Paul Thiel (sul fondo la sua casa di San Francisco). Cofondatore di Paypal, ha 49 anni, nel 2012 ha venduto il suo 10 per cento in Facebook e da allora ha due mega fondi di investimento

Nella valle dei ricchi

Michele Masneri
Tra la vallata dell’innovazione e la Casa Bianca obamiana i rapporti erano talmente stretti da rasentare l’incesto. Tutti sotto choc a San Francisco tranne uno, il più carismatico. Peter Thiel, trumpiano della prima ora.

Così percossa e attonita la Silicon Valley al nunzio sta. Non c’è bisogno di scomodare Manzoni e il suo “Cinque maggio” per raccontare cos’è stata la vittoria di Trump da queste parti. Nel day after il quartier generale di Hillary su Van Ness Avenue, stradone di San Francisco di negozi di materassi e concessionari di macchine e grossisti di alcolici, è desolatamente sbarrato. Il popolo californiano è sotto choc: da Whole Foods, tempio multiculto del biologico e del senza-glutine, una signora ci si avvicina, noi si è appena preso delle patate dal banco della gastronomia, e lei ci dice: “Caro, prendi tante cose calde, oggi ce n’è bisogno”. In realtà si ha ancora l’umidità nelle ossa, la sera prima si è stati a vedere lo spoglio in un parco, guardando un maxischermo Cnn mangiando cibo orientale con altri giovani startupper, ed era tutto un “boohh” quando il faccione pixelato di Trump compariva.

 

Anche le istituzioni si danno da fare, come dopo uno tsunami o terremoto; la nostra amica Tina riceve un messaggio dalla sua università: “Abbiamo predisposto un servizio di caffè e tè caldo nello studentato. Pensatelo come uno spazio comune per fermarvi e prendere qualcosa di caldo in una giornata del genere”. Anche i ricchi (di Silicon Valley) piangono: tra la vallata dell’innovazione e la Casa Bianca obamiana i rapporti erano talmente stretti da rasentare l’incesto. “La cosa peggiore mai successa nella mia vita” twittava Sam Altman, presidente del giga-incubatore Y Combinator. Dave McClure, il fondatore di 500 Startup, ha sbroccato: “Se non sei incazzato in questo momento, che problema hai?”. Shervin Pishawar, uno dei più importanti capitalisti di ventura, ha lanciato ufficialmente la Califexit, la secessione (la California avrebbe buon gioco, è lo stato più ricco della confederazione, con un pil di 2,46 trilioni di dollari, che ne fa il sesto paese sovrano più ricco del mondo).“Sono deluso” dice al Foglio Jeff Capaccio, presidente del Silicon Valley Italian Executive Council, associazione che mette in contatto i protagonisti della Valle con l’Italia, avvocato d’affari e importante membro della Niaf. “Difficile immaginare come potrà aiutare l’innovazione dato che non ha chiaro il tema del cambiamento climatico, ha espresso ostilità verso l’immigrazione, cosa vitale per attrarre i migliori talenti qui, e ha una visione semplicistica del mondo”. 

 

Negli anni, la relazione  tra Obama e la Silicon Valley è stata lunga  e non complicata: la Casa Bianca ha prelevato qui il suo primo chief-technology officer, Aneesh Chopra, e poi la ex Google Megan Smith. Hillary aveva già pronto il suo dossier ricalcato sugli anni obamiani per far felici i nuovi titani dell’innovazione, riguardo a immigrazione, tax credit, protezione dei dati, investimenti. I rapporti negli anni si erano fatti incestuosi, anche: Chris Lahene, ex consigliere numero uno di Clinton (Bill), è adesso l’uomo politico di Aibnb. David Plouffe, ex campaign manager di Obama, è nel board di Uber. Jim Messina, vice capo staff di Obama e oggi consigliere di Matteo Renzi, lavora con Hyperloop, la compagnia che progetta i treni superfuturistici di Elon Musk, patron della Tesla. Secondo Vanity Fair, 183 ex uomini di Obama ora lavorano per Google, mentre 58 ex di Google lavorano a Washington. Tutti attoniti, oggi, soprattutto verso un presidente eletto che vuole investire su ponti e autostrade e anarchia, che ama la old economy, che si compiace di disprezzare il comparto tecnologico, da lui chiamato “the cyber”, e che già aveva minacciato di “chiudere l’Internet”.  A luglio, una lettera aperta di cento maggiori gruppi tecnologici di qui aveva definito Trump una minaccia per l’innovazione; in prima fila Apple, con cui lo scontro è frontale: “Chi si credono di essere?” aveva detto Trump quando il gruppo di Cupertino si era rifiutato di sbloccare gli iPhone dell’attentatore del dicembre 2015. In realtà, Apple potrebbe avere grandi benefici da Trump, che ha promesso un mega condono al 10 per cento per le aziende americane che vogliano far rientrare i capitali esteri: rispetto al 30 per cento attuale, Apple risparmierebbe 43 miliardi di dollari sui 237,6 miliardi che tiene all’estero.

