Mafia capitale è una fiction

Massimo Bordin

Può bastare un Carminati per certificare che la Capitale d’Italia è la nuova Corleone? Tra accuse che cadono, prove che sfumano e rischio flop, il processo del secolo è diventato solo un film alla Pulp Fiction. Contro inchiesta del Foglio

Si è concluso oggi il processo di primo di grado del cosiddetto processo Mafia Capitale. Buzzi e Carminati sono stati condannati a 19 e 20 anni, la procura aveva chiesto per i due "capi" dell'organizzazione 26 e 28 anni. E' caduta l'accusa di associazione mafiosa. Riproponiamo la contro inchiesta che Massimo Bordin aveva realizzato il 22 maggio 2017.

 


 

 

Il processo “Mafia Capitale” è giunto nella sua fase finale. La pubblica accusa ha tirato le somme, dal suo punto di vista, del dibattimento svoltosi nell’aula bunker del carcere di Rebibbia e sono state somme pesanti in anni di carcere richiesti soprattutto per gli imputati gravati dall’imputazione di associazione a delinquere di stampo mafioso, reato che nel com - puto della pena richiesta ha un ruolo preponderante rispetto agli altri, numerosi, capi di accusa. Sarà dunque l’articolo 416 bis, inserito nel codice penale nel 1982 con una pena massima che nel corso degli anni è stata più che raddoppiata, la pietra angolare in base alla quale la sentenza del tribunale sarà commentata. Del resto, a imporlo è il titolo stesso con il quale il processo è ormai passato alla storia giudiziaria, attraverso una campagna mediatica tutta centrata sull’impatto della parola mafia in relazione alla vita politica della capitale. Può apparire sorprendente dunque che il procuratore capo Giuseppe Pignatone abbia dichiarato in una recente intervista-forum su Repubblica, dedicata alla strategia antimafia complessivamente intesa, che “l’esperienza giudiziaria di questi anni dimostra che a Roma esiste una questione mafia, ma che, come abbiamo sempre detto, non è il più grave dei suoi problemi”.

 

Difficile non considerare una affermazione del genere come una pietra tombale sull’enfasi giornalistica, e populisticamente politica, che ha accompagnato l’intera inchiesta ma è al contempo irragionevole pensare che la procura romana abbia inteso, proprio nel momento in cui sta prendendo la parola la difesa, svalutare la propria indagine. Dire “non è il più grave dei problemi”, di per sé non derubrica il processo in “un processetto” – come lo aveva polemicamente definito all’inizio del dibattimento l’avvocato Bruno Giosuè Naso, difensore del principale imputato Massimo Carminati – piuttosto sembra volerne circostanziare l’oggetto, utilizzando una sorta di minimalismo che in realtà contiene una notevole ambizione. Non sarà il più grave, ma certo un qualche problema c’è stato, e non piccolo, se due amministrazioni comunali, di opposto segno politico, sono accusate di essere state infestate da un’organizzazione mafiosa che ne determinava, a suo vantaggio, le scelte in alcuni fra i più importanti capitoli di spesa. Solo in alcuni però, perché l’organizza - zione mafiosa sembra essere stata presente nel settore delle politiche sociali per l’immigrazio - ne e nella gestione dei rifiuti ma assente da altri potenzialmente lucrosi settori come la politica edilizia o quella energetica. Per di più era concentrata, secondo l’ipotesi dell’accusa, solo sul comune, appena lambendo, a quel che risulta senza successo, le assai più munite finanze gestite dalla giunta regionale.

 

In parole povere, pur in un quadro di evidente corruzione, il comune di Roma esce dall’in - chiesta lontano dai fasti criminali di Palermo all’epoca di Lima e Ciancimino e anche l’orga - nizzazione mafiosa, divisa per bande, che secondo la stampa pervade l’intera città, nel processo non è nemmeno citata. Ci si limita a uno spicchio di Roma nord compreso fra corso Francia e via di Vigna Stelluti, con brevi escursioni nella borgata di Casalotti e nel vicino comune di Sacrofano. Completano il quadro del radicamento territoriale un paio di pestaggi isolati, uno davanti al bar più chic dei Parioli, l’altro nel quartiere Prati.

