L'Ulivo come un dramma
Il partito e la coalizione, il sovrano e le congiure, i tradimenti e le riconciliazioni: un po’ Shakespeare, un po’ “Trono di Spade”. Perché nessuno ha il coraggio di ammettere che il mito dell’Ulivo è una gigantesca fake news. Storia romanzata della sinistra passata, e forse futura
Tutte le grandi contese dinastiche della storia traggono origine da un lutto, reale o immaginario, che agli occhi dei contemporanei rappresenta i valori di quell’antica e nobile tradizione che infidi usurpatori minacciano di sovvertire. Il funerale di Enrico Quinto con cui si apre la serie dei drammi shakespeariani dedicati allo scontro tra i Lancaster e gli York nella Guerra delle due rose. La decapitazione del re di Grande Inverno sotto gli occhi delle figlie, all’origine dello scontro tra i Lannister e gli Stark, con cui si chiude la prima stagione del “Trono di Spade”. L’intervento di Massimo D’Alema al seminario di Gargonza – e la sua simbolica decapitazione dell’Ulivo sotto lo sguardo incredulo dell’intera aristocrazia progressista – con cui nel lontano 1997 ebbe inizio quell’infinita, spietata, sanguinosa serie di battaglie campali e congiure di palazzo, insincere riconciliazioni e reciproci tradimenti, che l’inesauribile ironia della storia ha consegnato alle cronache con il nome di “unità del centrosinistra”.
Personaggi principali:
Romano Prodi, detto il Professore. Motto: “Competition is competition”. Dal 1996 a oggi, candidato dai leader dei partiti del centrosinistra a capo del governo italiano (due volte) e a presidente della Commissione europea, sempre eletto. Negli intervalli, è stato offeso con loro. Ha dichiarato per la prima volta di avere deciso irrevocabilmente di abbandonare la politica nel 2008. Oggi si dice determinato a riunificare il centrosinistra, ma non certo per guidarlo: “Io faccio il vinavil, non il leader”.
Personaggi principali: Romano Prodi, detto il Professore; Massimo D'Alema, lo Scorpione; Walter Veltroni, il Buono
Walter Veltroni, detto il Buono. Motto: “I care”. A lungo indicato da gran parte della stampa come l’unico leader capace di “coniugare radicalità e riformismo”, al contrario del suo eterno rivale D’Alema, dopo l’elezione a segretario del Pd è stato accusato di avere tramato con Silvio Berlusconi per ottenere, nell’ordine: la caduta del secondo governo Prodi, le elezioni anticipate e un accordo bipartisan sulla riforma della Costituzione. Ha dichiarato che avrebbe irrevocabilmente lasciato la politica al termine del suo mandato da sindaco di Roma. Si è dimesso da sindaco di Roma il 13 febbraio 2008 per candidarsi alla guida del governo.
Come ogni storia che si rispetti, anche la nostra storia comincia in un castello. Per essere precisi, nel castello di Gargonza, provincia di Arezzo, l’8 marzo 1997. E’ passato meno di un anno da quelle storiche elezioni del 21 aprile 1996 – le prime vinte dalla sinistra postcomunista! – e Romano Prodi ha voluto riunire, rigorosamente “a porte chiuse”, vertici dei partiti e vertici del pensiero di quella grande coalizione che lo ha portato al governo (come direbbe D’Alema), o piuttosto che al governo è stata portata da lui (come direbbe Arturo Parisi).
Prodi riunisce i verticia Gargonza un anno dopo le elezioni del 21 aprile 1996, le prime vinte dalla sinistra postcomunista
Insomma, a leggere i giudizi dei contemporanei, quel primo glorioso governo di centrosinistra, quello che porterà l’Italia in Europa e la sinistra al governo dell’Italia, caduto secondo molti per l’eterna inaffidabilità di Fausto Bertinotti e secondo molti di più per l’affidabilissima crudeltà di Massimo D’Alema, non sembra fare scintille. “Finora Prodi e compagni sono riusciti a governare senza una sola idea, al massimo con qualche parametro”, sentenzia Maltese. Sta di fatto che all’incontro non manca nessuno dei più bei nomi dell’intellighenzia di sinistra: da Umberto Eco a Gianni Vattimo, da Ettore Scola a Luciano Berio.
