Una nuova Italia da bere
Come uscire da una crisi e rinascere più forti di prima. A trent’anni dallo scandalo del metanolo, il prodotto delle vigne e delle cantine italiane è diventato il vero simbolo della riscossa di un paese
Louis Pasteur, grande studioso della fermentazione, giurava da buon francese che il vino fosse “la più salutare e igienica di tutte le bevande”. Secondo Luigi Veronelli, l’anarchico che ha portato per primo la cucina in televisione, “il vino è il canto della terra verso il cielo. Ha i suoi tenori e i soprano, contadini e contadine che lavorano le vigne e ne vinificano le uve, con tutta la fatica, l’intelligenza e la passione che vigna e vino esigono”. Ma un orrendo giorno del 1986 quel canto divenne un rantolo. “Non ci riprenderemo più”, dissero i profeti di sventura. E avevano ragione, perché nulla è stato più come prima, per fortuna del vino e dell’Italia. Come spesso accade nella storia, la rinascita è maturata dalle ceneri di una crisi acuta, anzi di una catastrofe: lo scandalo del metanolo che mise a terra non solo la produzione, ma la reputazione del vino italiano. Eppure la notte profonda ha dato origine a un’alba radiosa.
Rispetto al 1986, l'Italia produce il 45 per cento di vino in meno, ma il suo valore oggi è più che raddoppiato
Trent’anni dopo la grande frode, l’Italia produce il 45 per cento di vino in meno, ma ha più che raddoppiato il valore passando da 4,2 a 9,4 miliardi di euro, ha moltiplicato per sei le esportazioni e, quanto a produzione, ha sorpassato la Francia confermandosi al primo posto nel mondo anche con la vendemmia 2016: oltre 48 milioni di ettolitri contro 45 milioni. Dal 2010 il fatturato italiano è cresciuto di quasi il 19 per cento, quello estero del 46 per cento, segno di una costante internazionalizzazione. Il boom del vino è causa ed effetto allo stesso tempo di un ritorno alla terra emerso in questi anni anche come valvola di sfogo alla disoccupazione o come ricaduta ideologica (il localismo, il rifiuto dell’alienazione metropolitana, la diffusione del cibo biologico). Ma la nostalgia del paradiso perduto è solo parte di una realtà che vede protagonista lo sviluppo non la decrescita più o meno felice.
Quello che è accaduto dopo le vicende dell'86 “è una straordinaria metafora della missione del nostro paese”
Il trentesimo anniversario della catastrofe è stato ricordato dalla Fondazione Symbola che ha organizzato insieme alla Coldiretti un incontro “per non dimenticare”. Secondo il presidente Ermete Realacci, “quel che è accaduto dopo lo scandalo è una straordinaria metafora della missione del nostro paese”. Il 17 marzo 1986 vengono segnalati alcuni casi di avvelenamento a Milano; tre, accertati, da intossicazione da vino: Armando Bisogni, di 48 anni, Renzo Cappelletti, di 58, e Benito Casetto, deceduto all’ospedale di Niguarda. Il 2 aprile i morti sono già 15. Il sostituto procuratore della Repubblica Alberto Nobili apre un dossier e le autorità rendono nota la marca dei vini che hanno causato i primi casi di avvelenamento: si tratta di Barbera da tavola e bianco da tavola imbottigliato dalla ditta di Carlo e Vincenzo Odore, titolari di una società di Incisa Scapaccino (Asti) e venduto nei supermercati Gs, Esselunga e Coop. Accertamenti di laboratorio rivelano la presenza di alcol metilico in quantità superiore a quella prevista dalla legge. Il 24 marzo la nave cisterna italiana Kaliste viene bloccata a Sète in Francia. Il vino, che proviene dalla ditta Antonio Fusco di Manduria (Taranto), è sospettato di contenere metanolo, come poi sarà accertato con analisi più approfondite. In Germania, nella regione del Baden-Württemberg, il ministero della Sanità sequestra 500 bottiglie di Barbera d’Asti che presentano un contenuto di 6,7 grammi di metanolo per litro: sono prodotte dall’azienda vinicola Giovanni Binaco di Castagnole Lanze in Piemonte.
Insieme con l’etanolo e altri alcoli superiori, il metanolo è un componente naturale caratteristico delle bevande ottenute dalla fermentazione di mosti ricchi di zuccheri, o di frutta in genere, e dei distillati da essi ricavati, presente in piccole quantità (tra 50 e 400 milligrammi per litro).
