Ridare fiducia: Mario Draghi alla Cattolica
La risposta della politica economica alla crisi è stata “lenta e macchinosa”. Ecco che cosa ha fatto e fa la Bce “per riportare la prosperità e ripristinare la stabilità dei prezzi”
Milano, 5 novembre 2015
La vita adulta degli studenti qui riuniti oggi è stata segnata dalla crisi: una crisi finanziaria globale di una dimensione che molte generazioni, più fortunate, non hanno mai dovuto sperimentare; una crisi economica europea durata troppo, da cui stiamo solo ora gradualmente emergendo; una successione di situazioni critiche che hanno sottoposto a notevole prova la solidità dell’Unione monetaria europea.
Tutti, ma specialmente le generazioni più giovani hanno pagato un prezzo molto elevato. La crisi ha reso evidenti gli squilibri che si erano andati accumulando negli anni precedenti, certamente a causa dei gravi errori nelle politiche economiche degli stati nazionali, ma anche a causa di manchevolezze nell’architettura istituzionale europea. Queste hanno poi contribuito a rendere lenta e macchinosa la risposta della politica economica alla crisi stessa. Il numero inaccettabile dei disoccupati, tra cui molti, troppi sono giovani, è stato il prezzo pagato.
Oggi cercherò di spiegare che cosa la Bce, la banca centrale dell’Eurozona, nell’assolvere al proprio mandato, ha fatto e fa per ricostruire la fiducia, riportare la prosperità, ripristinare la stabilità dei prezzi.
Il mandato della Bce
Quale è il nostro mandato? Le banche centrali ne hanno diversi, a seconda delle giurisdizioni e degli assetti istituzionali in cui operano. Il nostro non è quello, ad esempio, degli Stati Uniti o del Giappone. In senso lato, le banche centrali esistono per preservare l’integrità della moneta.
Questa funzione delle banche centrali discende dall’esperienza storica, che mostra come una moneta sana sia fondamentale per la prosperità economica e la stabilità sociale. Nelle parole di John Kenneth Galbraith: “Quando la moneta è cattiva, la gente la vuole migliore, quando è buona pensa ad altro”. Noi vogliamo una moneta sana proprio perché vogliamo che la gente possa pensare ad altro e possa fare altro: lavorare, risparmiare, investire, innovare.
Se oggi noi ci chiediamo solo raramente se la moneta sia “buona” o “cattiva”, è perché per la maggior parte della nostra vita essa è stata per lo più stabile. I più giovani tra voi non hanno sofferto almeno direttamente dei danni causati dagli episodi inflazionistici degli anni settanta, né hanno dovuto sperimentare le conseguenze della deflazione degli anni trenta. E’ il segno che in tempi recenti le banche centrali hanno avuto sostanzialmente successo nell’assolvere ai propri compiti.
Il mandato affidato alla Bce prevede che essa sia preposta alla tutela della stabilità dei prezzi nell’area dell’euro, ovvero all’ integrità del suo valore nel tempo. In particolare, il nostro obiettivo è un tasso di inflazione inferiore ma non discosto dal 2 per cento nel medio termine. Si noti che la definizione è simmetrica: l’inflazione non deve essere durevolmente né troppo alta né troppo bassa. La storia insegna che la deflazione, ancorché relativamente più rara, può comportare conseguenze altrettanto destabilizzanti di un’inflazione eccessiva; soprattutto per i giovani, che sono generalmente debitori netti, queste possono essere particolarmente dolorose.
Per assicurare la stabilità dei prezzi una moneta deve essere sana anche sotto altri aspetti: deve essere una unità di conto affidabile, cioè il suo valore deve essere il medesimo in ogni parte del territorio sottoposto alla giurisdizione della banca centrale, qualsiasi forma la moneta stessa assuma. La moneta quotidianamente utilizzata dai cittadini non è solo quella creata dalla banca centrale. In un sistema in cui le banche hanno l’obbligo di costituire una riserva a fronte dei loro depositi, come è il caso dell’area dell’euro e di altre economie avanzate, il grosso dello stock di moneta assume la forma di depositi bancari. La moneta rappresenta una passività del sistema bancario nel suo complesso e circola in circuiti elettronici.