 

Questo è il quadro che, sostanzialmente, esce dal processo ed è stato magistralmente sintetizzato, secondo i rispettivi punti di vista, sia dal pubblico ministero Giuseppe Cascini, quando nella requisitoria ha descritto il percorso della organizzazione criminale “dai pollici spezzati dietro a un distributore al sindaco della città”, sia dal principale accusato, Carminati, quando ha risposto al suo difensore: “Io credevo che mi intercettassero per altre storie, per Finmeccanica. Chi ci pensava che questi s’erano inventati la mafia del benzinaro?”.

 

Se l’evocazione della mafia è centrale, sia per la suggestione contenuta nella presentazione giornalistica del processo sia per la pesantezza del capo di imputazione contestato a un gruppo di imputati, lo svolgimento del processo, e la requisitoria hanno ulteriormente chiarito come la procura intenda fondare la sua tesi per qualificare il percorso descritto nella frase di Paolo Ielo appena citata. In estrema sintesi tutto si fonda su tre parole: “Riserva di violenza”. C’è naturalmente un aspetto giuridico, ma prima occorre considerare che l’espressione “ri - serva di violenza”, in questo processo, ha una sua ipostasi, si incarna nel principale imputato, Massimo Carminati. Tutto comincia da lui e su di lui si regge tutto il peso dell’imputazione di mafia che poi avvolge altri imputati. E’ forse utile vedere dunque, a dibattimento concluso e nel momento in cui si tirano le somme, come la storia sia iniziata.

 

Occorre partire da una sera dell’estate 2009 a Roma nord – e dove se no? – a viale Tor di Quinto, vicino a piazza Euclide, tradizionale luogo di appuntamento dei giovani romani di estrema destra, dove nel corso di un controllo di routine i carabinieri fermano tre uomini e una donna. Dai documenti, due di loro risultano ex appartenenti ai Nar con precedenti per rapina. I documenti comunque sono in regola e i quattro vengono lasciati andare.

 

I carabinieri però si insospettiscono quando, mesi dopo, una filiale Unicredit dove lavorava come cassiera la donna identificata con i due ex Nar viene rapinata, e a metà giugno 2010 inviano una nota alla procura in cui ipotizzano un tentativo di ricostruzione di un gruppo di estrema destra autofinanziato con le rapine. Elencano una serie di nomi conosciuti come estremisti fascisti con precedenti per rapina. Nell’elenco c’è Carminati che sta finendo di scontare la pena, in affidamento fuori dal carcere, per il furto al caveau della banca del tribunale romano. La procura affida l’indagine a un reparto del Ros e apre un fascicolo dove si dispongono intercettazioni telefoniche per alcuni citati nell’elenco, ma non per Carminati del quale ci si limita ad acquisire i tabulati telefonici. Torneranno comunque utili. A marzo 2011 il Ros dà conto alla procura che l’ipotesi del gruppo di destra che si riorganizzava per fare rapine non aveva trovato alcun riscontro e a settembre lo ribadisce in un nuovo rapporto nel quale però di fatto propone di mantenere aperta l’indagine sul solo Carminati su una nuova ipotesi di reato. I carabinieri parlano nel rapporto di una loro fonte anonima, un confidente in parole povere, che gli ha raccontato di una organizzazione dedita al riciclaggio e guidata appunto da Carminati, in relazione con due persone, una delle quali è Maurizio Iannilli, implicate in indagini per tangenti relative a Fastweb e ad alcune società partecipate di Finmeccanica.