L’intervento destinato a segnare per sempre la riunione, però, lo pronuncia il segretario del Pds, Massimo D’Alema.
Comincia così: “Voi mi scuserete se, diciamo, io ho optato per fare un discorso molto di merito e non un saluto formale, anche se questo discorso potrà contenere qualche risposta un po’ spigolosa”.
Non lo scuseranno.
Come per tutti i solenni conclavi, seminari e raduni rigorosamente “a porte chiuse” convocati dal centrosinistra nei successivi vent’anni, i giornali del tempo riportano minuziosamente ogni dettaglio della discussione. Il 12 marzo, una nota dell’ufficio stampa del Pds precisa che la diffusione della trascrizione integrale del discorso di D’Alema da parte del Corriere della Sera “non è stata né concordata né autorizzata” e si rammarica “per la diffusione di un testo non rivisto dall’autore”.
Il rammarico non si rivelerà malriposto. Quel discorso costituirà infatti il primo capo d’accusa di un processo mai concluso, che nel corso degli anni si arricchirà di sempre nuovi elementi, e che tuttavia dovrà sempre ripartire dall’inizio, dal peccato originale di Gargonza: lo sparo di Sarajevo dell’eterna guerra del centrosinistra. Ancora quindici anni dopo, Prodi commenterà l’intervento dalemiano con queste parole: “C’era una sola spiegazione, aveva paura che il governo dell’Ulivo potesse trasformarsi in un partito dell’Ulivo. Avrebbe perso il controllo di governo e partito e gli sarebbe sfuggito il suo costante disegno che il governo avrebbe dovuto essere necessariamente guidato da un ex comunista”.
Prodi quindici anni dopo: D’Alema “aveva paura che il governo dell’Ulivo potesse trasformarsi in un partito dell’Ulivo. Avrebbe perso il controllo di governo e partito”.
Va detto che la paura, in ogni caso, non sarebbe apparsa manifestamente infondata, alla luce dell’annunciata intenzione dei comitati per l’Ulivo di cominciare a stampare vere e proprie tessere. E certo non meno preoccupato si mostra allora Franco Marini, segretario del Partito popolare, secondo essenziale pilastro su cui si regge la coalizione. E tuttavia, diceva D’Alema in quel famigerato discorso, il problema “non è il fatto che noi difendiamo l’identità di partito”, ma che “una nuova grande formazione politica per essere una cosa vera postula il superamento di quelle esistenti”. Questo dunque è il punto. “Non mi si venga a dire che si fa una nuova formazione politica mantenendo i partiti che ci sono, siamo seri… Ché poi nasce il problema su chi è sovrano, c’è poco da fare”.
La profezia si sarebbe rivelata azzeccata. Forse anche perché in realtà, e lo stesso dibattito di Gargonza stava lì a dimostrarlo, il problema si era già posto. In ogni caso, almeno in quella sede, D’Alema non chiude all’ipotesi di un partito dell’Ulivo: “Io non escludo affatto che la prospettiva possa essere questa. E devo dire che questa prospettiva mi interessa molto di più che non l’idea che trovo superficiale e infondata che il soggetto politico possa diventare l’alleanza, i comitati, al posto dei partiti. Perché tutto sommato continuo a pensare che un soggetto politico debba organizzare un milione, un milione e mezzo di cittadini in un paese che ha cinquanta milioni di abitanti, altrimenti non è un soggetto di nulla”.
