American devolution
I manifestanti che protestano contro l’elezione democratica di Donald Trump sono l’immagine di un epocale testacoda ideologico. La piazza è per definizione infiammabile ed emotiva, ma opporsi a un presidente che non si è nemmeno insediato significa manifestare contro la democrazia stessa, oppure contro i “deplorables” che non hanno votato il candidato della parte giusta della storia. Lo slogan “Not my president” pende più a favore della seconda ipotesi: lui è il loro presidente – il presidente dei bianchi-trogloditi-fascisti-sessisti – non il nostro, è il rappresentante del clan avversario, che non proprio incidentalmente incarna tutti gli orrori della storia. Il manifestare rende evidente che anche questi giovani di sinistra, che nuotano nei precetti della democrazia liberale e pluralista come pesci nell’acqua, in realtà trafficano con la tanto deplorata “identity politics”. Somigliano agli avversari che criticano e che democraticamente rispettano, anche se quando le circostanze storiche lo richiedono il rispetto può essere sospeso, e così ci si ritrova nella complicata posizione di criticare il sistema che si è difeso fino a farne un idolo. L’esito di un processo democratico può essere antidemocratico, a quanto pare.
Manifestanti contro la vittoria elettorale di Donald Trump (foto LaPresse)
Molte energie in questa campagna sono state spese per convincere gli elettori che Trump non era un avversario normale, non meritava il trattamento rispettoso ed equo che volentieri si sarebbe accordato a un Marco Rubio e perfino a un Ted Cruz, ma quel tycoon iperbolico era fuori dal perimetro della decenza, del decoro, del buonsenso, della civiltà. Era un irredimibile che non raggiungeva gli standard morali per ottenere la protezione delle istituzioni democratiche. Se da un lato tutto questo dimostra che aveva ragione William Buckley, quando diceva che i liberal rispettano le opinioni altrui, ma non riescono proprio a credere che gli altri abbiano opinioni diverse dalle loro, dall’altro dimostra anche che prima di lui aveva ragione Platone, il quale nel 380 a.C. aveva previsto gli assembramenti indignati sotto la Trump Tower. L’aporia del sistema democratico era già evidente allora. E’ stata la visione progressista della storia introdotta dalla modernità con prometeica assertività a offrire l’illusione che tutti questi fossero soltanto incidenti di percorso, niente che il tempo, la disciplina, il raffinamento delle istituzioni e l’estensione dei diritti non avrebbero potuto sanare.
L’illusione era talmente sottile e difficile da intercettare che si è preso a sostenere che la democrazia liberale non era perfetta, ma aveva gli strumenti per correggersi, disponeva degli anticorpi per debellare le patologie che l’avrebbero aggredita. E’ stato così che la visione del mondo liberale è diventata non un’ipotesi ma una premessa implicita, non un sistema fra gli altri sistemi possibili ma l’unica cornice filosofica ammissibile, tanto più convincente ed efficace quanto più era in grado di presentarsi come invisibile e neutrale. Il contenuto dell’identità liberale è una non-identità, è un supermercato pluralista dove ogni individuo può prendere dagli scaffali le opzioni di vita che preferisce. Per essere veramente efficace e persuasiva, l’ideologia liberale non doveva presentarsi come un’ideologia, ma come lo sfondo naturale della storia.
Criticando le sue pretese di neutralità, Patrick Deneen, filosofo di Notre Dame, parla di “insostenibilità del liberalismo”. Per alimentarsi, scrive Deneen, il liberalismo deve conquistare e fagocitare precetti e istituzioni illiberali: “Questo avvalersi di eredità pre liberali non è casuale o accidentale, ma è in realtà una caratteristica essenziale del liberalismo. Così l’esperimento liberale contraddice se stesso, e la società liberale diventa inevitabilmente post liberale”. I ragazzi che protestano per la regolare elezione di un presidente nel contesto di una società liberale regolata da leggi certe, benedetta da diritti individuali a profusione e resa prospera da un capitalismo che sa correggere i suoi errori, è un’istantanea dal mondo post liberale. In fondo, non è che una reazione all’irrompere sulla scena di un presidente post liberale, un politico antipolitico che conquista un formidabile e inaspettato successo mettendo sotto processo, confusamente quanto si vuole, alcune certezze fondamentali che l’ordine liberale aveva reso ovvie e necessarie come l’aria, dal libero commercio nel regno dell’economia, all’internazionalismo in quello della politica estera fino alle tesi sulla “fine della storia”, talmente radicate nell’inconscio della classe dirigente di entrambi i partiti americani da scomparire.