Igt, Doc e Docg sono
gli scudi della qualità, segno di un rapporto virtuoso tra stato
e mercato. La maggior parte del vino italiano proviene da Toscana, Piemonte, Veneto, Puglia, Sicilia,
Emilia Romagna.
32.700 i soci delle coop
Sembrava che il metanolo potesse diventare come la fillossera che, nella seconda metà dell’Ottocento, portò a una decadenza secolare della produzione nell’Europa intera. Invece, negli ultimi trent’anni i vini e la viticoltura italiani hanno subìto mutamenti più radicali che nei tre secoli precedenti. Sono scomparse le coltivazioni promiscue che vedevano le viti coltivate insieme a ulivi e alberi da frutto, in cantina è stato introdotto il controllo della temperatura durante la fermentazione, che ha aperto nuovi orizzonti qualitativi. Lo scandalo ha reso più stringente una legislazione fondamentale per spingere verso l’alto la produzione. Igt, Doc e Docg sono gli scudi della qualità, segno anche questo di un rapporto virtuoso tra stato e mercato. Nel febbraio 1992 è stata varata una classificazione a piramide che contempla alla base i “vini da tavola” fino ad arrivare a quelli “a denominazione di origine controllata e garantita”. E’ la legge al servizio della qualità della quale parla Gilbert Garrier, che ha fatto bene anche alla produzione.
La maggior parte del vino italiano proviene da Toscana, Piemonte, Veneto, Puglia, Sicilia, Emilia Romagna, mentre hanno fatto passi avanti importanti anche in qualità la Campania, l’Umbria, le Marche. La produzione di base viene acquistata da parte delle grandi aziende europee come vino da taglio, ma dal 1980 i doc sono cresciuti del 19 per cento ed è aumentata di pari passo la quantità in bottiglia a scapito del vino venduto direttamente in botte o in damigiana. Il colpo di reni non sarebbe stato efficace se non si fosse innestato su una tendenza di più lungo periodo che attraversa l’intero mondo del vino e risale sostanzialmente agli anni Settanta, anni di rottura e cambiamento della società italiana anche in questo campo.
Alla proprietà familiare
è riconducibile
il 54,1 per cento
del patrimonio netto complessivo. I casi
di Iwb (comprea uve
e mosti, sforna 160 etichette di vini diversi) e Masi (Amarone): molto diverse, si sono quotate entrambe
in Borsa
Il confronto internazionale mostra un’Italia collocata ancora in una fascia intermedia, lontana dai colossi che si contendono un mercato sempre più globale. In testa troviamo la divisione vino del gigante americano Constellation Brands con un fatturato di due miliardi e 380 milioni di euro, subito dietro c’è Lvmh (champagne con il marchio di punta Moët & Chandon), poi Treasury Wine (Australia), che supera il miliardo e mezzo, Distell Group (Sudafrica), la cilena Viña Concha Y Toro seguita dalla divisione vino della conglomerata alcolica britannica Diageo e finalmente a quota 546 milioni ecco le Cantine Riunite. Nella pattuglia dei primi 25 gruppi, quelli che superano i 150 milioni di euro, ci sono anche Caviro, Antinori, Zonin, Mezzacorona, Davide Campari, Cavit, la Fratelli Martini e Botter. Nove sono i campioni italiani, cinque quelli francesi. Se prendiamo le maggiori vigne mondiali (in ettari) vediamo che al primo posto si collocano i cinesi con Yantai Changyu Pioneer Wine (20 mila ettari), poi arrivano gli australiani, i cileni, i nordamericani (tra i quali Gallo), gli argentini e i francesi di Pernod.
La piccola dimensione e il capitalismo familiare, croce e delizia del modello italiano, trovano dunque nel vino uno specchio perfetto, non bilanciato come in Francia da multinazionali fabbrica-soldi. Fino agli anni Sessanta chi coltivava grappoli li conferiva a poche grandi aziende che sfornavano prodotti di massa, o alle cantine sociali. C’erano grandi vignaioli che facevano piccoli vini, oggi tutto è cambiato: piccoli vignaioli (piccoli rispetto al mercato diventato mondiale) fanno grandi vini.
La guerra del Chianti tra fiorentini e senesi.