Curiosamente, quando quel partito finalmente si farà, e più per merito di D’Alema che di molti altri suoi presunti fondatori – quel partito che ancora al congresso del 2017 radunerà oltre un milione e mezzo di cittadini per eleggere il nuovo segretario – sarà proprio D’Alema ad andarsene. Ma il passaggio più significativo è forse quel riferimento ai “comitati”. Nel pubblicare la trascrizione dell’intervento, il Corriere chiarisce utilmente che “il ripetuto richiamo ai ‘comitati’ riguarda diversi interventi del mattino (soprattutto quello di Paolo Flores d’Arcais) che avevano insistito sul progetto di un movimento più vicino alla società civile, attraverso strutture agili come i comitati di cittadini, e avevano accusato i partiti di non essere capaci di comprendere questa realtà”. E infatti era proprio in polemica con quegli intellettuali che D’Alema scandiva una delle dichiarazioni di principio destinate a guadagnargli più inimicizie di tutta la sua lunga e spigolosa carriera: “Noi non siamo la società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti”. E ancora: “Non possiamo raccontarci queste storie tardo sessantottesche. Abbiamo fatto un comitato…”. E infine: “Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica”.
Venti anni dopo, all’indomani del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, sarà proprio D’Alema, ormai fuori dal Partito democratico, il primo a parlare della necessità di “organizzare un nuovo centrosinistra”, esortando a costituire “comitati in ogni città”. A sinistra del Pd ci sono già tre partiti, ma all’intervistatore che glielo fa notare, D’Alema replica senza fare una piega: “C’è molto altro. Ci sono i comitati per il No di Zagrebelsky, c’è un pezzo importante di società civile…”.
Sarebbe facile, oggi, ironizzare sulla radicalità della svolta dalemiana. Ma la verità è che l’intera storia del centrosinistra nella Seconda Repubblica potrebbe essere rappresentata come un gigantesco gioco dell’oca, un gioco senza vincitori né vinti, perché presto o tardi tutti i suoi protagonisti si ritrovano alla casella di partenza.
Si comincia con lo scontro tra ulivisti e partitisti, sostenitori del primato della coalizione sui partiti da un lato e sostenitori del primato dei partiti sulla coalizione dall’altro, andato plasticamente in scena a Gargonza (fase uno: 1996-2003). Dopo sette anni di guerra fratricida, si passa alla casella successiva: il partito dell’Ulivo, che presto si chiamerà Partito democratico (fase due: 2003-2013). E si finisce – si fa per dire – oggi, con il ritorno alla casella di partenza, ma a parti rovesciate: con l’arrivo di Renzi alla guida del Pd e il gruppo dirigente postcomunista degli anni Novanta che convoca intellettuali e società civile in nome del centrosinistra, in frontale contrapposizione al partito da loro fondato dieci anni prima al dichiarato scopo di superare la lunga e dannosissima contrapposizione tra partito e coalizione (fase tre: 2013-oggi).
Il primo grande complotto: la fine del governo Prodi nel 1998. Caduto formalmente per mano di Fausto Bertinotti ma secondo gli ulivisti, in realtà, per una trama ordita dai partitisti D’Alema e Marini.
All’inizio, dunque, le squadre sono le seguenti: da un lato Prodi e Veltroni, premier e vicepremier del primo governo dell’Ulivo, schierati nel fronte che proclama il primato della coalizione; dall’altro D’Alema e Marini, segretari dei due principali partiti della coalizione, che proclamano, non sorprendentemente, il primato dei partiti.
In questa formazione si arriva così al primo grande complotto della nostra storia: la fine del governo Prodi nell’autunno del 1998. Caduto formalmente per mano di Fausto Bertinotti ma secondo gli ulivisti, in realtà, per una trama ordita dai partitisti D’Alema e Marini. Un patto segreto che avrebbe dovuto portare il primo a Palazzo Chigi e il secondo al Quirinale. Accade però che il primo va effettivamente a Palazzo Chigi, mentre al Quirinale viene eletto Carlo Azeglio Ciampi. Per i popolari il vero tradimento è questo, e Marini non la prende meglio di Prodi. Quanto al Professore, allo scopo di saldare il conto promuove un suo partito personale da presentare già alle europee del 1999. L’operazione, al grido di “competition is competition”, riesce in pieno: la lista “I Democratici” prende il 7 per cento e da quel momento sarà una presenza fissa non meno che arcigna in tutti i vertici di maggioranza.