Le promesse antropologiche su cui il sistema liberale poggia sono chiare: l’individuo come essere autonomo e autosufficiente, agente unico della storia, la libertà come pura negatività e assenza di coazione, i diritti intesi come naturale bacino di espansione dei desideri individuali, la relativizzazione di qualunque valore e significato, tutto ridotto a un sistema di preferenze che si equivalgono, il pluralismo inteso come sorridente dittatura del relativismo, per usare l’espressione dell’allora cardinale Ratzinger, gli afflati spirituali, religiosi e metafisici perfettamente accettati ma nella misura in cui non fanno capolino fuori dalla coscienza e dalla sagrestia. “Cosa diavolo è l’acqua?”, domanda il giovane pesce nella storiella usata da David Foster Wallace in un famoso discorso ai laureati del Kenyon College. In un certo senso, l’elezione di Trump è il momento in cui quel giovane pesce si rendo conto dell’esistenza dell’acqua.
“Per la maggior parte delle persone in occidente, l’idea di un tempo e di un modo di vita dopo il liberalismo è plausibile quanto l’idea di vivere su Marte”, scriveva alcuni anni fa Deneen. Nel frattempo le fantasie intergalattiche di Elon Musk hanno fatto enormi passi in avanti, e il filosofo avrebbe dovuto forse aggiornare la metafora usata per esemplificare la categoria dell’impensabile. Avrebbe potuto scrivere che l’idea di un tempo e di un modo di vita oltre il liberalismo è plausibile quanto una presidenza Trump, immagine sarebbe anche più implausibile di una migrazione su Marte. Almeno fino alla notte fra l’8 e il 9 novembre, quando il più improbabile dei candidati è stato eletto alla presidenza su mandato dell’elettorato post liberale che nessun accademico aveva visto, che nessun sondaggio aveva rilevato, ché anche gli algoritmi contengono i pregiudizi ideologici dei loro autori.
Nella cittadina di Rockford, un angolo depresso della rust belt, c’è un gruppo di intellettuali che da oltre trent’anni grida all’imminente spezzarsi del consenso liberale, ma nessuno o quasi li ha ascoltati. Sono gli animatori della rivista Chronicles, conservatori della corrente paleoconservatrice che è stata spazzata via dai neoconservatori internazionalisti, cosmopoliti e falchi in politica estera che a un certo punto dell’era Reagan hanno occupato le stanze del governo e dei think tank. I paleocon si sono ritirati negli antri nascosti del paese aspettando la vendetta della storia e contribuendo a produrre, nel frattempo, esperimenti politici minoritari come quello di Pat Buchanan, che per molti versi è stato l’apripista dell’esperimento trumpiano. Ora il tavolo della storia si è rovesciato in loro favore.
Scott Richert, direttore di Chronicles, legge la vittoria di Trump come il grande momento di crisi dell’“idea liberale”, dove le condizioni economiche sono soltanto un sintomo, non la patologia: “Trump ha dato l’opportunità a tanti di riconoscere la fondamentale falsità delle promesse dell’ordine liberale in economia e nelle relazioni internazionali. La sua vittoria, se guardata a un livello più profondo di quello che è stato raccontato, contiene una critica profonda a ciò che tanti credevano fosse l’unico scenario possibile nella modernità. Noi qui non abbiamo mai creduto che la storia fosse finita o che la forma dello stato-nazione sarebbe scomparsa, rimpiazzata da un ordine internazionale governato dalle astrazioni della finanza, anzi dopo il collasso dell’Unione sovietica avevamo previsto molti conflitti e un’incredibile instabilità in medio oriente, ma gli esperti dell’establishment ci prendevano per pazzi. Ci è voluto un po’ perché un numero sufficiente di persone arrivasse a questa epifania”.
Per Richert le motivazioni economiche degli elettori di Trump contengono alcuni elementi importanti per cogliere il senso storico dell’evento, ma occorre leggere i dati con attenzione, resistendo alla tentazione di semplificare: “Il racconto dell’elettore di Trump come il gradino più basso della piramide economica si è dimostrato falso. Chi lo ha votato soffre per un impoverimento generale della classe media e medio bassa che va avanti dai primi anni Settanta, nulla di nuovo, ma il dato decisivo, io credo, è quello che riguarda la percezione della propria condizione: la stragrande maggioranza di chi sosteneva che la propria situazione economica era peggiorata rispetto a otto anni fa ha votato Hillary, gli elettori di Trump non percepivano necessariamente l’apocalisse economica già ora. Cosa ci dice questo? Che non lo hanno votato per disperazione, ma perché hanno intuito che le premesse su cui il sistema economico si basa sono false. E’ un voto che esprime una critica, per lo più implicita e inconscia, perché non tutti sono tenuti a capire i fenomeni della storia in modo teoretico e intellettuale, ma questo non vuol dire che non li capiscano, a un ordine di vita, non a una congiuntura sfavorevole. Anche se loro in questo momento stanno bene, sanno che non si stratta di una condizione che può andare avanti, e i loro figli o i loro nipoti avranno un pessimo futuro davanti ai loro occhi”.
