Attivisti della destra israeliana protestano contro il piano di smantellamento delle colonie (foto LaPresse)

I grandi ebrei illegali

Giulio Meotti

Una settimana con i coloni d’Israele, i fantastici “illegali” che oggi il mondo vuole cancellare. Sono l’ostacolo alla guerra, non alla pace. Un super reportage

Di notte, la colonia di Elkana ha il respiro di una città invisibile di Italo Calvino. Al mattino, i bambini sono ovunque, dietro i reticolati che chiudono le scuole, sui marciapiedi, alla fermata dell’autobus dove un orizzonte inquieto riaffiora e si offre ai loro giochi. Gli alberi sono stati piantati a migliaia, come se la terra, da scabra e severa, fosse stata costretta a diventare verde. Tamy, che ci ospita nella sua casa, viene da Tel Aviv: “Quando venni qui, nel 1977, ero incinta con due bimbi piccoli. Non c’era niente, solo rocce e un vecchio edificio inglese”. Facciamo base a Elkana alla scoperta della “terra incognita” d’Israele che tutto il mondo gli contesta.

E’ una regione insediata dalle “New Town” sioniste costruite da architetti incerti fra Le Corbusier e le militari logiche della sicurezza. Eccoli, i “coloni”, i falchi che non vogliono abbassare le ali, gli abitanti più “illegali” della terra, che le risoluzioni dell’Onu, le marchiature dell’Europa e gli ammonimenti di Obama hanno provato a scacciare dalle loro case. A giugno festeggeranno i cinquant’anni della loro presenza in quella che chiamano Giudea e Samaria e che il mondo definisce invece Cisgiordania, West Bank, Territori occupati, Palestina, a seconda di cosa si pensi del conflitto. Di Israele parlano tutti, con Israele pochi, con i coloni ancora meno. Secondo la bella gente di mezzo mondo, sono loro, i “settlers”, a condannare Israele a fare la fine della Rhodesia. Elkana sembra un sobborgo americano fortificato, le tendine policrome ai vetri, i vasi di gerani sui davanzali, come se un pezzo di occidente fosse caduto per qualche tempesta assurda in mezzo al niente. Una sorta di Svizzera silenziosa e ordinata. Elkana domina la vista su Petach Tikva dentro la Linea verde, il primo villaggio consapevole di ebrei venuti in Palestina nel 1878 non per morire nella “terra dei padri”, ma per combattere e viverci. A Elkana stupendi viali di cipressi, buganvillee e oleandri, ibischi, melograni e palme e pini, si estendono là dove solo pochi anni prima si offriva al visitatore un paesaggio spoglio. C’è sempre qualcuno che cura una fila di piantine dentro un’aiuola. Tutti che salutano tutti, come una volta si usava anche da noi. Poi, giri l’angolo ed eccolo lì, il “gedarim”, il filo spinato che avvolge letteralmente la comunità. Fuori dal cancello è davvero un altro mondo.

 

Per chi vive oltre “il muro” la frontiera è ovunque, entra nelle case e negli incubi. Sono in centomila, i più arditi

La “separazione” è un muro di cemento di cinque metri, anticipato da un fossato sovrastato da una barriera di sensori elettronici che capta anche il rumore di scavi di tunnel, a sua volta protetta da un’altra siepe di filo spinato dalla parte palestinese. Una strada per i veicoli militari corre lungo il “muro”, controllato da telecamere. Da qui in poi ci vivono i coloni più idealisti, i più intrattabili, i più coraggiosi, i più decisi a restare. Nei Territori più si va a vivere a est più si dimostra la propria fermezza. Sono i centomila israeliani che vivono fuori i mille chilometri di barriere, mura e fence che sigillano i confini dello stato ebraico. La geografia della paura è stata generosa con Israele: dalla frontiera con il Libano all’ultimo sud, la vita degli israeliani ogni giorno è legata al fantasma dell’insicurezza. Nei Territori ancora di più. Qui gli attentati sono frequenti, non si è mai lontani dalla frontiera che si insinua nelle case, nelle auto, nei sogni, negli incubi di chi ci vive. Sono gente strana, i coloni: la barba protesa come un’arma, l’indirizzo di casa citato nella Bibbia in una overdose di mito e disperazione, spingono passeggini con il mitra a tracolla e si sono messi di traverso sui binari della storia, non scalfiti da ciò che eccita noi moderni, sembrano dei fricchettoni con le camicie a quadri e le kippà a uncinetto ma votano più a destra che non si può, si deliziano della bellezza di tramonti carichi di fatti terribili, di lutti, di volti di bimbi ebrei uccisi, di patriarchi che un tempo camminavano qui.

 

E’ una regione piccola come la Liguria, ma è anche la più contesa
al mondo. Tutti vogliono gli ebrei fuori di lì

Il cerebrale intellettuale ashkenazita si accompagna all’ebreo yemenita, marocchino, iracheno e algerino di poche parole, che fino a ieri ha vissuto nella casbah e nel ghetto. Gridano parole sul Messia che sta per tornare, domani, fra poco. Spesso, sotto giacca e cravatta, hanno il manto di preghiera di chi fa della propria vita una testimonianza di fede. La Cisgiordania, la terra più contesa del mondo, si estende su 5.600 chilometri quadrati, come la Liguria. Di questa, gli israeliani controllano oggi il quaranta per cento, secondo gli accordi di Oslo. Sono mezzo milione i coloni, senza contare i duecentomila a Gerusalemme est. Per muoversi usano le “by pass road”, previste dal secondo accordo di Oslo. Brillano, nuove, dell’asfalto nero depositato di fresco. I palestinesi le usano, gli ebrei non possono entrare nei villaggi palestinesi. Verrebbero linciati, come accadde a due riservisti a Ramallah.  Di questa “apartheid” il mondo non parla. I coloni vivono in case disposte come in un castro romano a protezione di due terzi della popolazione sulla costa, Tel Aviv, l’aeroporto Ben Gurion, Haifa, le centrali di Hadera, quella di Ashdod, tutte a un tiro di schioppo.

 

Sono israeliani che hanno entusiasmo da vendere e il senso dell’eroico di chi crea dal niente. Ma anche la follia di far fronte a un nemico senza divise, non il concittadino antisemita come in Europa, l’eternamente minaccioso “goi”, ma una anomalia interiore, un disturbo del ritmo che fa fluire la vita dal passato al futuro e viceversa. La loro esistenza è un grande “credo quia absurdum”.

 

Nei coloni c’è una tragica legittimità nell’aver sempre combattuto, nello stato fondato da ebrei laici e socialisti come David Ben Gurion, una battaglia di minoranza per restare ebrei, e c’è anche, se si vuole, un omaggio ai sei milioni di morti della Shoah. Affonda qui lo psicodramma degli israeliani arrampicati su decine di brulle colline della Cisgiordania.