Da parte sua, appena salito a Palazzo Chigi, D’Alema lascia a Veltroni la guida del partito (passato nel frattempo, attraverso una breve e indolore rifondazione, da Pds a Ds) e convince gli altri capi di governo europei, che in quel momento appartengono quasi tutti al Pse, a eleggere Romano Prodi presidente della Commissione europea. La tregua durerà comunque pochissimo.
Va anche detto che il compito di chiunque abbia vendette da consumare, lungo tutto il corso di quella meravigliosa e irripetibile stagione del primo centrosinistra al governo, è notevolmente facilitato dalla fisiologia dei rapporti interni a una coalizione che va dalla lista di Lamberto Dini al partito di Antonio Di Pietro, passando per Verdi, Repubblicani, Liberali, Laburisti, Comunisti unitari, Comunisti italiani, Cristiano sociali, Rete, Patto Segni, Alleanza democratica, Udeur (saltiamo per brevità le diverse microscissioni e i conseguenti cambi di denominazione delle stesse forze sopracitate).
Nell’autunno del 1999, per descrivere la situazione, Eugenio Scalfari ricorre a un suo vecchio cavallo di battaglia dei tempi della Prima Repubblica. Questo: “Il Mediterraneo è il centro del mondo, l’Italia è il centro del Mediterraneo, Foligno è il centro dell’Italia, il bar centrale è al centro di Foligno, il biliardo è al centro del bar centrale e il birillo rosso, che è al centro di quel biliardo, è dunque il centro del mondo”. E così conclude: “Da allora questa simpatica favola è diventata la sindrome della politica italiana e in particolare della cosiddetta alleanza di centro-sinistra. Tutti i capi, capetti e capettini si identificano col birillo rosso del bar centrale di Foligno e si comportano di conseguenza”.
Il compito di chi abbia vendette da consumare è facilitato dalla fisiologia dei rapporti interni a una coalizione che va dalla lista di Lamberto Dini al partito di Antonio Di Pietro, passando per Verdi, Repubblicani, Liberali, Laburisti, Comunisti unitari, Comunisti italiani, Cristiano sociali, Rete, Patto Segni, Alleanza democratica, Udeur
Insomma, a leggere i giudizi dei contemporanei, anche quel secondo glorioso governo del centrosinistra – il governo D’Alema, il primo guidato da un postcomunista! – non sembra suscitare grandi entusiasmi. Figurarsi il terzo, il D’Alema bis: nato sulle ceneri del precedente, come ci ricorda implacabilmente Wikipedia, per “favorire un rimpasto di governo che tenesse conto dei nuovi equilibri della maggioranza”. Il terzo esecutivo di quella irripetibile stagione dura ancor meno dei precedenti: entrato in carica il 22 dicembre 1999, il secondo governo D’Alema cade il 19 aprile del 2000 per un “atto di sensibilità politica” del presidente del Consiglio, dopo la pesante sconfitta ricevuta alle regionali. Va detto che nel pieno di quella decisiva campagna elettorale, per diversi giorni il segretario del suo partito, Veltroni, si trova addirittura in un altro continente. Per la precisione, in Africa. Caduto D’Alema, manca ormai un anno appena alla fine della legislatura. A Palazzo Chigi va Giuliano Amato, che fa però ancora in tempo a farsi impallinare dagli alleati. Alle elezioni del 2001 il candidato del centrosinistra sarà infatti Francesco Rutelli.