Affinché la moneta sia effettivamente unica nell’intera giurisdizione, il sistema dei pagamenti deve operare senza frizioni – proprietà che costituisce infatti uno dei nostri compiti statutari – e il sistema bancario che la crea deve essere solido. Soprattutto per questa ragione annettiamo grande importanza a una supervisione bancaria di elevata qualità, un compito che è stato posto in capo alla Bce dallo scorso novembre. Per le stesse ragioni agiamo come prestatore di ultima istanza nei confronti delle banche in caso di crisi di liquidità, purché siano solvibili.
Questa funzione non è volta a proteggere le singole banche per sé. Mira ad assicurare la fiducia nei depositi e la loro continua fungibilità con le banconote e con le altre forme di moneta nell’ambito dell’Unione. Poiché, inoltre, gli impulsi della politica monetaria sono trasmessi anche per il tramite dei prestiti bancari, l’esistenza di banche solide è condizione necessaria per assicurare la stabilità dei prezzi. Se non altro per questo motivo, contrastare la frammentazione del sistema bancario rientra senza dubbio nell’ambito del nostro mandato.
Il mandato della Bce nel suo senso più ampio poggia su un consenso radicato nella società. I politici ricevono il loro mandato nell’ambito di elezioni che riflettono voto dopo voto le preferenze degli elettori. Il mandato della Bce invece è inscritto in un testo che ha valenza costituzionale: il Trattato. Una costituzione si fonda su valori condivisi nel profondo dai cittadini; per questo motivo le costituzioni non sono, anzi non devono essere sottoposte periodicamente al vaglio elettorale.
Per assolvere al nostro mandato godiamo di un elevato grado di indipendenza nelle nostre decisioni di politica monetaria. Ma questa libertà ha limiti precisi. Per conseguire i nostri obiettivi non possiamo utilizzare strumenti vietati dal Trattato; il finanziamento monetario dei governi è uno di questi. Ma non possiamo nemmeno cambiare quegli obiettivi: per esempio, la rinuncia ad assolvere il mandato che ci è stato affidato non è un’opzione percorribile. Ma non ci è neppure consentito assumere comportamenti che di fatto ridefinirebbero le disposizioni del Trattato, come l’appartenenza o meno di un paese all’area dell’euro. In sintesi, il nostro mandato è definito dal Trattato.
Negli ultimi anni nel perseguimento degli obiettivi definiti dal nostro mandato abbiamo dovuto affrontare sfide estremamente impegnative, che hanno richiesto misure di politica monetaria senza precedenti per carattere, dimensione e numero.. Siamo stati costretti a sventare i rischi che corrodevano sia l’integrità della moneta nel tempo – la stabilità dei prezzi – sia quella nello spazio – riferita alle varie parti dell’area, specialmente quando sono emersi dubbi sulla permanenza di alcuni paesi membri nell’eurozona.
In ogni circostanza abbiamo agito in pieno accordo con il mandato, nei limiti posti dal Trattato stesso. Per illustrare questo punto vorrei soffermarmi su due esempi recenti. Il varo da parte della Bce del programma di acquisto di titoli (App) a partire dal settembre dello scorso anno, e l’erogazione di liquidità di emergenza alle banche elleniche negli scorsi mesi (Ela).
Il programma di acquisto di titoli
Nella prima fase della crisi, l’inflazione è rimasta nell’insieme ancorata al nostro obiettivo. Risalita dopo l’esaurimento degli effetti scaturiti dal fallimento di Lehman Brothers, l’inflazione al consumo si è mantenuta in media attorno all’1,6 per cento dal settembre del 2008 alla fine del 2011. Successivamente, in concomitanza con l’accentuarsi di una fase di protratta debolezza macroeconomica, ha seguito una prolungata tendenza flettente, costantemente al di sotto delle previsioni elaborate dal nostro staff.
Dall’inizio del 2014 diveniva sempre più chiaro che in assenza di una nostra risposta complessiva, la stabilità dei prezzi nel medio periodo era a rischio.
Inizialmente, valutammo che il principale ostacolo a una ripresa dell’inflazione fossero gli intralci al meccanismo di trasmissione della politica monetaria che impedivano alla nostra politica di far presa sull’economia. Per rimuoverli, tra giugno e settembre, ci preoccupammo soprattutto di sostenere l’erogazione del credito bancario all’economia reale con operazioni mirate di finanziamento a più lungo termine.