 

I tre personaggi sono seguiti dal Ros con diversa attenzione, a quanto si capisce dalle informative inviate alla procura. A essere “osservati”, cioè pedinati, sono solo Carminati e Iannilli e solo per Carminati si chiede che sia sottoposto a intercettazione telefonica. L’oggetto principale dell’indagine sta nella provenienza del denaro fatto girare dai tre. In particolare insospettisce i carabinieri il fatto che la villa di Sacrofano di proprietà di Iannilli risulti abitata in realtà da Carminati, ormai libero anche dall’affida - mento, che risulta in possesso di un regolare contratto d’affitto. In sostanza nel periodo che va dalla seconda metà del 2009 all’ottobre 2011 c’è un filo che collega due diverse ipotesi di indagine del Ros, la prima su rapine in banca e terrorismo nero e la seconda su riciclaggio di denaro di provenienza illecita. Il filo, abbastanza esile, è Massimo Carminati. Sembra, ed è abbastanza verosimile, che i carabinieri vogliano capire cosa sta combinando, una volta uscito dal carcere, l’uomo del misterioso furto al caveau del tribunale.

 

Il ruolo della procura, il cui vertice è in quel momento in una delicata fase di transizione, in tutto questo periodo è sostanzialmente passivo. Del resto il materiale investigativo è ancora molto grezzo, anche se a ben vedere il secondo filone d’indagine, più di quello parecchio aleatorio della ricostituzione di un gruppo di rapinatori politici, vede comparire nelle inchieste che allora erano le principali per la procura, quella su Fastweb e quella su Finmeccanica, personaggi, come Gennaro Mokbel, che in qualche modo potrebbero essere messi in relazione proprio con Carminati. Quel filone di indagine resterà inesplorato, eppure, come abbiamo già visto, proprio Carminati ha detto in aula di aver attribuito le attenzioni dei carabinieri all’inchiesta su Finmeccanica piuttosto che a quello che gli viene contestato nel processo. Del resto ad averlo affermato esplicitamente ancora prima di lui era stato, sempre in aula, il suo principale coimputato, Salvatore Buzzi, che aveva raccontato come Carminati gli avesse espresso i propri timori su quelle indagini, aggiungendo che gli aveva anche detto di avere svolto un ruolo come distributore per conto terzi di tangenti nel giro di Finmeccanica, immediatamente smentito da Carminati su quest’ultimo punto. Sta di fatto che nell’ultima parte del 2011 i carabinieri cominciano a seguire e osservare Carminati h24, come dicono loro. Si fissano così i luoghi dove si svolgono i principali fatti dell’indagine, soprattutto la stazione di servizio di corso Francia ormai famosissima.

 

Il distributore è il palcoscenico dell’inchiesta. Carminati lo frequenta quotidianamente insieme al suo amico Riccardo Brugia, altro reduce della lotta armata nera divenuto poi uno dei più bravi rapinatori di banche di tutta Roma, come lo definisce Carminati in una intercettazione.

 

Nel distributore girano soldi, non solo per la benzina e il cambio olio e gomme. Il gestore accetta di cambiare assegni e non si formalizza se sono postdatati. In cambio chiede interessi – sui quali il tribunale dovrà pronunciarsi – non proprio equi e solidali. In caso di ritardo nei pagamenti interviene il giovanotto che i giornali hanno ribattezzato “spezzapolli - ci”, anche se lui sostiene di avere un soprannome meno truce. Si tratta di tutti gli episodi con i personaggi già citati, nei quali Carminati non sempre ha un ruolo attivo ma si limita a dare pareri e consigli. Anche su questi fatti deciderà il tribunale e certo l’atteggiamento in aula delle parti lese, la loro reticenza evidente, facilmente spiegabile con la paura, non aiuta la difesa. Qualche atto violento effettivamente si verifica, per di più sotto gli occhi dei carabinieri. C’è la vicenda citata dal pm Giuseppe Cascini nella requisitoria dei “pollici spezzati dietro il distributore”. Si tratta di un debitore che ha tirato un po’ troppo la corda. “Vallo a mena’ dietro al barshop, che qua pò esse che quelli ce fotografano”, suggerisce Carminati che ha capito come il controllo del Ros su di lui si sia fatto più stretto, ma in questo caso lo sottovaluta. Agli atti non ci sono foto ma un filmato, col sonoro che permette qui di usare le virgolette. Al momento di questo episodio, che riguarda uno dei pochi atti di violenza nel fascicolo processuale, e gli altri sono simili, il distributore è già diventato come un set cinematografico. Ma questa storia avviene un po’ più avanti nel tempo e il suo racconto è servito a dare un’idea sulla caratura criminale non eccelsa del sodalizio del distributore.