 

Non c’è terra su cui archeologia, religione e politica, compassione e prepotenza, si intreccino con tanta violenza in un groviglio di assilli che alimenta incubi ed esaltazioni. Fra i coloni fortissima è la lettura della storia e della letteratura in cui si raccontano le distruzioni perpetrate contro il popolo ebraico dai re assiri, dai Romani, dall’Inquisizione, dalle crociate, dalla Shoah, dal mondo islamico. I governi israeliani negli anni hanno oscillato fra il considerare quelle terre moneta di scambio per un accordo con i palestinesi o “terra liberata” che ha conferito al piccolo Israele sicurezza e radici storiche.

Coloni israeliani in preghiera prima dello smantellamento dell'insediamento a Havat Gilad (foto LaPresse)


 

I coloni, intanto, si insediavano sulle colline. Spavaldi e determinati a difendersi contro i “sonnei Yisrael”, i nemici di Israele. Compreso parte dell’Israele mainstream che vive nella “bolla” di Tel Aviv e che guarda ai coloni con tristezza e apprensione. Tristezza, perché convinti che quegli ebrei dovranno essere portati via o abbandonati per non avere uno stato binazionale. Apprensione, perché nessuno si aspetta che vadano incontro al loro destino in modo mansueto. Poi c’è la cultura israeliana di sinistra che li odia. Basta pensare a un dramma teatrale di Yehoshua Sobol, “La palestinese”, in cui una giovane palestinese incinta è calpestata da un gruppo di coloni. O a quell’articolo sul quotidiano Haaretz a firma di Zeev Sternhell, in cui il famoso politologo invitava i palestinesi a fare fuoco sulle colonie e non sui bravi israeliani che vivono sulla costa.

La quasi totalità dei coloni che si sono insediati qui, la mattina va a lavorare a Gerusalemme o a Tel Aviv e rientra la sera. Così di giorno i loro villaggi sono vuoti, perché nessun israeliano, tranne i soldati o i parenti stretti, vi entra mai. Se domandi perché ti rispondono: “Paura e imbarazzo”. Per loro, Israele rischia di perdervi l’anima nei Territori e i palestinesi di rinchiudersi nel loro “rifiuto”.

 

Il generale Kuperwasser al Foglio: “Le colonie sono tutte strategiche, controllano zone importanti in cui è nato il terrorismo. E anche
gli insediamenti più isolati sono molto importanti per come
è oggi la situazione
sul terreno”

“Questa è la nostra patria millenaria, non siamo venuti qui per Tel Aviv, lo shtetl o l’Olocausto, ma perché è la nostra terra”, dice al Foglio il generale Gershon Hacohen, che ebbe da Ariel Sharon l’ingrato compito di evacuare gli ottomila coloni di Gaza. Senza Gerusalemme, dice Hacohen, Tel Aviv sarebbe soltanto “un’altra Brooklyn”. Durante la guerra del Libano del 1982, Hacohen scrisse le famose “Lettere dal fronte” alla moglie, che venivano pubblicate da Haaretz. “Non possiamo proteggere Israele se i missili sono piazzati sulle montagne di Giudea e Samaria”, continua al Foglio Hacohen, che ha diretto anche i collegi militari. “E i soldati da soli non sono sufficienti: ogni giorno non ci sono più di diecimila militari nei Territori a fronte di cinquecentomila ebrei. Cosa è meglio, entrare a Nablus con un raid o lanciare una massiccia operazione militare come a Gaza? Ogni notte, grazie agli insediamenti, l’esercito può fare una incursione a Nablus e Ramallah e distruggere una fabbrica di armi. Se Israele tornasse ai confini del 1967 ci sarebbe una guerra distruttiva e migliaia di profughi ebrei. L’Europa vuole che torniamo in un ghetto a Tel Aviv. Ci metteranno le sanzioni? Ok, sopravviveremo”.

 

Il generale Yossi Kuperwasser, già direttore del ministero degli Affari strategici e della sezione ricerca dell’esercito, al Foglio spiega che “ogni insediamento ha oggi un valore di sicurezza e fa parte del sistema di controllo dei Territori. Le colonie sono tutte strategiche, controllano zone importanti in cui è nato il terrorismo. Poi ci sono colonie che hanno un super valore di sicurezza, come quelle attorno a Gerusalemme. Le linee del 1967 non sono difendibili e Israele ha bisogno che le colonie siano incluse in un futuro accordo con i palestinesi, come quelle nella Valle del Giordano”.

 

E gli insediamenti ideologici che dominano le città arabe? “Anche quelli più isolati, fuori dalla barriera, sono importanti per come è la situazione oggi sul terreno. Se troviamo un accordo con i palestinesi questo valore potrebbe cambiare, ma oggi no. Alcune delle colonie che guardano Nablus sono fondamentali per controllare il territorio. Amona, ad esempio, sorge in un luogo strategico. I coloni sono gli occhi e le orecchie dell’esercito, vedono, mantengono Israele al sicuro. La colonia è una componente decisiva per fermare il terrorismo”. Più moderata la posizione di Eran Lerman, colonnello della riserva, per vent’anni nell’intelligence dell’esercito: “Molti insediamenti, come quelli a guardia di Gerusalemme, sono vitali per tenere unita e sicura la capitale di Israele”, dice Lerman al Foglio. “Alcuni insediamenti sono meno giustificabili in termini di sicurezza. Ma il confine va stabilito in un accordo e lo scambio di terra non può essere di uno a uno”. Secondo Lerman non c’è bisogno di portare via i coloni. “La dislocazione di decine di migliaia di persone non è possibile né necessaria, i palestinesi possono comunque avere il novanta per cento dei Territori”.

New York, Obama incontra Netanyahu (Foto LaPresse)


 

 

Di giorno le colonie si svuotano. Nessun israeliano ci mette mai piede: “Per paura e imbarazzo”. Ci dice Yossi Dagan, il capo delle colonie della Samaria: “Senza queste montagne la larghezza di Israele sarebbe quella di una strada di Parigi. E’ indifendibile”

La sinistra è sempre stata pronta a mollare queste terre. La destra le ha sempre considerate un tesoro per la sicurezza. Nessuno sa cosa abbia in mente il premier Benjamin Netanyahu. Secondo alcuni leak di stampa, “Bibi” era pronto a cedere l’86 per cento di questi territori. Per lui il confine va disegnato in modo tale “da includere il massimo numero di israeliani e il numero minimo dei palestinesi”. Netanyahu ha in mente un “piano Allon plus”, che ricalchi i principi di quello formulato dopo la Guerra dei sei giorni dal leader laburista Yigal Allon. Sono le “zone di difesa irrinunciabili”, come la strada tra la costa e il Giordano; Gerusalemme, che per assicurarsi il destino di capitale deve inglobare le città satelliti che pareggino la forza degli arabi, e i “green line settlements”, pianificati dai governi di sinistra e considerati la cintura di sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion, l’unico scalo internazionale d’Israele.