A differenza delle operazioni a lungo termine incondizionate erogate nel 2009 e, di nuovo, tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, i finanziamenti mirati che abbiamo inaugurato nell’estate dell’anno scorso sono, per larga parte, condizionati. In altre parole, ciascuna banca, a partire da marzo di quest’anno, può usufruire di credito a lungo termine presso la Bce a un tasso molto vantaggioso soltanto a condizione che il proprio credito erogato alle imprese e alle famiglie aumenti a tassi più sostenuti che nel recente passato. Le banche hanno a tutt’oggi preso a prestito un ammontare totale di poco inferiore ai 400 miliardi di euro. L’operazione di rifinanziamento si è dimostrata di importanza decisiva nello stimolare la ripresa del credito bancario a cui stiamo assistendo.
Il quadro inflazionistico tuttavia peggiorò ulteriormente nella seconda metà dell’anno a causa della forte caduta dei prezzi del petrolio. Una dinamica dei prezzi molto bassa per via di una flessione dei corsi energetici non rappresenta necessariamente un problema per la banca centrale se questa dinamica è percepita come temporanea e se, di conseguenza, le aspettative di inflazione di medio termine rimangono inalterate. Ma noi osservavamo invece che queste tendevano a disancorarsi dal nostro obiettivo su tutti gli orizzonti, risentendo sempre più della bassa inflazione in atto al momento.
Era dunque indispensabile che la politica monetaria cambiasse passo. Per due motivi. In primo luogo, perché in presenza di tassi di interesse ufficiali pari a zero – come erano allora – aspettative di inflazione cedenti implicano tassi reali di interesse crescenti, con un conseguente irrigidimento del tenore della politica monetaria. In assenza di una nostra reazione, ciò avrebbe avviato un processo di una caduta ulteriore delle aspettative di inflazione e quindi di una restrizione monetaria ancora più accentuata.
In secondo luogo, sebbene una variazione dei prezzi del petrolio possa influenzare permanentemente il livello generale dei prezzi essa non dovrebbe incidere nel lungo periodo sul tasso di inflazione. Per questa ragione l’eccessiva sensibilità delle aspettative di inflazione a lungo termine ai bassi corsi del petrolio era fonte di preoccupazione Forse segnalava la percezione che l’azione della banca centrale nel conseguimento del proprio obiettivo fosse in realtà vincolata, non fosse libera di esplicarsi pienamente, e che di conseguenza fosse incerto il valore attorno cui si sarebbe collocata l’inflazione.
In questo contesto, nel settembre dell’anno scorso abbiamo varato un programma di acquisto di titoli, esteso dal gennaio di questo anno ai titoli pubblici. Il passaggio da una politica monetaria basata sui tassi di interesse praticati sulle operazioni di credito temporaneo alle banche a una politica fondata sull’acquisto di titoli è stata in realtà un’evoluzione naturale. Ciò nonostante questo passaggio ha definitivamente dissipato alcuni equivoci sul senso e i limiti del mandato della Bce e ha confermato l’indipendenza di giudizio e di decisione del Consiglio direttivo dalle opinioni politiche degli Stati membri.
Recentemente, la Corte Europea di Giustizia ha confermato che la Bce può utilizzare ogni strumento disponibile, non esplicitamente precluso dallo nostro Statuto, per assicurare la stabilità dei prezzi. In presenza di rischi per la stabilità dei prezzi dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti legittimi a nostra disposizione. La dimostrazione più chiara della determinazione del Consiglio direttivo ad agire quando necessario è stata offerta proprio dalla decisione presa dalla maggioranza del Consiglio di procedere con il programma di acquisto dei titoli.
Oggi come ieri non siamo vincolati nella nostra capacità di intervento; abbiamo molti strumenti a nostra disposizione. Siamo difronte a una situazione in cui la dinamica dei prezzi è molto debole, il quadro macroeconomico è ancora incerto.
Per questi motivi il Consiglio si è impegnato a riesaminare il grado di accomodamento monetario nella prossima riunione di dicembre. Il programma attuato finora è stato senza dubbio efficace. Dobbiamo tuttavia valutare se, con l’indebolirsi dell’economia mondiale, esso sia anche efficace nel contrastare le spinte avverse che potrebbero ostacolare un ritorno alla stabilità dei prezzi nel medio termine.