 

Torniamo al settembre 2011, quando il Ros ottiene dalla procura una delega all’indagine su Carminati con mezzi incisivi. Proprio a settembre c’è un incontro che la pubblica accusa ritiene decisivo per la sua tesi. Avviene all’Eur, ex quartiere residenziale ai cui servizi provvede un ente ad hoc partecipato dal comune. Nel 2011 sindaco di Roma era da tre anni Gianni Alemanno: originariamente, anch’egli viene imputato tre anni dopo di 416 bis, ma nell’in - verno dell’anno scorso l’imputazione è stata fatta cadere dal gip, che pure lo ha rinviato a giudizio per finanziamento illecito e corruzione, per cui l’ex sindaco ora si trova a essere giudicato in un processo stralcio.

 

Alemanno, come si intuisce dall’imputazione originariamente proposta dai pm, è una figura molto importante nell’impianto accusatorio rispetto alla questione dell’associazione mafiosa. E’ lui come sindaco a mettere alla testa dell’Ente Eur Riccardo Mancini, che da giovane era stato un militante del gruppo extraparlamentare di destra Terza Posizione ed era stato in carcere con Carminati. Con Mancini, Alemanno “piazza” un altro camerata di quell’ambiente, Carlo Pucci, che pure Carminati conosce benissimo dagli anni Settanta. Si incontrano a settembre 2011 al bar Palombini, a cento metri dalla sede dell’ente e seduto con loro c’è quello che sarà l’altro principale imputato del processo, Salvatore Buzzi. Politicamente sono male assortiti. Buzzi, capo della più grande cooperativa sociale del Lazio, è comunista di formazione e ora se la fa col Pd, gli altri sono fascisti. Ma tutti hanno una cosa in comune: sono stati in carcere. Carminati viene praticamente imposto a Buzzi come socio alla pari per avere un appalto di manutenzione del verde. Non metterà un euro, ma a Buzzi va bene così. Per la procura sarà quello il momento in cui l’organizzazione fa il salto di qualità.

 

Passano alcuni mesi e i carabinieri del Ros hanno una larga messe di intercettazioni. Carminati si divide fra il distributore e i nuovi contatti che lo portano a occuparsi degli affari della cooperativa di Buzzi. Si accorgono che comunica con Buzzi, Mancini, Pucci e Testa, segretario del consigliere regionale Luca Gramazio, con telefonini che quelli usano solo per parlare con lui che glieli ha forniti. Parlano di gare d’ap - palto e di delibere comunali ed esce fuori uno spaccato molto vivido della vita politico-amministrativa del comune di Roma ai tempi di Alemanno, ma probabilmente anche prima edopo.

 

La parte relativa alle tangenti è forse quella meno controversa del processo. Buzzi nei suoi interrogatori le ha francamente ammesse, così come i finanziamenti tracciabili, dunque legali fino a prova contraria, e quelli in nero, tutti oggetto di giudizio. La coop 29 Giugno non si limitava a foraggiare quelli del Pd, e anche di Sel, con assunzioni e cene elettorali, ma pagava un po’ tutti, anche gli amici del sindaco. Il 2012 è comunque l’anno decisivo per il processo. Succedono due cose che non possono non essere messe in relazione. La prima riguarda la procura di Roma, che a marzo finalmente ha un nuovo procuratore capo. Arriva da Palermo, via Reggio Calabria, dove alla guida della procura ha messo a segno diverse operazioni importanti scatenando qualche polemica: Giuseppe Pignatone è un magistrato che tutti ritengono molto competente ma che non tutti amano. E’ particolarmente inviso al gruppo di magistrati palermitani che hanno all’epoca come punto di riferimento Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato. Non gli perdonano di avere sostenuto l’allora procuratore Pietro Grasso nella gestione del caso Cuffaro. Si chiedeva a gran voce una incriminazione per concorso esterno nei confronti dell’allora governatore ancora in carica, per ottenere il massimo effetto politico possibile. Grasso e Pignatone sostennero l’imputazione di favoreggiamento con aggravante mafiosa, avendo a cuore più il risultato del processo che l’effetto politico dell’imputazione. La sentenza dette loro ragione. Il precedente va tenuto ben presente rispetto a quello che poi è successo a Roma con Mafia Capitale.