I super toscani e il vino di Montalcino, una zona dove l'innesto
di imprenditorialità
e capitali americani
ha creato un prodotto unico di grande impatto sul mercato internazionale
Masi, invece, è l’azienda familiare tipica che ora fattura quasi tutto all’estero. La famiglia Boscaini è proprietaria dalla fine del ’700 quando comprò il Vaio dei Masi in Valpolicella. La quotazione in Borsa sistema la proprietà con l’ingresso di un fondo di private equity, “ma la famiglia mantiene una salda maggioranza”, assicura Sandro Boscaini che guida il gruppo e l’insieme degli eredi. Il Veneto è oggi la regione più produttiva e anche più efficiente, dice Mediobanca. Negli anni è riuscito a recuperare e rilanciare vini e vitigni considerati di largo consumo, di costruire un prodotto di successo come l’Amarone della Valpolicella messo sul mercato per la prima volta dai Bolla, o imporre il Prosecco (oggi se ne vendono 500 milioni di bottiglie), l’ultima moda che all’estero sfida le grandi bollicine. Spumanti di qualità, come il trentino Ferrari o quelli di Franciacorta in provincia di Brescia, vogliono tener testa persino agli champagne. La chiave, non solo in Veneto, è stata la specializzazione e soprattutto l’innovazione.
Angelo Gaja ricorda sempre che stava per essere diseredato perché decise di introdurre la barrique invece delle botti tradizionali nelle Langhe e s’azzardò a sposare il Cabernet sauvignon (la base dei Bordeaux) o il Pinot noir della Borgogna con i due vitigni autoctoni, il Nebbiolo e il Dolcetto.
Nato nel 1940 e pronipote del fondatore che dalla Spagna si era insediato nel 1859 sulle rive del Tanaro aprendo un’osteria, ha studiato enologia ad Alba e a Montpellier, poi si è laureato in Economia a Torino. Appena diventato maggiorenne, a 21 anni, il padre Giovanni lo aveva fatto entrare nell’azienda già nota come produttrice del Barbaresco, vino difficile tanto che solo un centinaio di produttori si erano azzardati, con alterni risultati. Angelo si lancia nei suoi esperimenti, affidandosi a un enologo di valore come Guido Rivella. Modernista in una regione super tradizionale, Gaja ha vinto la sua battaglia. Il Nebbiolo, sostiene Angelo, è come Marcello Mastroianni e il Cabernet come John Wayne. “Se fosse un uomo il Cabernet farebbe i suoi doveri coniugali tutte le sere sempre allo stesso modo, mentre il Nebbiolo, molto più complesso, non cessa mai di stupire. La sfida ce l’abbiamo nel sangue. Quando tutti investivano nel Barolo, il mio bisnonno Angelo e Clotilde Ray investivano nei migliori terreni di Barbaresco, considerato un vino minore, meno strutturato, meno potente, meno longevo”. Oggi Gaja è il re assoluto del Barbaresco “uno dei migliori vini mai fatti in Italia” secondo Wine Spectator che detta la linea un po’ come Vogue fa per la moda.
Chi in questi anni
ha esportato è riuscito
a crescere. Zonin,
che oggi fattura
l'86 per cento del totale all'estero, è stata
la prima azienda
a sbarcare
negli Stati Uniti. È l'internazionalizzazione il passo successivo al primato nell'export
John F. Mariani è il fondatore dell’azienda Castello Banfi, simbolo del Brunello di Montalcino nel mondo. Italo-americano, insieme al fratello Harry sviluppa l’attività paterna di importatore diventando negli anni Sessanta uno fra i più importanti négociant di Bordeaux e di Borgogna. Nel 1969 lancia negli Usa il Lambrusco delle Cantine Riunite con un successo notevole (anche se snatura la qualità del vino diventato “Italian cola”). A metà degli anni Settanta diventa produttore, acquistando le vigne di Montalcino e con il contributo determinante dell’enologo Ezio Rivella sgorga il Brunello.
Piccole aziende
e capitalismo familiare: uno specchio virtuoso del modello italiano.
In cima alla scala
dei produttori
c’è una cooperativa, restano lontani i colossi internazionali
La Sicilia avrebbe potuto replicare il modello su scala ben più grande, ma la debolezza delle istituzioni pubbliche ha lasciato campo all’estro individuale che, per fortuna, non è mancato. Negli anni Ottanta Giacomo Rallo (morto l’anno scorso) fonda Donnafugata a Marsala e trasforma in un successo di mercato il Passito di Pantelleria. Ci sono poi tenute storiche come quella dei duchi di Salaparuta: nata nel 1924, fallita e salvata dalla regione Sicilia, viene venduta alla Ilva di Saronno (quella dell’Amaretto) della famiglia Reina, che ora sta lavorando su vecchie e nuove etichette per affermarle all’estero. Anche qui, la fioritura di uve autoctone è la carta vincente, si pensi al Nerello mascalese dell’Etna.