Yossi Dagan è il sindaco del consiglio della Samaria ed è stato appena invitato da Trump alla cerimonia di inaugurazione: “Un ebreo non può occupare la Giudea”, dice Dagan al Foglio. “Fra il Mediterraneo e la Giordania ci sono 70 chilometri. Le montagne della Giudea e della Samaria ne occupano 55. Possiamo ridurre Israele a quindici chilometri, come una strada di Parigi? Senza queste montagne non avremmo confini difendibili”. Durante una sessione del Parlamento israeliano, gli ufficiali della sicurezza hanno appena fatto i nomi degli insediamenti più a rischio attentati: Elon Moreh, Otniel, Carmei Tzur e Negohot. E’ in questa linea del fronte che siamo andati per capire chi ci vive.

 
Passando dal campo profughi di Arroub, fra Gerusalemme e Hebron, le reti sono a protezione dei veicoli israeliani contro il lancio di sassi e molotov. Una torretta dell’esercito vigila su questo snodo strategico. C’è Halhoul, dove l’esercito ha ritrovato i cadaveri dei tre studenti israeliani uccisi mentre facevano l’autostop. I villaggi palestinesi sono annunciati da grandi minacciosi cartelli: “Accesso vietato agli israeliani”. Dopo Oslo, nessun ebreo ci mette piede. Da qui in poi la proporzione fra ebrei e arabi è di uno a ventisei. E’ fisica la sensazione di essere un corpo estraneo.

 

Il quartiere ebraico di Hebron, dove riposano tutti i patriarchi della Bibbia, è un ghetto. E’ l’unica città palestinese con una presenza ebraica, un magnete per tutti i coloni e l’epicentro della Terza Intifada, un anno fa. Si sale fino a Tel Rumeida, dove vivono diciotto famiglie, le più ardite, protette da tre garitte dell’esercito e giovani soldati cui le madri israeliane portano dolci e caffè. Tel Rumeida è adiacente al vecchio cimitero ebraico e al sovrastante rione palestinese di Abu Sneina. Le case prefabbricate sono spesso barricate dietro sacchi di sabbia, con accesso vietato agli estranei. Tehila vive in una roulotte con dieci figli. Le pareti di casa sono piene di libri religiosi. Il suo vicino di casa era il rabbino Shlomo Raanan, ucciso nel suo letto nel 1998. Quando Ariel Sharon evacuò Gaza, Tehila andò a viverci tre mesi per protestare contro il ritiro. Il suo vicino di casa è Baruch Marzel, riottoso leader dei coloni di Hebron. Ci accoglie nella sua casa: “E’ un giornalista tedesco? Perché io con i tedeschi non parlo”, precisa subito. “Senta, avevamo due battaglioni di soldati prima di Oslo, oggi sono quattordici. Abbiamo dato noi israeliani i fucili ai palestinesi e li hanno usati contro gli ebrei. Poi gli abbiamo dato il 97 per cento della città. Io da trent’anni vivo in un prefabbricato. Perché non posso comprare una casa? Vogliamo vivere a Hebron, essere maggioranza. Oggi non lo siamo soltanto perché gli arabi ci hanno massacrato nel 1929 (l’anno del pogrom, ndr). Se un ebreo ha diritto a vivere a Tel Aviv è perché noi siamo qui. Se non abbiamo diritto a vivere qui, dove possiamo tornare? In Polonia? In Germania? Ci abbiamo provato e non è stato piacevole. Netanyahu dica al mondo: ‘Questa è la nostra terra’. Vengono da tutto il mondo a dirci che dobbiamo essere gentili, tolleranti, ma a loro, agli inglesi, dico: ‘I musulmani faranno a voi quello che hanno fatto a noi ebrei nel 1929’. Se non fossimo qui nessun ebreo al mondo potrebbe oggi pregare nella Grotta dei Patriarchi”. Prima di lasciarci, Marzel ci fa vedere i fori di proiettili nella sua cucina e nella terrazza: “Io rispetto gli arabi, li prendo sul serio quando dicono di voler massacrare gli ebrei”.

 

Noam Arnon è il portavoce della comunità ebraica di Hebron: “Oslo ha distrutto quest’area e la pace. Pace è quando le persone si parlano. Oslo ha separato le persone, ha portato armi, barriere, muri, odio, terrore. Adesso vogliamo creare dalle rovine una vita normale. Non credo che la pace possa essere ottenuta con un crimine, come la distruzione delle sinagoghe a Gaza”. Arnon dice che gli ebrei sono le vere vittime dell’apartheid: “Hebron è oggi divisa nella zona H1, chiusa agli ebrei; la zona H2, chiusa agli ebrei e su cui Israele ha il controllo della sicurezza; e il tre per cento aperto a noi ebrei. Ma se giri la mappa, vedi lo stato di Israele nella regione. Siamo quel tre per cento”. Arnon è fiero di dialogare con i palestinesi: “Alcuni mesi fa sono stato invitato a casa del presidente israeliano Rivlin, perché un gruppo di leader arabo-islamici della West Bank, fra cui lo sceicco Tamimi, voleva chiedere a Israele di estendere la propria sovranità alla Giudea e Samaria. Hanno paura dell’Isis, di Hamas, dell’Olp, sanno che solo Israele può dare loro diritti, vita, educazione, cibo. Guarda in Siria, Libia, Iraq. A Bruxelles è troppo difficile da capire questo concetto?”.

 

Eppure, per gli israeliani della costa i giovani militari a guardia degli ebrei di Hebron sono un peso eccessivo. “Sai quanto spende Israele per proteggere Tel Aviv?”, ci chiede Arnon. “Dal cielo, dal mare, da terra, Tel Aviv è protetta. Una volta che hai deciso che l’esistenza di qualcosa è importante, non importa quanto costa la difesa. Hebron è il nucleo della vita ebraica. E’ il luogo dove la prima persona, Giacobbe, venne chiamata ‘Israele’. Oggi l’esercito ci protegge con la sua presenza su quelle colline. Lo dicemmo dall’inizio: ‘Ci spareranno’. Molte illusioni sono morte, purtroppo al prezzo di troppe vite umane. Senza Hebron, non c’è Tel Aviv; ma senza Tel Aviv non ci sarebbe neppure Hebron, perché come piccola comunità non potremmo sopravvivere senza uno stato. L’Europa oggi investe milioni di dollari nella costruzione di uno stato, quello palestinese, in cui non possono vivere ebrei. Uno stato jüdenrein. Potrebbero mai finanziare uno stato senza neri? Senza gay? Per l’Europa noi ebrei non abbiamo diritti. Io sono venuto a vivere qui nel 1972 e allora non c’era un solo ebreo dentro a Hebron”.