 

A settembre 2012, un anno dopo la nota del Ros alla procura che muta l’angolazione investigativa su Carminati, e sei mesi dopo l’arrivo di Pignatone in procura, vagliate le intercettazioni telefoniche, si decide di aumentare la pressione su Carminati. Alle intercettazioni telefoniche si aggiungono quelle ambientali. Si piazzano microspie nella stazione di servizio e nel bar vicino, in via di Vigna Stelluti, si piazza anche una microspia nella macchina che usa, oltre a un gps per seguirne i movimenti, e le fotografie sono sostituite dai filmati. Il raccolto è massiccio. A fine anno c’è la svolta. Tre intercettazioni la caratterizzano, almeno secondo gli inquirenti. Una ambientale al bar nel dicembre 2012. Carminati parla con Fabrizio Testa da un telefono pubblico, poi spiega a Brugia e a un altro che sta con loro la faccenda dei telefonini che fa usare solo per parlare con lui. Dice che bisogna cambiare metodo. Poi c’è un’intercettazione ambientale al bar di via di Vigna Stelluti in cui Carminati espone a Brugia e a un imprenditore, il quale poi sarà accusato di estorsione, la ormai famosa teoria del “mondo di mezzo”. Infine c’è una terza intercettazione ambientale, questa volta nella macchina di Carminati, in cui parlando con un imprenditore che poi sarà anche lui imputato gli espone il suo nuovo metodo. Gli parla di Salvatore Buzzi, Fabrizio Testa e Carlo Pucci. Li definisce “una bella squadra”. Siamo nel gennaio 2013.

 

Sulla base di queste tre intercettazioni, a metà febbraio il Ros invia una nota in procura nella quale rinnova le richieste di intercettazione, stavolta ai sensi dell’articolo 416 bis. E’ il momento in cui l’indagine cambia nome da “Catena 2” – “Catena”era quella nata dal controllo documenti dei due ex Nar e della cassiera di banca – a “Mondo di mezzo”. Tre inchieste, condotte dagli stessi investigatori con continuità, nelle quali cambiano via via l’oggetto dell’indagine e tutti i protagonisti. Tranne uno, Massimo Carminati.

 

Quello che succede dopo, fino al dicembre 2014 con l’arresto di Carminati, ripreso dalla tv con la regia dei carabinieri, e il nuovo nome dell’inchiesta che solo allora diventa “Mafia Capitale”, per il problema che qui si vuole affrontare, è relativamente interessante. L’inchiesta dipana un reticolo di gare truccate, di sovvenzioni dubbie e di autentiche corruzioni. Quando a giugno 2013 ad Alemanno subentra Ignazio Marino, tutto sommato poco cambia. C’è l’ingresso in Consiglio di un Radicale, Riccardo Magi, contro cui Buzzi inveisce nelle intercettazioni con i suoi e poi ci sono i 5 stelle che sparano nel mucchio. La giunta Marino probabilmente sarebbe caduta anche senza quegli arresti. E’ semmai politicamente rilevante che il procuratore Pignatone, proprio alla vigilia degli arresti, partecipi come ospite a una conferenza del Pd romano praticamente preannunciando l’operazione. La scelta di Pignatone di parlare da quel palco, mentre le volanti sono già in fila in garage per andare a prendere esponenti anche del partito a cui si sta rivolgendo, può essere interpretata in vari modi, nessuno dei quali però coincide con l’immagine che lo aveva preceduto a Roma. Comunque da allora, da quando l’inchiesta cambia nome per la quarta volta, non si è fatto che discutere sul senso dell’imputazio - ne di associazione a delinquere di stampo mafioso a quell’aggregato di imputati. La procura naturalmente è molto decisa sulla sua scelta processuale e la stessa intervista a Repubblica del procuratore Pignatone, e del suo aggiunto con delega alla direzione distrettuale antimafia Michele Prestipino, lo conferma. Ancor più vigorosamente lo ha ribadito del resto l’altro procuratore aggiunto Paolo Ielo nell’aula bunker di Rebibbia nella sua premessa alla requisitoria, poi svolta insieme ai due sostituti Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli.