La storica legislatura che ha visto per la prima volta l’Ulivo al governo dell’Italia si chiude dunque con un bilancio di quattro governi e tre presidenti del Consiglio messi in sella e disarcionati dalla stessa coalizione nell’arco di cinque anni (la vita media di un governo si attesta a un anno e tre mesi, quella di un presidente del Consiglio appena sopra: un anno e otto mesi).
Quadro sinottico dei governi di centrosinistra nella legislatura 1996-2001:
Prodi: 18 maggio 1996 - 9 ottobre 1998
D’Alema: 21 ottobre 1998 - 18 dicembre 1999
D’Alema bis: 22 dicembre 1999 - 19 aprile 2000
Amato: 26 aprile 2000 - 31 maggio 2001
Tutte le grandi contese dinastiche della storia nascono all’ombra di una guerra, nel clima oppressivo e paranoico suscitato dalla grande minaccia esterna, quando l’intero paese è percorso da soldati in fuga e avventurieri a caccia di gloria: fu così per la contesa tra Lancaster e York sul finire della Guerra dei cent’anni, fu così per lo scontro tra Lannister e Stark sotto la minaccia delle forze oscure provenienti dal nord, e fu così anche per l’intera vicenda del centrosinistra nella Seconda Repubblica, tra la fine della Guerra fredda e l’inizio della sua replica farsesca in forma di guerra civile simulata tra berlusconiani e antiberlusconiani, sfondo incancellabile e decisivo di tutta la nostra storia.
E infatti, dopo l’insperata vittoria del ’96 e l’andamento altalenante di quella storica legislatura che vede il Cavaliere all’opposizione e la sinistra al governo – per la prima volta! – alle elezioni successive, il 13 maggio 2001, rivince Berlusconi. Ma per quanto ampiamente prevista e lungamente annunciata, in quel momento la sua larghissima vittoria rappresenta per l’elettorato progressista uno choc, un evento traumatico, una calamità apparentemente inspiegabile. O almeno: inspiegabile per tutti coloro, e sono tanti, che si rifiutano di ricorrere a quella banale logica dei numeri da cui aveva provato a partire D’Alema proprio nel discorso di Gargonza. Allora, infatti, il leader della Quercia aveva messo in guardia dai facili entusiasmi, ricordando con sadica pignoleria come nel ’96, a conti fatti, il centrodestra e la Lega, che si erano presentati al voto separatamente, avessero preso in totale molti più voti del centrosinistra.
Insomma, l’idea che sin da quelle storiche elezioni del 1996 – le prime vinte dalla sinistra! – la maggioranza assoluta del popolo italiano avesse sempre votato per il polo berlusconiano o per la Lega, per un motivo o per l’altro, venne sistematicamente rimossa. E se la banale giustificazione dei numeri non era sufficiente, se la prosaica realtà di una maggioranza degli italiani niente affatto convinta dalla prova di quei primi gloriosi governi di centrosinistra non era spiegazione convincente, la vera spiegazione andava allora cercata altrove. E cioè nel complotto, nel tradimento, nella congiura di quegli stessi dirigenti che evidentemente dovevano avere venduto l’anima al diavolo e il paese a Berlusconi. Di qui, simboleggiato dal celebre grido di Nanni Moretti in piazza Navona – “Con questi dirigenti non vinceremo mai!” – si sarebbe sviluppato un movimento politico-viscerale destinato a non concludere assolutamente nulla sul piano pratico, ma a segnare durevolmente una lunga stagione di rancori e recriminazioni, processi di piazza e cacce all’untore, all’inciucista, al compagno di partito sospetto di intelligenza con il nemico. Una stagione rispetto alla quale i precedenti cinque anni di vita del centrosinistra, più che al “Trono di Spade”, somigliano a “Happy Days”.