Qualora ci convincessimo del contrario esamineremo le modalità con cui intensificarlo per conseguire il nostro obiettivo.
La liquidità alle banche elleniche
La Bce nelle sue decisioni è vincolata tanto dal proprio Statuto quanto dalle altre disposizioni del Trattato. Le scelte del Consiglio direttivo nei confronti della Grecia sono state un altro esempio di rigorosa fedeltà alla lettera e allo spirito di entrambi.
Ciò è emerso con chiarezza pochi mesi fa quando, con il peggiorare della situazione economica e politica, il governo e le banche greche persero la possibilità di finanziarsi sui mercati e i depositanti iniziarono a ritirare il loro denaro dalle banche. Queste divennero interamente dipendenti dall’erogazione di liquidità di emergenza da parte dell’Eurosistema, che rappresenta una forma di prestito di ultima istanza. L’Ela divenne il solo canale tramite cui le banche elleniche poterono continuare a operare. La scorsa estate arrivammo a prestare alle banche greche fino a 127 miliardi di euro, pari a 71 per cento in rapporto al pil del paese.
Nel rispetto dell’articolo 123 del Trattato che proibisce alla Bce il finanziamento dei deficit pubblici, il Consiglio direttivo impose una severa limitazione all’utilizzo dei titoli di stato come garanzia collaterale per i crediti che le banche ricevevano dalla Bce. Altrimenti il Governo si sarebbe rifinanziato presso le banche residenti che a loro volta avrebbero usato i titoli di stato acquistati dal governo per ottenere i nostri finanziamenti. Abbiamo però continuato a erogare la liquidità necessaria ad assicurare la funzionalità del sistema bancario e la continuazione del credito a imprese e famiglie, conformemente al principio secondo cui l’Eurosistema può erogare prestiti a banche che siano solventi e dispongano di collaterale sufficiente.
L’autorità competente a esprimersi, il supervisore europeo, riteneva infatti che le banche fossero solventi. Ma, chiaramente la loro solvibilità, come pure la disponibilità di collaterale sufficiente, dipendevano in maniera cruciale anche dalle prospettive di successo dei negoziati sul programma che erano allora in corso: se fossero falliti il valore dei titoli pubblici greci sarebbe caduto compromettendo la solvibilità delle banche e la qualità del loro collaterale, escludendole dal finanziamento loro dato fino ad allora dall’Eurosistema. Il Consiglio direttivo si è trovato così a dover dare un giudizio sulle prospettive di successo di questi negoziati.
Si prospettavano due opzioni estreme. Il Consiglio direttivo avrebbe potuto subito considerare improbabile una conclusione positiva dei negoziati, obiettare a ulteriori estensioni dell’Ela, o anche, come chiedevano alcuni, chiedere addirittura il rimborso di quella già erogata, forzando quindi l’intero sistema bancario ellenico al fallimento.
Oppure, come successivamente sostenuto da alcuni, il Consiglio direttivo avrebbe potuto concedere l’erogazione di liquidità in maniera illimitata e incondizionata, anche nell’evenienza di un fallimento delle trattative con il governo ellenico.
Come ricorderete la nostra decisione fu controversa, ma corretta.
L’estensione della Ela continuò finché si giudicò che vi fossero le condizioni favorevoli a una conclusione positiva del negoziato . La sua crescita fu interrotta quando apparve che queste condizioni non fossero più verificate. Fu ripresa quando fu chiaro che le prospettive di una soluzione positiva erano ristabilite.
Guardando ai mesi appena trascorsi, osserviamo che non è soltanto la realtà dei fatti che ci ha dato ragione, ma è anche la consapevolezza di aver scelto l’unica strada compatibile con lo Statuto e con il Trattato, l’unica che ha preservato l’integrità della moneta.
Altre strade possibili avrebbero contraddetto il principio che vuole che la Bce presti a banche solvibili e solo a quelle e solo se il collaterale è adeguato e avrebbero probabilmente distrutto l’integrità della moneta.
L’abolizione dell’Ela avrebbe probabilmente messo in moto un processo che avrebbe condotto la Grecia fuori dall’eurozona negando in tal modo l’irrevocabilità dell’euro prevista dal Trattato. E ciò sarebbe avvenuto non come risultato di una nuova determinazione, democraticamente raggiuta, dai paesi firmatari del Trattato, ma come conseguenza della rinuncia preventiva da parte della banca centrale ad applicare la lettera delle disposizioni vigenti.