 

Sia detto fra parentesi, la scelta di far seguire il dibattimento all’aggiunto con delega ai reati finanziari piuttosto che a quello con delega all’antimafia, che è uscito di scena con la conferenza stampa successiva agli arresti, forse è un indizio del modo innovativo col quale la procura intende applicare l’articolo 416 bis. Ielo in ogni caso è stato molto deciso di fronte al tribunale. “Il preteso sgonfiarsi dell’azione giudiziaria è una pura fandonia!”, sono state le sue prime parole, per poi proseguire: “Gli imputati di 416 bis sono quasi tutti qui. Non si è sgonfiato il resto di niente!”. Notevole, come impatto oratorio, scalfito però da quel “quasi”che finisce comunque per indicare che almeno qualche resto c’è. La caduta dell’imputazione per l’ex sindaco Alemanno, per esempio, non è proprio un dettaglio marginale per l’impianto accusatorio in tema di mafia così come non sono secondari altri dettagli. Negli ultimi mesi la Corte d’appello di Roma ha ridotto le pene per quattro persone condannate per corruzione nell’ambito del processo di Mafia Capitale. Tra queste, anche Emilio Gammuto, collaboratore di Salvatore Buzzi, considerato uno dei capi dell’or - ganizzazione mafiosa, per il quale la Corte d’appello ha escluso l’aggravante mafiosa. A Ostia, la terra dei nuovi padrini, lo scorso settembre la Corte d’appello ha detto che la mafia non esiste e nella sentenza di secondo grado contro il clan Fasciani i giudici hanno trasformato l’associazione mafiosa in semplice associazione a delinquere, riducendo la durata di molte delle condanne inflitte, evidenziando la mancanza di una prova che potesse certificare la presenza della “pervasività mafiosa”nella Corleone di Roma (ricordando che nel caso specifico non è provato “il diffuso clima d’intimidazione proprio del metodo mafioso”, che le dichiarazioni del principale pentito del processo sono fragili e “non possono ritenersi riscontrate nel presente procedimento”e che anche se vi sono stati, a Ostia, “singoli atti intimidatori, posti in essere nei confronti di singoli soggetti”, ma restano dei singoli atti –usura, estorsione, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione e porto di armi, acquisizione di attività economiche in modo occulto – bisogna dire che “l’atteggiamento tenuto dai test escussi nel corso del dibattimento di primo grado non può essere ricondotto in modo univoco a strategie intimidatorie o comunque a uno stato diffuso di soggezione”). Ci sono questi e molti altri dettagli ma mettiamoli per un attimo da parte e vediamo l’aspetto principale che riguarda il merito della imputazione di 416 bis in questo processo. Se la figura di Carminati è il filo conduttore perché incarna la “riserva di violenza” necessa - ria al sostanziarsi del reato, pur definendolo un personaggio-cerniera, come è stato fatto nella requisitoria, da solo non basterebbe. Occorre, per i pm, che Carminati possa svolgere il suo ruolo di uomo cerniera fra mondi diversi, la sua fama terribile è certo importante, e vedremo fra poco in che modo dal punto di vista dei pubblici ministeri, ma deve interagire con altre realtà diverse, altrimenti resta davvero solo la “mafia del benzinaio” beffardamente definita in aula dal principale imputato.