È una slavina che D’Alema aveva sentito arrivare prima di ogni altro, e infatti era con quel mondo che ce l’aveva, fin troppo chiaramente, quando a Gargonza se la prendeva con certe derive “tardo sessantottesche” e con un certo minoritarismo moralista. “Io sono convinto – aveva detto allora – che l’etica è essenziale, ma l’etica può essere una guida per l’innovazione, o può essere invece, diciamo così, la bandiera di una resistenza”. E ancora: “C’è una passione per l’essere minoranza morale in un mondo cattivo, nelle culture da cui proveniamo, che è una cattiva passione”. E infine: “Cattiva, corruttrice, perché il narcisismo delle minoranze che pretendono di avere la moralità è un sentimento corruttore, una classe dirigente è quella che sa farsi maggioranza e governare”.
Chissà se quelle parole gli torneranno in mente, vent’anni dopo, al teatro Brancaccio, mentre assiste impassibile alla pioggia di fischi che sommerge il bersaniano Miguel Gotor, colpevole di avere solo pronunciato il nome di Giuliano Pisapia. O mentre ascolta lo storico dell’arte Tomaso Montanari fargli l’elenco delle ragioni per cui all’origine di tutti i mali della sinistra e dell’Italia non c’è solo il Pd di Renzi, ma gli stessi governi Prodi e D’Alema degli anni Novanta, responsabili della precarizzazione del lavoro e persino di aver trascinato l’Italia nella “guerra illegale” del Kosovo.
D’Alema: “C’è una passione per l’essere minoranza morale in un mondo cattivo, nelle culture da cui proveniamo, che è una cattiva passione”.
D’altra parte, che quella contro l’estremismo degli intellettuali sarebbe stata una battaglia di lunga lena lo si capisce subito. Al secondo congresso dei Ds, che si tiene a Pesaro nel novembre 2001, la mozione riformista guidata da Piero Fassino, sostenuto da D’Alema, ottiene oltre il 60 per cento, ma è solo il primo tempo della partita. Passano pochi mesi, infatti, e il “grido di Moretti” dà il via alla lunga rivolta del “ceto medio riflessivo”. Definizione dello storico inglese Paul Ginsborg, animatore di quel movimento dei professori che sarebbe presto confluito nei girotondi, che a loro volta si sarebbero uniti alla Cgil di Sergio Cofferati, all’Unità di Furio Colombo, agli appelli di Micromega, ai proclami televisivi di Michele Santoro e a tutto quel fiorire di manifestazioni e indignazioni cui si sarebbero gioiosamente accodati tutti i minipartiti dipietristi, ambientalisti, post e neo comunisti, decisi a mettere sotto schiaffo le forze maggiori dell’alleanza. In prima linea, ovviamente, c’è la minoranza diessina appena uscita sconfitta dal congresso (una vecchia abitudine anche questa).
Per i riformisti è il momento più difficile. E le squadre, infatti, si confondono. O per meglio dire, si squagliano. Contro D’Alema e Fassino è schierato il “correntone” ds, così chiamato perché nato dalla confluenza tra sinistra storica e veltroniani, ma senza Veltroni. Se infatti alle elezioni regionali del 2000 il segretario dei Ds ha preferito occuparsi di Africa, durante le politiche del 2001 ha deciso di candidarsi alle contemporanee amministrative, uscendone non più segretario di partito, ma sindaco di Roma. E siccome un sindaco è il sindaco di tutti, spiega, al congresso di Pesaro preferisce non schierarsi. In ogni caso è a lui che guarda buona parte di quel mondo che a sinistra contesta le leadership di Fassino e D’Alema, considerandolo l’unico in grado di “coniugare radicalità e riformismo”, come ama dire in quel periodo lo stesso Veltroni. Quanto a Prodi, al momento si trova ancora a Bruxelles, ma sarà presto richiamato in servizio.