Quelle sacche di elettori di Michigan, Wisconsin e Pennsylvania che hanno fatto pendere la votazione verso Trump sono quelle che negli anni Ottanta hanno votato Reagan, nonostante venissero da una tradizione democratica e sindacalizzata, ma sono anche gli stessi che hanno votato Obama per due volte: “In poche parole, sono elettori non ideologici che votano guardando alle loro condizioni, anche se i giornali li hanno dipinti come primitivi filonazisti, sessisti e nativisti dediti alla purificazione della razza. E’ ben strano che abbiano votato per Obama, ma questo è meglio non dirlo perché contraddice il pregiudizio diffuso. Ad ogni modo, il punto è che questi elettori della rust belt hanno mostrato che la storia è più complicata delle nostre semplificazioni”.
Ma c’è un altro passo da fare per afferrare la profondità della questione economica: “Non ci sono risposte politiche a problemi culturali: lo diciamo da una vita da queste parti. Il problema economico, soprattutto nella rust belt, è un problema culturale. Perché la competizione cinese nella manifattura ci ha messo in ginocchio? Per l’inevitabile processo della globalizzazione? Per le forze irresistibili dei mercati aperti e della società connessa? No. Perché abbiamo smesso di produrre. Il motivo per cui è successo è che la gente che per generazioni a un certo punto ha pensato che per loro e per i loro figli fosse più soddisfacente abbandonare la rust belt e andare in città a prendere una laurea e a lavorare nei servizi. La comunità in cui era cresciuto improvvisamente non era più il luogo in cui emergeva il significato del vivere, che andava ricercato invece nell’astrazione di un percorso di studi e di lavoro standardizzato e globalizzato. Il sogno americano e il sogno liberale sono arrivati a coincidere. Il voto per Trump mostra il fallimento di quell’ipotesi”.
Richert non si fa illusioni sulla capacità del presidente eletto di risolvere i problemi che gli americani hanno sollevato votandolo, ma considera questa svolta storica la pars destruens necessaria, il momento di decostruzione di un impianto ideologico talmente radicato da non sembrare nemmeno un’ideologia. La storia è ricominciata un’altra volta. In “Modernity and its Discontents”, volume cruciale per mettere l’oggi in prospettiva, il politologo di Yale Steven Smith scrive: “Il risorgere del nazionalismo in Russia e del tribalismo nel medio oriente si fa beffe della storia che siamo tutti diventati – o stiamo per diventare – liberal-democratici. Ancora una volta siamo trascinati nel sanguinoso e conflittuale dominio della storia. La modernità appare assai meno ‘moderna’ di quanto si tende a credere”.
George Nash, storico del conservatorismo e autore di “The Conservative Intellectual Movement in America Since 1945”, legge il trapasso trumpiano nel mondo post liberale nel contesto del Partito repubblicano: “L’ideologia conservatrice così come è stata elaborata dal Gop negli ultimi decenni è una fusione di diversi elementi. Fra questi l’elemento liberale, nel senso classico, ha un ruolo fondamentale. Non abbiamo ancora capito quale nuova lega ideologica sta proponendo Trump, ma di certo nella sua sintesi l’elemento liberale passa in secondo piano”.
Nash spiega al Foglio che il suo brand populista è una sintesi di due tradizioni: “In America ci sono due tradizioni populiste. Una, diciamo di sinistra, ha come obiettivo Wall Street e le grandi corporation. Un’altra, di destra, non è contro la ‘big money’ ma contro il ‘big government’. Dopo la crisi del 2008 e la successiva recessione si è posto il problema per i populisti: di chi è la colpa, di Wall Street o dello stato che ha creato la deregolamentazione che ha portato al tracollo? E’ così che Trump ha coniato un populismo bipartisan che si scaglia contemporaneamente contro Wall Street e lo stato. Al fondo di questi due poteri che il presidente eletto dice di voler combattere non c’è altro che l’ordine liberale, il comune denominatore della politica e dell’economia”. Che ne siano consapevoli o meno, gli elettori di Trump hanno votato per il nuovo ordine post liberale, ed è appena naturale, benché contraddittorio, che i difensori del consenso liberale urlino “Not my president”.
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