Il sostegno della Bce alle banche greche si fonda sul suo Statuto ma anche sull’assunto contenuto nel Trattato che lo status di appartenenza all’Unione Monetaria di ogni paese membro dell’eurozona rimanga intatto.
D’altronde la stessa convinzione e la stessa indipendenza dalla politica ci avevano condotti nell’estate del 2012, quando la crisi dei debiti sovrani aveva messo a repentaglio l’integrità dell’area dell’euro, ad annunciare con fermezza la nostra determinazione a difendere la moneta comune.
In conclusione, l’equilibrio raggiunto con gli interventi effettuati nel corso della crisi greca rientra pienamente nel nostro mandato; rispetta l’impegno politico verso la moneta unica contenuto nel Trattato ma al tempo stesso lo attua nei limiti del nostro Statuto.
Conclusioni
La risposta che la Bce ha dato alle sfide eccezionali emerse durante la crisi, ha preservato l’integrità della moneta nell’area dell’euro. La stabilità monetaria è però una condizione solo necessaria per la prosperità dell’economia. E’ stata rivolta così tanta attenzione al nostro impegno per una moneta solida che, parafrasando Galbraith, si è pensato troppo poco ad altre cose. Dobbiamo ora guardare avanti, muovendo dalla stabilità per avanzare verso la prosperità.
Abbiamo bisogno di una nuovo patto che impedisca il riemergere delle sfide appena affrontate e che, soprattutto, rafforzi l’architettura costituzionale dell’area dell’euro.
E’ una conclusione non nuova, già raggiunta nell’estate del 2012 quando il Consiglio europeo diede mandato ai presidenti del Consiglio stesso, della Commissione, dell’Eurogruppo, a me stesso e successivamente al presidente del Parlamento europeo, di disegnare un percorso credibile che completasse e rendesse “più perfetta” la nostra unione monetaria . Da allora abbiamo formulato varie proposte, tutte nella stessa direzione.
Spero che ciò che vi ho detto oggi vi convinca della urgenza di questa riflessione, della necessità che essa si tramuti senza ritardi ingiustificati in un processo istituzionale in grado di conseguire risultati concreti, secondo un’ agenda per l’azione chiaramente definita.
E’ questo un viaggio lungo e complesso che non potrà che fondarsi sulla forte determinazione degli stati nazionali. La consapevolezza della forza intrinseca che deriva dalla capacità di riprendere la crescita attuando tutte le riforme necessarie a questo fine, la fiducia reciproca che porta a condividere i benefici di questa crescita in un’Unione dove la somma sarà maggiore delle sue parti, sono i pilastri su cui dovrà poggiare questa determinazione.
Jackson Hole (Stati Uniti), 22 agosto 2014
Nessuno in una società è immune dalla elevata disoccupazione. Per i disoccupati stessi, è spesso una tragedia che ha effetti duraturi sul loro reddito. Per quelli che lavorano, aumenta la precarietà e mina la coesione sociale. Per i governi, è un peso sulle finanze pubbliche che danneggia le prospettive elettorali. E la disoccupazione è al centro delle dinamiche macroeconomiche che determinano l’inflazione a breve e medio termine, il che significa che colpisce anche le banche centrali. Infatti, anche quando non ci sono rischi per la stabilità dei prezzi, ma la disoccupazione è alta e la coesione sociale a rischio, le pressione sulla Banca centrale per rispondere invariabilmente aumentano.
La questione chiave, tuttavia, è quanto possiamo davvero influenzare in modo sostenibile la disoccupazione, che a sua volta solleva il problema se le sue cause siano prevalentemente congiunturali o strutturali.
Dal momento che siamo una unione monetaria di 18 paesi, questa è per l’Eurozona necessariamente una questione complessa: ma lasciatemi comunque dare una breve panoramica di come la Bce attualmente valuta la situazione.
Il primo punto da sottolineare è che l’area dell’euro ha subito un grande e prolungato choc negativo sul pil, con gravi conseguenze per l’occupazione. Laddove gli Stati Uniti hanno registrato un aumento brusco e repentino della disoccupazione in seguito alla Grande Recessione, l’area dell’euro ha subito due balzi della disoccupazione associati a due recessioni di fila.