 

Quelli fra Hebron e la colonia di Otniel sono i “sedici chilometri maledetti”: venticinque israeliani vi hanno perso la vita in attentati. L’ultima vittima, sette mesi fa, il rabbino Michael Mark, ucciso mentre guidava con la moglie e i figli. In questa regione ci vivono soltanto diecimila ebrei, perché è fuori dal tracciato del fence antiterrorismo ed è una delle regioni più isolate di tutta la Cisgiordania. La strada diventa una roulette russa quando inizia la statale 356, dopo Kiryat Arba, e per farla devi costeggiare numerosi villaggi palestinesi. E’ facile per un terrorista appostarsi al ciglio della strada, sparare e scomparire in un villaggio. Per arrivare a Otniel, spesso si evita la strada da Hebron, e si passa da sud, dal checkpoint Meitar. Ma anche da lì, la strada non è una festa. Durante la Seconda Intifada, Otniel venne scossa da un fatto terribile. Il 27 dicembre 2002, era un venerdì notte, un gruppo di terroristi penetrò nella scuola della comunità per fare una strage di ebrei che celebravano lo shabath. In cucina alcuni ragazzi preparavano da mangiare, in sala a decine danzavano estasiati. Quando sentì i primi spari, il sergente Noam Apter si chiuse con i terroristi in cucina, bloccando l’accesso alla sala e salvando gli altri. Pagò il gesto con la vita. Morirono in quattro. Nella strada per Otniel carichiamo tre ragazzi che studiano in quella colonia, non hanno paura di fare l’autostop. “Il segreto degli insediamenti sono i caravan e l’autostop”, scherzano. Alta su una collina c’è una grande base militare israeliana. I minareti di Hebron dominano il resto del paesaggio. La colonia di Beit Haggai è appoggiata su un fianco dove ci sono stati molti attentati. Si devono fare dieci chilometri prima di trovare altri segni di vita israeliana.

In primo piano la città palestinese di Nablus. Sullo sfondo quella israeliana di Herzliya e il Mediterraneo. La foto è scattata dall'insediamento di Itamar, uno dei più contesi di tutta la Cisgiordania. (foto di Giulio Meotti)


 

A Otniel il direttore della scuola rabbinica ci mostra una pagina del diario del capo del Sonderkommando che lavorava nelle camere a gas di Auschwitz. E ci dice: “L’Europa, se vuole preservare gli ideali umanistici, deve essere forte”

Un cancello giallo separa il mondo esterno e Otniel. Ci accoglie Benny Kalmanson, direttore della scuola rabbinica, che porta una pistola nella fondina. Kalmanson insegna storia ebraica: “A queste pareti può vedere i giornali dell’epoca fascista, c’è anche il ghetto di Roma e il Manifesto della razza”, dice al Foglio Kalmanson. “’Dove andare?’, chiedevano gli ebrei all’epoca in Europa. Oggi sono io a non sapere cosa ne sarà dell’Europa, con la sua demografia”. Poi Kalmanson ci mostra il suo tesoro: “Ecco qui, due pagine recuperate ad Auschwitz, dove il capo del Sonderkommando che lavorava nelle camere a gas, Salmen Gradewski, scrisse un diario. Ne sono sopravvissute alcune pagine: si trovano in parte a San Pietroburgo e in parte qui a Otniel. ‘Ho una richiesta: punite gli assassini’, scriveva Gradewski. Qui a Otniel ci consideriamo degli umanisti, vogliamo dialogare con i palestinesi, ma sappiamo anche che dobbiamo essere forti. Nel 2002 ero qui durante l’attentato e un anno fa ho perso in un attentato mio cognato, Micky Mark”. Kalmanson ci porta sul luogo di quella strage terribile: “Era shabbath, gli studenti danzavano, quando sentirono gli spari in cucina. Si erano chiusi dentro con i terroristi, salvando così la vita degli altri”. Oggi, a Otniel, gli studenti pranzano con le foto degli amici uccisi sempre in vista.

 

“Ho un messaggio per l’Europa”, ci dice Kalmanson prima di andarsene: “Se vuole preservare i propri ideali liberali e umanistici, Verdi e Wagner, deve essere forte”. E ci mostra un filatterio di preghiera tratto da una fossa comune durante la Shoah. “Come ha detto Charles Dickens, ci sono momenti belli e momenti brutti”, dice al Foglio Yaakov Nagen, l’allievo di Mark, ucciso nell’ultimo attentato a Otniel. Nagen, padre medico e madre avvocato, è nato a Manhattan. “Qui abbiamo sofferto molto a causa del terrorismo”, ci racconta Nagen, sette figli. “La mia vicina di casa, Dafna Meir, è stata uccisa qui dietro. E’ il prezzo di vivere qui. Abbiamo vissuto duemila anni in Europa, dove ci dicevano dove potevamo vivere. Oggi c’è una mutazione dello stesso odio. Dicono che i palestinesi sono Gesù e che noi ebrei siamo i nuovi Romani. Ci sono arabi in Israele, perché non possono esserci ebrei qui? Abbiamo bisogno di legami, non di separazione”. La biblioteca di Otniel è diversa dagli altri insediamenti: i libri di Tolstoj, Amos Oz e Thomas Mann si mescolano ai copiosi commenti sulla Torah. Riprendiamo la strada, che si fa sempre più disabitata, verso la colonia di Beit Yatir, che si affaccia sul deserto di Arad, quello immortalato nei romanzi di Amos Oz. Per arrivarci si passa la piccola colonia di Shmoa, presidiata da un soldato. Poi l’avamposto di Asael, distrutto e più volte ricostruito. Per entrare a Yatir si passa un grande checkpoint.

 

Ci accolgono il rabbino e colonnello Moshe Hager-Lau, che sta facendo lezione a un centinaio di studenti. Molti hanno il fucile a tracolla, come Hager, parente stretto dell’ex rabbino capo Yisrael Meir Lau. “Vivo qui da trent’anni, ho fondato io Yatir, volevamo una colonia agricola”, ci racconta Hager, vice comandante di una divisione di carristi. “Nel deserto del Negev oggi abbiamo pomodori, patate, vigneti. Da qui vediamo il Sinai, la Giordania, Dimona, la centrale atomica. Questa valle è citata nella Bibbia. C’erano ebrei a Yatir già tremila anni fa. Siamo tornati qui per studiare, lavorare e per essere lo scudo di difesa della società israeliana. I terroristi vogliono arrivare a Tel Aviv, ma ci siamo noi nel mezzo. Durante l’operazione Defensive Shield sono stato a Ramallah, un onore per me. Tutti sanno che la nostra presenza è importante qui per tutto Israele. Vent’anni fa l’idea che eravamo un ostacolo alla pace poteva reggere, oggi no. Il problema è l’islam radicale, non gli ebrei di Giudea e Samaria. Gli arabi vogliono tutto, non le colonie. Mio nonno e mio zio sono stati uccisi a Treblinka. L’unico posto dove gli ebrei possono difendere se stessi è Israele. Ma dobbiamo migliorare, questa non è la Svizzera. Ho perso mia figlia nell’esercito, ma i miei figli servono tutti nelle unità combattenti”. Hager ci mostra il suo fucile. “Nel 1976 ero al cinema a Tel Aviv e sentii degli spari. Terroristi avevano attaccato l’Hotel Savoy. Non avevo il fucile. Da allora lui viene sempre con me”.