Per accettare il gravoso compito di guidare nuovamente una coalizione di centrosinistra che lo ricandidi al governo del paese, però, il Professore pone due condizioni, che alla lunga si riveleranno in reciproca contraddizione. La prima è di essere incoronato attraverso primarie di coalizione, cosa che accadrà effettivamente, per la prima volta su scala nazionale, il 15 ottobre 2005. L’elenco dei candidati dà già un assaggio di cosa sarà la futura coalizione di governo. Oltre a Prodi e Bertinotti, si va da Antonio Di Pietro a Clemente Mastella, da Alfonso Pecoraro Scanio a Ivan Scalfarotto, per finire con la candidata “senza volto” dei movimenti no global, infine faticosamente convinta a lasciarsi identificare come Simona Panzino. La seconda condizione posta da Prodi è una lista unitaria del centrosinistra che assicuri coerenza e coesione alla guida del governo.
Il Professore lancia la proposta del listone in un’intervista al Corriere della Sera, nel luglio del 2003. Il primo a rispondergli è D’Alema. Ed è un rilancio: non listone di tutti, ma partito dei riformisti, dentro “una casa socialista rinnovata” (il Pse, ovviamente). Un partito che metta quindi insieme le due principali forze del centrosinistra: i Ds e la Margherita (frutto a sua volta di ulteriori scomposizioni e ricomposizioni intervenute nel frattempo, di cui facciamo grazia al lettore). Le squadre cambiano dunque ancora una volta: prodiani e dalemiani a favore del partito dei riformisti, Veltroni gelido (in quella fase definisce più volte l’operazione una “fusione fredda”), Fassino e Rutelli, segretari dei morituri Ds e Margherita, comprensibilmente non entusiasti. Specialmente il secondo.
Per raggiungere l’obiettivo, non per niente, ci vorranno quasi cinque anni, e una quantità di congressi, assemblee, comitati unitari e movimenti divisivi da eccedere lo spazio di qualunque ricostruzione. Ad ogni modo, l’ultima mediazione si chiude con la scelta di presentare il simbolo della lista Ds-Margherita (embrione del futuro Pd) soltanto alla Camera, mentre al Senato i due partiti si presenteranno ciascuno con il suo simbolo.
A complicare ulteriormente le cose, la nuova interminabile coalizione di centrosinistra, umoristicamente battezzata Unione, decide di presentarsi agli elettori con un programma di 281 pagine. Un’elefantiasi che comunque non le impedisce di vincere le elezioni, sia pure per un soffio, né di formare un esecutivo composto da ben 103 esponenti tra ministri e sottosegretari.
Uomo di convinzioni incrollabili, recentemente Romano Prodi è tornato a rivendicare anche quelle scelte, dichiarando che è meglio un programma di 281 pagine che un tweet. E su questo è difficile dargli torto. Va anche detto che per diffondere su Twitter i 606.236 caratteri del programma dell’Unione, di tweet ne sarebbero serviti quattromilatrecentotrenta.
Il problema principale resta però non tanto il programma sulla carta, quanto quello realizzato al governo. Un governo che appare ogni giorno di più ostaggio delle sue componenti meno rappresentative e più rissose, e che vede i ministri della sinistra radicale sfilare in piazza contro l’esecutivo di cui fanno parte. Per salvare la situazione, si decide di rompere gli indugi, procedendo alla solenne fondazione del Pd attraverso nuove primarie. Non prima, però, che il novanta per cento del gruppo dirigente, come già con Prodi, si sia pubblicamente schierato per il vincitore designato: Walter Veltroni.
Il nuovo leader viene incoronato dai gazebo il 14 ottobre 2007. Stanco di coniugare radicalità e riformismo, il neosegretario decide però che è venuto il momento di lasciare la sinistra radicale al suo destino, e anche i centristi di Mastella. Annuncia che alle elezioni (a cui, teoricamente, mancherebbero quasi quattro anni) il Pd si presenterà da solo. Le squadre cambiano di nuovo.