Angelo Gaja, modernista in una regione
super tradizionale,
e la scommessa vinta con il Barbaresco. Vent’anni
di esperimenti,
a Bolgheri,
per arrivare al Sassicaia. I nuovi vini nati dopo l'86. I vignaioli italiani, che hanno retto
alla globalizzazione,
di fronte alle incognite della Cina e del neo protezionismo
Il vino che nell’antichità viaggia dalla fertile mezzaluna mediorientale fino alle rive del Reno, che s’afferma grazie a ibridazioni e meticciati, anche economici (si pensi agli inglesi che creano il bordeaux, il porto o il marsala come li conosciamo), che rinasce alla fine dell’800, dopo la piaga della peronospora, innestando quel che resta delle viti europee su quelle americane, è esso stesso una parabola anti nazionalista. Oggi la Cina può diventare quel che è stata l’Inghilterra nell’800 o l’America nel secondo Novecento. A differenza dagli Stati Uniti, che restano ancora il primo mercato, il vino italiano non ha sfondato nella classe media cinese, né come marchio né come singoli prodotti. E qui si presenta all’Italia una nuova sfida. E’ pronta?
Chi in questi anni ha esportato è riuscito a crescere. E’ avvenuto nel vino lo stesso fenomeno dell’industria manifatturiera. Zonin, ad esempio, oggi fattura all’estero l’86 per cento del totale e ha chiuso l’anno scorso con 193 milioni di euro, un balzo enorme rispetto all’inizio del nuovo secolo quando aveva una dimensione essenzialmente nazionale. La più vecchia delle aziende familiari (risale al 1821) è stata anche la prima a sbarcare negli Stati Uniti acquistando nel 1978 in Virginia niente meno che i vigneti della tenuta di James Barbour, amico e vicino di casa di Thomas Jefferson, il presidente che introdusse il bordeaux in America stilando addirittura una classifica di qualità. Adesso Zonin vuole investire ancora fuori d’Italia. E’ l’internazionalizzazione, il passo successivo al primato dell’export, ma anche il più difficile. C’è bisogno di capitali, di organizzazione, di marketing, di logistica, c’è bisogno di grandi gruppi come in America, in Australia, in Cile. Il modello italiano può reggere o il piccolo è bello affoga nell’immenso mare del mercato mondiale? “L’azienda familiare è un valore fondamentale quando si fa vino”, sottolinea Domenico Zonin che guida il gruppo (il padre Gianni, reinventatosi banchiere e travolto dalla crisi della Banca Popolare di Vicenza, ha lasciato il timone fin dal novembre 2015, ma già da una decina d’anni le vigne erano nelle mani dei tre figli Domenico, Francesco e Michele). La viticoltura richiede grandi investimenti patrimoniali e ha rendimenti incerti, dunque non può essere gestita con un’ottica di breve periodo. Ma soprattutto il vino di qualità ha bisogno di quell’attaccamento tutto particolare che solo un “vigneron de terroir”, direbbero i francesi, riesce a dare. Naturalmente se la famiglia è in grado di stare al passo con i tempi se innova e si rinnova, per questo è fondamentale gestire bene il passaggio generazionale.
Per tornare alle metafore del Censis, il vino è la prova che il glocal (global+local) potrebbe funzionare a differenza da quel che è accaduto in molti rami dell’industria di massa e dei servizi standardizzati. Il modello italiano ha ancora molto da dire se riesce a crescere, potenziando le sue caratteristiche migliori e nello stesso tempo aprendosi al mercato. Di qua e di là dalle Alpi i vignaioli come i vigneron, tanto orgogliosi delle proprie viti che curano con attenzione certosina, talvolta persino maniacale, hanno retto alla globalizzazione cavalcando l’onda come abili surfisti. Ma cosa succede adesso, nell’èra del neo protezionismo trumpiano? Zonin non nasconde la preoccupazione sua e degli altri produttori, soprattutto di fronte al rischio che un mercato internazionale senza regole multilaterali, in preda alla filosofia del braccio di ferro accettata da tutti diventi la palestra di “una concorrenza sempre più sleale fino alla vinopirateria con contraffazioni e imitazioni dei nostri prodotti”, come teme Roberto Moncalvo, presidente della Coldiretti. Le aree più solide e integrate si stringeranno a coorte. L’America si difenderà. La Cina andrà avanti per la sua strada anche nel vino. L’Italia, la Spagna o la stessa Francia rischiano di restare schiacciate. Ma bando alle profezie di sventura, apriamo una bella bottiglia e riempiamo i lieti calici. Del doman non v’è certezza.
Il Foglio sportivo - in corpore sano