 

Decine di migliaia di coloni israeliani, provenienti da tutto il paese, si sono riuniti a Gaza in una delle più partecipate manifestazioni contro la decisione del governo di rimuovere gli insediamenti di Gush Katif nella Striscia di Gaza (foto LaPresse)



Tornando indietro verso Gerusalemme si compie il viaggio più allucinante che possa intraprendere un israeliano che vive qui. Sono dieci chilometri dentro il territorio dell’Autorità palestinese. L’insegna per Negohot indica di salire. Poi quel cartello: “Vietato l’accesso agli israeliani”. Si procede fra due, tre villaggi palestinesi, trattenendo il respiro. Alla fine della strada c’è l’insediamento di Negohot. Shaked Avraham, sette mesi, qui venne ucciso da un terrorista palestinese penetrato nella comunità, mentre gli altri celebravano il capodanno ebraico. Shaked aveva appena iniziato a camminare. Un centro per bambini di Negohot porta oggi il suo nome. Ci accoglie a casa sua Asaf Fried, fa il programmatore alla Banca Leumi a Lod, la più grande d’Israele. Dalla sua terrazza si vede tutto, da Gaza a Tel Aviv compresa la centrale di Ashkelon. Il fucile mitragliatore lo segue ovunque, anche nel salotto, fra i bambini che giocano.

 

A Psagot, affacciata sulla capitale palestinese Ramallah. A Ofra, dove vivono i “vecchi” delle colonie. A Beit El, dove Abramo costruì l’altare al Signore. Fino ad Amona, l’avamposto da evacuare. “Fu Ehud Barak a dirci di venire a vivere qui”

“Questa colonia venne costruita da Menachem Begin in cambio della distruzione delle colonie nel Sinai nel 1982”, ci dice Fried. “Io vivo qui dal 1997, quando arrivai con mia moglie. Da allora qui sono nati i miei dieci figli. Non c’era niente. Solo militari. Ogni giorno un camion ci portava l’acqua potabile. Il governo si aspettava che Negohot collassasse su se stesso. Non lo abbiamo reso possibile. Oggi ci vivono cinquanta famiglie. Ehud Barak nel 1999 ha dato la nostra strada all’Autorità palestinese, era un esperimento. Un anno dopo è scoppiata la Seconda Intifada e un bambino di sette mesi è stato ucciso. Per sette anni quella strada è stata chiusa a causa degli attacchi. Prima impiegavamo mezz’ora di auto, da quel giorno ne servivano due e mezza. Facemmo uno sciopero, con i nostri figli al bordo della strada, mentre i militari stavano nei blindati. Durante l’Intifada qui c’erano cinquanta soldati. Abbiamo un asilo e una scuola fino ai sette anni. Ogni giorno parte un autobus protetto dall’esercito. C’è chi esce dalla comunità e chi chiede all’esercito di seguirlo. Nessuno si avventura senza armi. Non vivo qui come riservista, sono stato a Gaza a combattere durante l’ultima guerra. Vivo qui come ebreo: è il nostro paese, la nostra terra. Mio nonno venne qui nel 1935, tornò in Europa a recuperare i sopravvissuti all’Olocausto. Per me la creazione di Israele è parte della redenzione. Mio nonno purtroppo non ha potuto vedere la liberazione di Gerusalemme di cui quest’anno si celebrano i cinquant’anni”. Asaf non ci saluta alla porta di casa. Ci accompagna indietro per quei dieci chilometri di strada maledetta. Che sollievo uscirne.

 

La colonia di Psagot, costruita sulla collina che i palestinesi chiamano Jabel Tawil, è affacciata su Ramallah, la capitale dell’Autorità palestinese. Le case più vicine sono a cento metri dal confine. Psagot domina il deserto della Giudea, fatto di cave e rocce. Non c’è vegetazione fuori dalle colonie. Gli israeliani hanno costruito un muro a protezione delle case più esposte al tiro dei cecchini. Il canto del muezzin è continuo. Yossi vive a Psagot da dieci anni, viene dal Messico. Ha una copia del Codice di Aleppo, la Bibbia più preziosa. Ci mostra i segni dei fori di proiettile nella sua porta di casa e in terrazza. Dalla sua verenda si gode una bella vista sulla capitale palestinese. “Durante l’Intifada ci sparavano addosso”, ci racconta Yossi. “Da quassù puoi vedere la Giordania e il Mediterraneo. Per questo costruirono qui Psagot, è un posto strategico, qui re Hussein di Giordania voleva farci una villa per le vacanze. Fino all’Intifada gli israeliani dovevano guidare attraverso Ramallah. Poi, con Oslo, hanno costruito una strada nuova”. Non è un bene? “No, perché i palestinesi ci rispettavano quando gli passavamo in mezzo. Quando hanno visto che scappavamo hanno iniziato ad attaccarci. In Spagna, qualche anno fa, mi accusarono di ‘opprimere i palestinesi’. Chiesi loro: ‘In che lingua parliamo?’. ‘Spagnolo’, mi dissero, ‘lei viene dal Messico’. ‘E sa perché in Messico parliamo spagnolo?’, chiesi. ‘Perché lo avete colonizzato’. Io non accetto lezioni dagli spagnoli, o dagli inglesi, che all’Onu hanno votato contro di noi. Gli spagnoli dicono a me che occupo la mia casa?”.

Per arrivare ad Amona, la capitale di tutti gli avamposti, si deve raggiungere Ofra, dove vivono tutti i “vecchi” del movimento delle colonie, il Gush Emunim, come Uri Elitzur, morto due anni fa, l’ex braccio destro di Netanyahu. Si passa dal vicino villaggio palestinese di Ein Yabrud, che controlla la strada per Ramallah e Gerusalemme e dove i coloni sono spesso attaccati. Tanti hanno sacrificato la propria vita qui, come Ariel Hershowitz, ucciso a fucilate mentre tornava dal lavoro. Ofra venne eretta nel 1976 quando Yitzhak Rabin era primo ministro e Shimon Peres ministro della Difesa. Negli uffici comunali di Ofra c’è una foto che mostra Peres piantare un albero. Ma prima di Ofra c’è Beit El. Non si contano gli agguati mortali su questo pezzo di strada guardato da un checkpoint. Le auto palestinesi formano una coda di oltre un chilometro. Beit El nella Bibbia è la Casa di Dio, dove Abramo piantò la sua tenda e costruì l’altare al Signore; dove Giacobbe, figlio di Isacco, in fuga da Esaù, sognò la scala con gli angeli. L’autobus continua a portare bambini da scuola ad Amona. Ma questo insediamento è destinato, secondo una decisione della Corte suprema, a essere evacuato. Già nel 2006, qui, ci furono scontri violenti fra coloni ed esercito per evacuare alcune case. Il bilancio fu pesante: duecento feriti, 4.200 poliziotti, un milione di dollari spesi. Incontriamo Elad Ziv, leader di Amona. Ci accoglie nella sua casa di legno. “Vivo qui da diciotto anni. Amona fu fondata durante Oslo per preservare Ofra. Fu Ehud Barak in persona a stabilire che dovevamo venire a vivere qui. Ci hanno dato la strada, l’elettricità. Adesso la Corte suprema dice che dobbiamo andarcene. L’Unione europea finanzia le ong israeliane che appoggiano i palestinesi nelle loro richieste”. Elad fa una pausa per andare a prendere uno dei suoi otto figli. Fa l’architetto. “Qui oggi vivono 42 famiglie. Da quassù si vede il Mar Morto, la Giordania, tutto. Eccola lì, vedi?”. E indica Gerusalemme. “Quando eravamo in Europa ci hanno tradito, ucciso, preso tutto. Soltanto il popolo ebraico nella storia è stato espulso dalle proprie case e dalla propria terra e ci è tornato. Qui i maccabei hanno sconfitto i greci. Qui siamo tornati dopo duemila anni di esilio”. Il nord della Samaria è un sopravvissuto. Quassù, nel 2005, Ariel Sharon smantellò quattro colonie: Sanur, Homesh, Kadim, Ganim. Le tre che restano, conficcate nel cuore di una valle stretta e ostile, sono scampate al “disimpegno”. Ma per quanto ancora?