Questa volta, a difendere l’importanza della coalizione, ci sono Prodi e D’Alema, che dal 2006 occupano le cariche di premier e vicepremier; mentre a rivendicare il primato del partito è Veltroni, e con lui praticamente l’intero spettro dei giornali e degli intellettuali progressisti, convinti che l’unico modo per salvare il futuro della sinistra sia porre fine a un governo che comunque minaccia di cadere da un momento all’altro (a Palazzo Madama si regge grazie al voto dei senatori a vita), ostaggio di una coalizione rissosa, ingovernabile e spesso pure irritante. Tanto da far considerare preferibile l’ipotesi veltroniana di presentare il Pd da solo piuttosto che in coalizione (alla fine si alleerà con il solo Di Pietro, ma è il pensiero che conta), pur in presenza di una legge elettorale che assegna il premio alle coalizioni, consegnando di fatto la vittoria al centrodestra. Che infatti, quando nel 2008 si va a elezioni anticipate, in seguito alla crisi innescata dall’uscita di Mastella, stravince un’altra volta.
Nel giro di un anno appena, oltre alle politiche, il Pd perde tutte le successive tornate amministrative e regionali. Nel febbraio 2009 Veltroni dà dunque le dimissioni, dichiarando amareggiato, e non senza buone ragioni, che il Pd non era nato come un “partito-Vinavil”, capace di “tenere incollata qualsiasi cosa” (come si vede, nel centrosinistra persino le metafore sono sempre le stesse), ma con l’obiettivo di “far diventare il riformismo maggioranza nel paese”. E così, dopo un breve interregno del vicesegretario Dario Franceschini, un nuovo congresso elegge Pier Luigi Bersani al grido: “Basta con l’autosufficienza”. Si torna alle coalizioni.
Poiché però la sinistra radicale è passata nel frattempo dal 12 per cento al 3, scomparendo dal Parlamento, quel che concretamente si ricostruisce è una minicoalizione con Sel, il Psi di Enrico Boselli e i centristi di Bruno Tabacci (dei quali lo scrupoloso cronista, per la verità, avrebbe qualche difficoltà a elencare i nomi, a parte Tabacci medesimo). Bersani riconvoca dunque i gazebo per la guida della suddetta minicoalizione, vince le primarie contro Renzi ma non vince le successive elezioni.
Nel caos che ne segue – siamo ormai nel 2013 – si aprono le votazioni per il presidente della Repubblica. E qui si passa al tutti contro tutti. In campo ci sono le candidature di Marini, Prodi e D’Alema. Come nella migliore tradizione, nel segreto dell’urna, ciascuno affosserà l’altro (alla candidatura di D’Alema non si arriva nemmeno, perché dopo i 101 franchi tiratori contro Prodi il gruppo parlamentare del Pd è ormai chiaramente fuori controllo e s’impone una soluzione bipartisan, cioè la riconferma di Giorgio Napolitano).
La guida del Pd passa dunque a Renzi, ragion per cui Bersani e D’Alema, dopo avergli fatto la guerra senza successo dentro il partito per quasi tre anni (senza peraltro smettere di combattersi tra loro, meno apertamente ma non meno accanitamente), promuovono una scissione e riportano l’intero dibattito esattamente alla casella di partenza.
E cioè proprio lì dove oggi li aspetta, sorridente e fiducioso, il mite Giuliano Pisapia. Convinto assertore dell’assoluta necessità di un nuovo partito-movimento unitario della sinistra, che nasca a sua volta dall’aggregazione dei tanti partiti e movimenti germogliati nel frattempo a sinistra dei democratici, tassello indispensabile per la ricostruzione di una grande coalizione di centrosinistra che rinverdisca finalmente i fasti di quella storica, indimenticabile, insuperabile stagione di concordia e unità – la prima volta della sinistra al governo del paese! – rimasta da allora e per sempre nel cuore inconsolabile dell’intero elettorato progressista.
Auguri.
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