano di fare del “bene”. Lo spiegò così a Norimberga il dottor Gerhard Rose, il massimo esperto tedesco di malattie tropicali che aveva sperimentato vaccini su esseri umani: “Le vittime del tifo di Buchenwald non hanno sofferto invano. Noi oggi possiamo contare le persone che sono state sacrificate, ma non possiamo sapere quanti individui devono la vita a questi esperimenti”. Come hanno potuto dei luminari della scienza e della medicina, titolari di cattedre, autori di ricerche straordinarie, tradire il giuramento di Ippocrate e distruggere così tante vite umane per sradicare la malattia e la sofferenza, per il “bene” dell’umanità e per il bene della medicina? Condannare non è sufficiente. Quei medici potevano rifiutarsi come altri fecero, non avevano ricevuto ordini, si erano offerti per compiere le selezioni, per scegliere il metodo di lavoro e per partecipare alle ricerche scientifiche. Più che mostruoso, non suona familiare?
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