 

Ma tutti per ora sono attoniti. Tutti tranne lui, Peter Thiel, il master of the Universe di Silicon Valley. Il più importante capitalista di ventura, e a parte Mark Zuckerberg, di cui è socio, forse il personaggio più carismatico. Zuck però ha un’immagine più soft, tiene famiglia, per carisma e fantasmatico mistero Thiel se la batte invece solo con Elon Musk. Ma Thiel ha più carte da giocare, sembra il Vautrin delle “Illusioni perdute” di Balzac. Ha 49 anni, ha fondato Paypal. E’ entrato in Facebook col 10 per cento agli inizi, ha venduto quasi tutto nel 2012, da allora ha due mega fondi di investimento, il Founders Fund e il Thiel Capital, con cui investe nelle aziende più futuriste e strategiche della Valle; una ricchezza personale di 2,8 miliardi di dollari, è iscritto al partito libertario, è nato a Francoforte, partecipa al Bilderberg. Si tinge i capelli.

 

E’ gay, tormentosamente gay, una gaiezza che non è quella pubblica e politicamente corretta della Valle, qui; è anzi il fulcro del suo romanzo di formazione; è stato costretto a rivelarla dopo l’outing più celebre del nuovo secolo, quello da parte del sito Gawker – il Dagospia americano, da cui il sito di Roberto D’Agostino prese spunto – e talmente si è infuriato, Thiel, che poi il sito l’ha fatto fallire. Dando vita a una delle storie più avventurose/surreali degli ultimi anni, con una sfida all’ultimo sangue con Nick Denton, ex giornalista del Financial Times che nel 1997 venne in esplorazione qui in Silicon Valley e mise su un impero del gossip. Gay anche lui, hanno firmato negli ultimi tempi un accordo (il tormentone, tipo “Via col vento”, occupa pagine e pagine sui giornali americani ancora oggi). Su come Thiel abbia fatto fallire Gawker ci saranno già pronte sceneggiature: ha atteso per anni l’occasione giusta, poi quando il povero ex campione di wrestling Hulk Hogan è stato sputtanato a sua volta (in contesti etero), lui gli ha pagato i migliori avvocati del globo. Ottenendo un risarcimento di 140 milioni di dollari (poi sceso a 31) e il conseguente fallimento del sito sputtanatore, messo in vendita.

 

Thiel ha annunciato la sua gaiezza – anche qui non proprio in modo ortodosso – alla convention repubblicana di Cleveland, quella che ha incoronato Trump, in mezzo alla famiglia rigorosamente bianca ed etero del futuro presidente e i suoi derivati. “Sono fiero di essere gay, sono fiero di essere repubblicano, ma soprattutto sono fiero di essere americano” ha detto in quella assise trucibalda. Parlando per ultimo proprio prima di Trump (segno del suo ruolo alla corte del tricologicamente avvantaggiato candidato). Staccando contestualmente un assegno da 1,25 milioni di dollari per l’impresentabile Trump, mentre i denari fioccavano dalla Silicon Valley terrorizzata nel campo avverso: il più isterico donatore liberal, il co-fondatore di Linkedin Reid Hoffman, ha promesso 5 milioni di dollari in beneficenza se Trump avesse presentato i suoi 740. Mentre un altro pezzo grosso di Facebook, Dustin Moskovitz, ha donato 20 milioni ai democratici per scongiurare il pericolo-Trump.

 

Non contento, il 31 ottobre in un’altra occasione pubblica Thiel aveva precisato il suo pensiero sul candidato repubblicano: “I media prendono sempre Trump alla lettera, ma mai seriamente”, aveva detto, “mentre i suoi supporter lo prendono sul serio ma mai alla lettera”. Adesso, in mezzo all’isteria generale, mentre forse qualcuno si pente dei tweet repentini, Thiel se la starà godendo un casino, essendo l’unico ad aver appoggiato Trump in un contesto, quello della Silicon Valley, definito da Bloomberg “un gruppo di élite della costa che sono diventate enormemente ricche in un tempo in cui la ricchezza rimane in mano a pochi” (su questa ossessione della costa nell’immaginario americano forse bisognerebbe indagare).

 

“Congratulazioni al presidente eletto Donald Trump”, ha twittato Thiel la notte delle elezioni, mentre il resto di San Francisco qui si stracciava le vesti e minacciava di emigrare in Canada, tipo Umberto Eco a Parigi negli anni d’oro di Berlusconi. “Ha un compito incredibilmente difficile” ha scritto del presidente Trump, “ed è ora per noi di confrontarci coi problemi del nostro paese”.

 

“E’ stata scritta una pagina di storia” ha detto Thiel mercoledì in una lunga intervista al New York Times. “Aiuterò il presidente in ogni modo”. E ogni modo significa veramente “ogni modo”, perché come Berlusconi nel 1994 Trump, circondato da figuri tipo Newt Gingrich, ha disperato bisogno di gente presentabile, e Thiel adesso è dato papabile per qualunque cosa. Dal “chief transition” al posto di Chris Christie, a ministro di qualcosa, a giudice  (Thiel nasce avvocato, una laurea in Legge a Stanford, la pratica nello studio legale Sullivan and Cromwell di New York). Per ora Thiel ha detto di non volere un ruolo formale, ma è impossibile dire come andrà a finire. Di sicuro sarà un super consulente.