Dall’inizio del 2008 all’inizio del 2011 lo scenario in entrambe le regioni è simile: i tassi di disoccupazione aumentano sensibilmente, si stabilizzano e poi cominciano a scendere a poco a poco. Ciò riflette le fonti comuni di choc: la sincronizzazione del ciclo finanziario nelle economie avanzate, la contrazione del commercio mondiale a seguito del fallimento di Lehman Brothers, seguito da una forte correzione dei prezzi delle attività – in particolare immobiliari – in alcuni paesi.
Dal 2011 in poi, tuttavia, gli sviluppi nelle due regioni divergono. La disoccupazione negli Stati Uniti continua a scendere più o meno allo stesso tasso. Nell’area dell’euro, d’altra parte, inizia un secondo aumento che non si ferma se non ad aprile 2013 Questa divergenza riflette un secondo choc, specifico dell’Eurozona, legato alla crisi del debito sovrano, che ha provocato una recessione durata sei trimestri.
Diversamente dallo choc post-Lehman, tuttavia, che ha interessato tutte le economie della zona euro, praticamente tutte le perdite di posti di lavoro registrate in questo secondo periodo sono state concentrate nei paesi colpiti dalle tensioni sui mercati delle obbligazioni sovrane.
La crisi del debito sovrano si è mossa attraverso vari canali, ma uno dei suoi effetti più importanti è stato quello di disattivare, in parte, gli strumenti di stabilizzazione macroeconomica. Sul versante fiscale, i servizi non di mercato – come la pubblica amministrazione, l’istruzione e la sanità – hanno contribuito positivamente al mercato del lavoro in quasi tutti i paesi nella prima fase della crisi, in qualche modo attenuando così lo choc. Nella seconda fase, invece, la politica fiscale è stata limitata da preoccupazioni sulla sostenibilità del debito e dalla mancanza di un backstop comune, specialmente dopo l’avvio di un dibattito circa la ristrutturazione del debito sovrano.
E’ stato necessario un risanamento di bilancio per ripristinare la fiducia degli investitori, provocando un aumento della pressione fiscale e un calo dell’occupazione nel settore pubblico che si è aggiunto al calo dell’occupazione in atto in altri settori. Le pressioni sui titoli sovrani hanno anche interrotto la trasmissione omogenea della politica monetaria in tutta l’area dell’euro. Nonostante i tassi molto bassi, il costo del capitale è in realtà aumentato in questo periodo nei paesi più colpiti, con una parallela stretta della politica monetaria e di quella fiscale. Quindi, un obiettivo importante della nostra politica monetaria in questo periodo è stato – ed è tuttora – riparare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Stabilire un legame preciso tra questi problemi e l’andamento della disoccupazione non è semplice. […]
I dati più recenti sul pil confermano che la ripresa nell’area dell’euro rimane uniformemente debole, con una crescita dei salari modesta anche nei paesi non sotto stress, il che indica una domanda debole. In queste circostanze, sembra probabile che l’incertezza sulla forza della ripresa stia pesando sugli investimenti delle imprese e rallentando la velocità con cui i lavoratori vengono riassunti.
Ciò detto, ci sono segni che, perlomeno in alcuni paesi, una quota significativa di disoccupazione è anche strutturale. […]
Entro la fine del 2013, il livello di disoccupati di lunga durata (quelli senza lavoro per oltre un anno) rappresentavano oltre il 6 per cento della forza lavoro totale dell’area dell’euro – più del doppio del livello pre-crisi. Un’altra spiegazione importante sembra essere una mancanza di opportunità di reimpiego per i lavoratori poco qualificati, come dimostra la crescente disparità tra le competenze della forza lavoro e le competenze richieste dai datori di lavoro. L’analisi dell’evoluzione della disparità nelle capacità mostra un notevole incremento a livello regionale, nazionale e nell’Eurozona. La perdita di occupazione nell’area dell’euro è fortemente concentrata tra i lavoratori meno qualificati. Tutto sommato, le stime fornite dalle organizzazioni internazionali – in particolare, da Commissione europea, Ocse e Fmi – suggeriscono che la crisi ha portato a un aumento della disoccupazione strutturale in tutta l’area dell’euro, passando da una media (tra le tre istituzioni) dell'8,8 per cento nel 2008 al 10,3 per cento entro il 2013.
Il Foglio sportivo - in corpore sano