 

La colonia di Shavei Shomron è un puntino sulla strada per Tulkarem. E’ protetta da una guarnigione dell’esercito.

Quando c’è tensione, quassù sulle colline, nessuno si avventura sulle strade se non ha un fucile e se ci vai diventi spesso un bersaglio mobile per i terroristi. Incontriamo Elhanan, che è a capo della sicurezza di Shavei Shomron. “Qui vivono duecento famiglie e venti di noi sono volontari per la sicurezza dell’insediamento. Non è facile vivere qui, non puoi prendere un’automobile e partire. Devi pensare sempre a cosa fare. Ci sono donne che non vogliono guidare da sole fuori dall’insediamento. C’è gente che non vuole guidare di notte”. Elhanan, oltre che il capo della sicurezza della comunità di assediati e insediati, è anche un abitante di Shavei Shomron. “I miei figli vivono qui, questa è la mia terra. Non sono qui per proteggere gli israeliani sulla costa, ma perché ho il diritto di vivere qui. Ci sarei anche senza quei soldati. Non accetterei mai soldi dal governo per andarmene, non vivo qui per il mio bene ma per il bene del mio popolo. Ma se il governo decide che devo andare via, allora andremo via”.

Si prende la strada per Einav, un insediamento che sorge al fianco del territorio sotto l’Autorità palestinese. E’ isolata, Einav, come se qualcuno l’avesse dimenticata su questa collina. Ci sono villaggi palestinesi a ogni lato: Ramin a est, Anabta a nord, Beit Lid a sud, Kuft Albad a ovest. Spesso, durante l’Intifada, le donne di Einav indossavano un giubbetto antiproiettile quando lasciavano la comunità: si poteva noleggiare per venticinque dollari al mese. Durante l’Intifada era facile leggere simili annunci nell’ufficio comunale di Einav: “Un saluto a tutti i residenti. Visto il deterioramento della sicurezza lungo il percorso per l’insediamento, la segreteria e il comitato di sicurezza hanno deciso che, al fine di costringere i funzionari a salvaguardare le strade, si terrà una preghiera in un punto diverso di volta in volta. Si prega di venire armati”. Quando arriviamo a Einav non c’è quasi nessuno in giro. Solo due ragazzi che lavorano nel negozio di alimentari. Incontriamo Shmuel Elad, il capo della colonia, viene dalla Romania.

 

“Quando arrivai qui non c’era niente, eravamo otto famiglie con un generatore della corrente elettrica. Oggi siamo in duecento famiglie. Durante la prima Intifada era impossibile vivere qui e molti se ne andarono. Si passava da Tulkarem per andare a Netanya, sulla costa, e ogni giorno era un lancio di sassi e attacchi. Le nostre auto furono rafforzate con pezzi di metallo. Dopo l’Intifada hanno costruito una nuova strada. Avevo un amico che all’epoca si fermava sulla Linea verde, mi chiamava e chiedeva di essere portato qui. Non veniva da solo. Aveva paura. Durante la Seconda Intifada abbiamo perso amici per strada”. A Elad chiediamo perché Israele li voleva a vivere qui. “Volevano che costituissimo una linea ebraica di isolamento fra Tulkarem, Taibeh e Tira, spezzare la continuità palestinese. Dovevamo controllare quest’area, come un fence civile. Oggi la mia colonia non si espande perché, forse, al governo pensano che dovremmo andarcene. Io non mi vergogno di dire che sono un ‘colono’, anzi ne vado fiero. Sessanta famiglie spero che vengano a vivere qui entro l’anno. Ariel Sharon voleva includerci nel piano di evacuazione, per consegnare ai palestinesi una grande regione che va da Jenin a Ramallah, che infatti oggi è jüdenrein, senza ebrei. Oggi è difficile qui, siamo solo tre colonie, seicento famiglie di ebrei israeliani fra migliaia di palestinesi”. Elad non si scoraggia: “E’ dai tempi di James Baker che l’America chiede di mandarci via. Siamo ancora qui”. E indica il cielo con un dito. “Sono fiero di quello che ho creato. I miei figli, essere utile al mio paese: il senso di una vita”.

 

Nelle colonie di Ganim e Kadim c’era un detto: “Appoggi l’anima sul sedile e la riprendi dopo il checkpoint”. Qui lo sgombero iniziò anche prima che arrivasse l’esercito a portare via gli ebrei: avevano fatto tutti le valigie nottetempo. Prima dell’evacuazione di Sharon, per raggiungere da Einav le due colonie di Hermesh e Mevo Dotan ci volevano venti minuti. Adesso ci vuole un’ora. Rientriamo nella Linea verde verso Netanya, saliamo su fino a Umm el Fahm e riprendiamo la strada verso i Territori. L’esercito israeliano durante l’Intifada ha creato una “Ssz”, una zona speciale di sicurezza di quattrocento metri attorno agli insediamenti più a rischio. I primi a ottenerla furono Mevo Dotan e Hermesh, che visitiamo. Sono in un triangolo mortale che comprende Jenin, Tulkarem e Nablus.  Mevo Dotan è l’ultimo avamposto israeliano della Cisgiordania. Oltre, non c’è niente. Quando arriviamo alla colonia, c’è solo un ragazzone che imbraccia un fucile mitragliatore all’ingresso. Gli israeliani qui capirono che per loro il futuro non prometteva niente di buono quando furono lasciati fuori dalla barriera antiterrorismo. Nel 2006, l’allora vice premier Shimon Peres fece una proposta a Tony Blair: “Diamo Dotan e Hermesh ai palestinesi in cambio della pace”. Ovviamente la proposta non fu accettata. E Mevo Dotan e Hermesh sono ancora lì. Al culmine della Seconda Intifada, Mevo Dotan rimase con appena 29 famiglie. Tre abitanti dell’insediamento erano stati uccisi e gran parte dei residenti fecero le valigie. Qui neppure le ambulanze volevano avvicinarsi.