 

Mentre si gode la pace dopo l’ostracismo, Thiel si sfoga col New York Times. “Le sue possibilità di farcela sono state molto sottovalutate. I suoi elettori non si impressionano coi sondaggi. Mi pare una dinamica molto simile a quella accaduta nel Regno Unito con il Brexit”, ha spiegato gigione al giornale liberal di New York, concedendosi pure una cattiveria: “Mi pare che si siano scordati il motto di Bill Clinton del 1992, it’s the economy, stupid”. E ancora: “Per Trump sarebbe stato molto più difficile vincere contro Bernie Sanders. E sarebbe stata una sfida molto più salutare per il paese. Due candidati che sono d’accordo sulla stagnazione degli Stati Uniti ma con due politiche opposte”.

 

Certo rimane il dubbio su come Thiel, che in Silicon Valley ha fatto fortuna, possa permettersi di esserne critico feroce (“gli elettori devono guardare oltre i difetti e le prese di posizione pittoresche di Trump, e focalizzarsi sul bisogno di rivedere un sistema che ha arricchito le élite costiere alienando il resto del paese”). Ma il gusto della provocazione non gli manca, Thiel racconta anche un aneddoto che ricorda certi comportamenti elettorali democristiani italiani anni Ottanta. “Ero a cena con un importante venture capitalist” dice Thiel. “E quello mi ha detto che avrebbe votato Trump, anche se mentirà a tutti e dirà che vota per il candidato del partito terzista, Gary Johnson. Adesso è importante che tutti ci rimbocchiamo le maniche, sarebbe stupido, credo, usare le menti più brillanti della nostra generazione per passare quattro anni a twittare contro Trump. Un giorno o due va bene, di più mi sembra antiproduttivo”.

 

In passato Thiel aveva appoggiato il libertario Ron Paul e Carly Fiorina, astro nascente del Partito repubblicano, ex amministratore delegato della Hewlett Packard. Ferocemente libertario, seguace quasi letterale di Ayn Rand, guida spirituale della Silicon Valley, Thiel è stato sempre un bastian contrario; finanzia una scuola per giovani di talento (un po’ come il suo quasi omonimo Xavier Niel, che ha appena aperto la sua Ecole42 qui), ritiene che “less is more”, riferito alla presenza dello stato nella vita delle persone, sia un understatement, e si considera uno spirito libero rispetto al politicamente corretto della Valle: l’unico aspetto in cui è totalmente allineato è l’ossessione salutista e dietista. Poco prima del discorso di Cleveland si era fatto servire una cena adatta alla solennità del momento: “Salmone alla griglia di media cottura, digeribile e che non dà acidità né provoca reflussi durante lo speech, rigorosamente senza cipolla né aglio, non volendo appestare i vicini di podio” aveva raccontato su questo giornale Camilla Baresani. Il tutto preparato da Bruno Soleri, suo personal chef milanese che lo accompagna nelle residenze sparse per il globo e gli prepara un regime speciale. Scriveva Baresani che oltre a Soleri “il multimilionario ha ingaggiato un medico inglese, un osteopata specializzato in dietologia, perché lavori solo su di lui, facendolo vivere almeno fino ai fatidici cento anni, ma nel caso anche centoventi, che è poi il nuovo obiettivo dei siliconvalligiani”. E ancora: “il medico, di cui è vietato fare il nome, segue Peter da vicino: ginnastica quotidiana, dieta, prelievi del sangue, analisi dei tessuti, continuo monitoraggio dei parametri. Poiché Thiel è generoso con i dipendenti, li allieta con feste e vacanze salutistiche in alberghi di lusso alle Hawaii, prevede anche che vengano loro offerti esami del sangue semestrali e mappature del Dna”.

 

A casa Thiel (che reality meraviglioso sarebbe) oltre allo staff da ER, ci sono tre assistenti: “uno per i viaggi, uno per la casa, uno per le medicine. Ci sono poi lo chef di riserva (si chiama Derek), un autista e un responsabile delle feste private. “Quando dà un party, solitamente Thiel mangia prima, per non rompere la dieta dei cent’anni” raccontava Baresani. Al momento, mentre si scrive, Thiel è nella sua residenza di Tokyo – così ci conferma al telefono col Foglio lo chef Soleri, che però non vuole commentare altro, data la delicatezza della situazione. Oltre a San Francisco infatti Thiel ha case a New York, Miami, Los Angeles, Maui e nella capitale giapponese (lo staff si muove con giorni di anticipo su uno stormo di aerei privati). Nonostante lo sfarzo, Soleri è incaricato personalmente di portare i cibi avanzati dalla mensa sibaritica e punitiva di Casa Thiel ai barboni di San Francisco. Perché anche le élite della costa, in fondo, hanno un cuore.

 

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