 

Nella parte in cui hanno esaminato la questione dal punto di vista del diritto i pm sono arrivati per la verità a cautelarsi fino a questa ipotesi estrema. Da parte loro è stato ricordato come un certo numero di sentenze della Cassazione abbia tenuto a chiarire che l’articolo 416 bis può essere applicato anche a piccoli aggregati criminali, capaci di assoggettare un ambiente anche ristretto con una forza intimidatoria che può fare a meno dell’uso delle armi ma limitarsi a minacciarlo. La credibilità della minaccia per chi la subisce sostanzia la forza di intimidazione tipica della mafia. Anche il numero degli aderenti al sodalizio non necessariamente impedisce la qualificazione del reato di mafia. L’accusa ha ricordato al tribunale che per definire il reato associativo il codice si accontenta in fondo di sole tre persone. Alcune sentenze della Cassazione parlano di “piccole mafie” non necessariamente collegate alle grandi e storiche organizzazioni di quel tipo, basta che ne ripropongano il modo di operare sia pure in ambiti ristretti. Più volte, citando sentenze sul reato di associazione mafiosa, l’accusa, nel corso della requisitoria, ha usato l’espressione “soglia minima” riferendosi al suo sicuro raggiungimento per la contestazione a un certo numero di imputati del capo d’accusa più grave. Non c’è dubbio però che per una intestazione così impegnativa come Mafia Capitale, un ragionamento del genere non può bastare. La procura se ne è resa perfettamente conto perché ha inserito due altri temi, oltre la “soglia minima”, per giustificare l’impatto politicomediatico del processo. Da un lato il collegamento di ambiti diversi grazie al quale l’organizzazione processata compie il salto di qualità. Nel corso dell’in - chiesta, come abbiamo visto, viene molto valorizzato il cosiddetto mondo di mezzo evocato da Carminati in una strapubblicata intercettazione ambientale che i carabinieri sentiti come testimoni chiamavano, un po’ enfaticamente “il documento programmatico”.

 

Nella parte in cui hanno esaminato la questione dal punto di vista del diritto i pm sono arrivati per la verità a cautelarsi fino a questa ipotesi estrema. Da parte loro è stato ricordato come un certo numero di sentenze della Cassazione abbia tenuto a chiarire che l’articolo 416 bis può essere applicato anche a piccoli aggregati criminali, capaci di assoggettare un ambiente anche ristretto con una forza intimidatoria che può fare a meno dell’uso delle armi ma limitarsi a minacciarlo. La credibilità della minaccia per chi la subisce sostanzia la forza di intimidazione tipica della mafia. Anche il numero degli aderenti al sodalizio non necessariamente impedisce la qualificazione del reato di mafia. L’accusa ha ricordato al tribunale che per definire il reato associativo il codice si accontenta in fondo di sole tre persone. Alcune sentenze della Cassazione parlano di “piccole mafie” non necessariamente collegate alle grandi e storiche organizzazioni di quel tipo, basta che ne ripropongano il modo di operare sia pure in ambiti ristretti. Più volte, citando sentenze sul reato di associazione mafiosa, l’accusa, nel corso della requisitoria, ha usato l’espressione “soglia minima” riferendosi al suo sicuro raggiungimento per la contestazione a un certo numero di imputati del capo d’accusa più grave. Non c’è dubbio però che per una intestazione così impegnativa come Mafia Capitale, un ragionamento del genere non può bastare. La procura se ne è resa perfettamente conto perché ha inserito due altri temi, oltre la “soglia minima”, per giustificare l’impatto politicomediatico del processo. Da un lato il collegamento di ambiti diversi grazie al quale l’organizzazione processata compie il salto di qualità. Nel corso dell’in - chiesta, come abbiamo visto, viene molto valorizzato il cosiddetto mondo di mezzo evocato da Carminati in una strapubblicata intercettazione ambientale che i carabinieri sentiti come testimoni chiamavano, un po’ enfaticamente “il documento programmatico”.

 

In un processo dove alla fine, chiamati a deporre davanti al tribunale sono gli stessi carabinieri, e perfino il dottore Cantone, a dire che nelle gare d’appal - to hanno trovato molti imbrogli ma nessuna intimidazione, il rovesciamento del circo mediatico come utilità degli imputati e non degli inquirenti è, da parte della procura un azzardo non privo di raffinatezza. Basterà a fare di Roma la nuova Palermo?

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