Soldati israeliani di guardia lungo la strada che porta al villaggio siriano di Ma'rbah, a sud delle alture del Golan (foto LaPresse)


    

Hermesh è una colonia fra i villaggi palestinesi di Baka al Garbiyeh e Baka al Sharkiyeh. Durante l’Intifada, quando avventurarsi quassù era un’impresa, anche da qui quaranta famiglie scapparono e presero una camera all’hotel Dan Panorama a Tel Aviv. Nessuno lasciava l’insediamento senza una scorta dell’esercito, che partiva ogni ora. Nel 1991, Ariel Sharon fece visita alla colonia e disse: “Gli insediamenti sono un ostacolo alla guerra, non alla pace”. Quindici anni dopo, Sharon tornò su quelle colline per smantellare quattro insediamenti vicini. Mevo Dotan fu lasciato in piedi, ma nel visitarlo si ha la sensazione che la prossima volta toccherà a lui. Oggi tutto, a Mevo Dotan, sembra pronto per una nuova evacuazione. Ma a Hermesh, la colonia limitrofa, assicurano che la comunità è viva. Incontriamo Boaz Meleth, agricoltore, otto figli, sta costruendo una casa di legno per gli ospiti. “Siamo venuti a vivere qui dopo che Ariel Sharon portò via le colonie, perché il nord della Samaria era in grave pericolo. C’erano soltanto venti famiglie rimaste qui. Su cento edifici, ottanta erano vuoti. La gente era scappata. Due ragazzine furono uccise qui. La gente aveva il terrore, come a Mevo Dotan. Era una colonia di laici e i laici hanno più paura dei ‘believers’. Le famiglie da 86 scesero a venti. Ogni notte l’esercito israeliano doveva fare raid a Jenin. C’era il terrore ad arrivare qui. Oggi siamo tornati a novanta. Stiamo avendo successo nel tenere in vita questa comunità. Quando ci siamo ritirati da qui, nel 2005, l’esercito ha abbandonato una grande base militare. Oggi, per compiere un arresto, deve fare un giro lunghissimo. Il ritiro ha un prezzo anche per l’esercito. Non mi fido dell’Autorità palestinese, è una organizzazione terroristica che paga lo stipendio ai terroristi in carcere, nelle cui scuole si insegna a uccidere ebrei. Israele uccide un terrorista e il mondo ci condanna. Lo stesso mondo che resta in silenzio di fronte a quanto accade in Siria. Io non capisco davvero”.

“I checkpoint non ci sono più in Giudea e Samaria, i palestinesi sono liberissimi di muoversi senza controlli dentro le loro aree, devono essere controllati soltanto alla Linea verde”, ci spiega Boaz Haetzni, cinquant’anni, laico, lavora per lo Shomron Regional Council, una sorta di municipio che raccoglie tutti gli insediamenti dell’area. “Dopo Oslo, quando Rabin diede ai palestinesi il controllo di tutte le città, Peres disse: ‘L’occupazione è finita’”. Arriviamo a Peduel, l’insediamento da cui si gode la vista più incredibile su tutta la costa. “Questa era la ‘veranda di Ariel Sharon’. Vedi, c’è tutto qui: Tel Aviv, Hadera, Petah Tikva, Ramat Gan, Gerusalemme, Ramallah, i monti di Hebron. Quando lancia un missile da Gaza, Hamas non sa dove finisce. Se fosse su questa collina, gli basterebbe lanciare sassi contro gli aerei che partono da Tel Aviv. Più avanti, dal villaggio palestinese di Rawabi puoi vedere l’aeroporto internazionale Ben Gurion”. Ci fermiamo a Barqan, la grande area industriale nelle colonie, settemila operai, di cui metà palestinesi. Sono le fabbriche colpite dal boicottaggio dell’Europa. “Se un palestinese porta a casa sua un bene prodotto qui, lo sbattono in prigione”, ci dice Boaz. “L’economia palestinese si basa su tre fattori: un terzo di produzione interna, un terzo di donazioni estere e un terzo di lavoro in Israele. Allora, visto che le donazioni estere le prendono a causa del conflitto con noi, possiamo dire che contribuiamo per due terzi all’economia palestinese”. Arriviamo alla fabbrica di plastica di Yehuda Cohen: “Ho cento dipendenti, di cui sessanta palestinesi”, ci spiega. “Io vengo ogni giorno da un kibbutz, i palestinesi dai villaggi attorno, ognuno porta la propria storia, siamo un ponte per la pace. Il boicottaggio vuole distruggere non soltanto i miei prodotti, ma anche la pace, che si basa sul lavoro, la speranza”.

 

Vicino c’è Ariel, non una colonia, ma una città con la sua università, la sua biblioteca famosa, il suo centro culturale boicottato dagli artisti anche israeliani, come David Grossman. Ariel è stata edificata su un colle a quaranta chilometri esatti dal Giordano e a quaranta dal mare, insomma è “il centro esatto d’Israele”. “Ora usciamo dal cancello est costruito da Ariel Sharon”, ci dice Boaz. “Si rammaricò soltanto di non averlo costruito ancora più in profondità nei Territori. Dalla valle del Giordano all’India, da qui in poi è tutto un grande oceano islamico. Soltanto queste montagne proteggono Israele”. Settantanove israeliani sono stati uccisi nella Samaria, assieme a diciotto soldati. In nessun’altra zona di Israele ci sono state tante vittime. Ci fermiamo a Rechelim, colonia piccola e isolata, porta il nome di due donne israeliane uccise qui sotto dai terroristi in agguati mortali. A Rechelim, due anni fa, venne il premier Netanyahu a fare un tour elettorale. Fu uno scandalo, nessun primo ministro si era spinto così addentro nelle colonie. La visita non fu annunciata, per motivi di sicurezza. Ci accolgono nella vineria Tura, elegante e di successo, esporta in tutto il mondo, soprattutto a Brooklyn. E’ di proprietà della famiglia di Vered Ben Saadan, che incontriamo, una signora olandese figlia di una convertita all’ebraismo. “Siamo tornati a casa”, ci spiega Vered. “Nella terra dei padri. Io posso vivere in pace con i palestinesi, ma loro devono scegliere, fra la pace e il terrore. Questa sarà la mia casa per sempre”.

 

Riprendiamo la strada 60: “Va da Beersheba a sud fino a Nazareth a nord”, ci spiega Boaz. “Il novanta per cento della Bibbia si è svolto qui”. Entriamo a Hawara, villaggio palestinese: “Gli israeliani hanno paura di passare da qui e hanno ragione”. Sulla destra c’è Itamar, una delle colonie di maggior successo in quest’area, ma evoca fatti terribili. Nel giugno del 2002, un terrorista entrò nella casa della famiglia Shabo e uccise una madre e tre figli. Poi c’è stata, nel 2011, la strage nella villetta dei Fogel: padre, madre e quattro bambini sgozzati in piena notte. Andiamo alla fattoria di Avri Ran, il fondatore di Itamar. Sono dieci chilometri fra il nulla e le torrette dell’esercito. “Voglio connettere Itamar con la Valle del Giordano”, ci dice Avri Ran. E questo è il massimo che gli si può togliere di bocca. Ran detesta i giornalisti forse più degli arabi. Saliamo nella zona più isolata di Itamar, “la collina di Arnon”. Incontriamo il fondatore dell’avamposto, Shmuel Barak: “Vivo qui dal 1998. Eravamo un gruppo di agricoltori che voleva cambiare vita, io lavoravo per la Rafael, l’azienda di sicurezza. Sono venuto qui per dare un’altra sicurezza a Israele e per legarmi alla terra, producendo vino. Non è stata una scelta di testa, ma di cuore. Spero di servire il mio popolo”. Cinque soldati sono fissi qui a difesa delle famiglie della “collina di Arnon”. “Siamo qui per mantenere in mani nostre la valle del Giordano e la strada che porta a Netanya”, continua Shmuel. “Ariel Sharon ci chiese di venire quassù per proteggere la strada che va dalla Giordania alla costa. La pace con Amman è splendida, ma che succederebbe se re Hussein cadesse e l’Isis o altri prendessero il potere? In quel caso ci siamo noi qui, assieme all’esercito. Se qui ci fossero i palestinesi metterebbero a rischio non solo Israele ma anche la Giordania. Se non ci siamo noi qui, arriva Hamas dopo una settimana. Per questo i palestinesi non firmano accordi con Israele, il giorno dopo sanno che il loro stato è in pericolo. Quando ci siamo trasferiti qui non c’era niente, le coppie giovani che vengono mi domandano: ‘Cosa possiamo fare?’. E io rispondo loro: ‘Quello che volete nella vita, se tentate riuscirete, se aspettate nulla accadrà’”. Shmuel nell’esercito ha cambiato il suo cognome, dal rumeno Berkovicz all’ebraico Barak. “Guarda, in un giorno di cammino da qui arrivi a Gerusalemme”. Le jeep dell’esercito fanno la spola nelle colline di Itamar. Passiamo dalla casa dei Fogel, la villetta del grande massacro: “I terroristi riuscirono a entrare protetti da quel boschetto, così lo abbiamo tagliato”, ci spiega Boaz.

Nella strada per Elon Moreh si passa dal luogo in cui c’è stata l’uccisione dei coniugi Henkin. E’ stato l’attentato che ha dato il via alla Terza Intifada. Due bandiere israeliane sono poste a memoria. Spesso, ogni notte, durante l’Intifada gli abitanti degli insediamenti venivano svegliati dagli allarmi terrorismo. Le villette di Elon Moreh sono quelle più a est dei Territori, le più isolate di tutti gli insediamenti. Si sale sul monte Kabir. “Moshe Dayan e Peres furono quelli che decisero di insediarci qui”, dice Boaz. “Ariel Sharon fece molti tour nella regione per scegliere il luogo da cui partire”. Dal monte Kabir la cosa più incredibile da visitare è la collina sulla valle di Tirza. “Ecco, tutta questa valle che vedi è senza la presenza di un solo ebreo”, ci spiega Boaz. “L’esercito e i servizi d’intelligence la chiamano ‘Fatah Land’ e ‘Jihad Land’, perché tutti i terroristi liberati con Gilad Shalit e che vogliono tornare a fare terrorismo sono venuti qui. Non c’è presenza israeliana, ci si muove liberamente, e l’esercito quando deve fare un arresto entra facilmente, ma ne esce con grande difficoltà. Questa valle è un problema immenso per la sicurezza. Eppure, gli aerei israeliani vengono qui sotto a fare esercitazione, perché ricorda molto le valli nel sud del Libano”.

 

Si arriva all’altra montagna che si affaccia su Nablus, il monte Gerizim. Nella strada c’è il villaggio dei samaritani, sono amici di Israele osteggiati dai palestinesi. “L’unica cosa che protegge Fatah da Hamas è la nostra presenza”, dice Boaz indicando il centro di Nablus, dove sorge la tomba di Giuseppe, terzo luogo più santo dell’ebraismo. “In quel campo profughi l’Autorità palestinese ha paura di entrare. Qui sono pieni di armi dopo Oslo, quando si perse ogni registro delle liste di armi in ogni villaggio palestinese. Hamas oggi è pieno di armi, ma non le usa perché i servizi segreti israeliani sono forti”. Mentre parliamo, colpi di fucile vengono da Nablus. “Questa è ‘no man’s land’, ci sono le gang. Oggi Abu Mazen lavora per noi, lo proteggiamo, altrimenti sarebbe un uomo morto. Purtroppo la nostra intelligence collassò con Oslo, e soltanto l’operazione militare nel 2002 l’ha ricostruita. Fu così, in quel collasso, che riuscirono a uccidere migliaia di ebrei”. Saliamo fino ad Har Bracha. Per arrivarci si passa da una serie di villaggi palestinesi che hanno la moschea che ricorda quella d’oro di al Aqsa. Un soldato israeliano è a guardia della colonia, le gambe protette da un cubo di cemento contro gli attacchi con le auto. Ariel Sharon venne quassù, nel 2002, quando lanciò la battaglia per la casbah di Nablus. Incontriamo il rabbino Eliezer Melamed, leader di questa colonia, tredici figli. Le centinaia di bambini che scorrazzano nel parco giochi è come se non si ritrovassero al centro del conflitto d’Israele con il mondo arabo-islamico. “Tutti i luoghi della Samaria sono sacri”, ci dice Melamed. “Da quassù potete vedere fino alla Siria. Senza i diritti biblici, Israele non ha significato. Gran parte degli israeliani oggi capisce molto bene tutto questo e ci vede positivamente. Non vogliono un altro stato arabo terroristico. Vada all’asilo e vedrà i bambini, sono la nostra cosa più importante”. Uscendo, si passa da un terrapieno militare: “Dopo Oslo l’esercito li costruì a difesa degli insediamenti”.

 
Tornando a casa, ripassiamo dal villaggio palestinese di Hawara. C’è traffico e come l’auto si ferma Boaz chiude le porte. Farla ogni giorno è un incubo. Andiamo all’insediamento di Yitzhar e da lì all’avamposto di Mitzpe Yitzhar, piccola colonia di ebrei lubavitch. Qui vivono veterani americani, ex dissidenti sovietici, yemeniti, anche peruviani convertiti all’ebraismo. L’esercito ha una postazione. Incontriamo il fondatore, Itzik Sandroi, soldato e rabbino, imbraccia il fucile mitragliatore. “Sono qui da sedici anni, con l’esercito proteggo questo posto. Siamo a duecento metri da Hawara e rischiamo la vita. Puoi vedere tutte quelle città palestinesi? Le ha finanziate l’Europa. Qui noi abbiamo costruito tutto da soli”. Otto famiglie vivono quassù, protette da altrettanti militari. Ogni venerdi Sandroi porta caffè e preghiere ai soldati su queste montagne. “In più posti saremo, più saremo al sicuro”, conclude Sandroi. “Non tocchiamo la terra privata palestinese, il resto è nostro”.

 

Nella strada verso casa, incrociamo la colonia di Qedumim, la più antica. “Non ha filo spinato, vedi?”, dice Boaz. “Gli insediamenti senza protezioni sono i meno colpiti dai terroristi”. Perché? “Dietro a un fence dormi troppo profondamente”. Le luci di Tel Aviv, dove si dormono sonni ben più tranquilli, appaiono come una triste promessa da queste montagne. E’ il buio oltre la siepe d’Israele.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.