La dittatura del commento

Andrea Minuz

Il populismo spiegato con TripAdvisor. Come e perché l’odio per le élite ha prodotto una società capovolta di recensori universali, in cui il giudizio di chiunque vale quanto quello degli esperti

Nelle imprese digitali è sempre difficile prevedere cosa diventerà la tua invenzione. Per la maggior parte di noi, TripAdvisor è quel sito dove si trovano informazioni e recensioni di ristoranti, hotel, bed & breakfast, fornite direttamente dagli utenti. Una specie di “democrazia diretta” applicata al turismo e un raffinato strumento di marketing per le strutture ricettive (ovvero, gli stessi pilastri su cui si regge il blog di Grillo: retorica dell’informazione “senza filtri” e pubblicità). Nata nel lontano febbraio del Duemila, l’impresa di Stephen Kaufer si fonda su un’intuizione ormai leggendaria che incarna a suo modo il trionfo della pulsione populista sul mondo degli “esperti”. “Volevo organizzare un viaggio in Messico”, racconta Kaufer, “ma non credevo alla brochure con le foto dell’agenzia di viaggi, avrei invece voluto parlare con la gente reale che era stata sul posto e aveva vissuto quell’esperienza”. Un mito di fondazione molto democratico, molto Silicon Valley, un po’ “Quarto Stato” di Volpedo che avanza alle porte delle agenzie turistiche. Vogliamo la gente, non le brochure.

 

Un giro di affari
da 400 milioni di dollari, e in più una gigantesca riscrittura solipsistico-esperienziale
della cultura

Oggi TripAdvisor è un filtro imprescindibile delle nostre prenotazioni di viaggi, ristoranti, gite. Se siamo indecisi, andiamo sul sito e sentiamo cosa dice “la gente” (in politica preferiamo gli esperti, sui ristoranti ci fidiamo della democrazia diretta, fosse anche una chat su WhatsApp). TripAdvisor gestisce un giro d’affari da quattrocento milioni di dollari, raccoglie oltre trecentocinquanta milioni di recensioni in varie lingue e incide su un’ampia percentuale del turismo mondiale con una mole impressionante di dati, opinioni, scelte, trend, gusti che ovviamente fanno gola al settore. Una rivoluzione copernicana al cui confronto l’e-book e la chiusura delle librerie sono un trascurabile assestamento dell’invenzione di Gutenberg. Esiste però un altro TripAdvisor. Un TripAdvisor che non si arresta ai campeggi, alle pizzerie, alle stazioni termali, ai villaggi delle Maldive e sconfina invece in una gigantesca opera di riscrittura solipsistico-esperienziale della cultura. Forse a pochi di voi verrebbe in mente di leggere il punteggio che “la gente” assegna al “Giudizio universale”, al circolo di Stonehenge o a “Las Meninas” prima di recarsi ai Musei Vaticani, nel Wiltshire o al Prado. Eppure TripAdvisor è anche questo. Un atlante anonimo che funziona secondo la logica di un “albergo diffuso”. Un vasto, interminabile e incazzoso pamphlet scritto “dal basso”, con piglio rousseauiano, quindi sospettoso di ogni istituzione culturale, che meglio di qualsiasi progetto politico porta in superficie la diffusa insofferenza verso le élite e la sua definitiva, naturale, introiezione nel sentire comune. Recensioni (e stroncature) della Cappella Sistina, dei tesori del Louvre, del MoMa, della Tate, della Biennale, delle opere di Leonardo, Van Gogh, Michelangelo, Adolf Loos e Mies Van De Rohe; ma anche del mostro di Lochness, delle cascate del Niagara, della piramide di Cheope, di Auschwitz, della Sagrada Família, della Fondazione Feltrinelli, delle grotte di Lascaux e dei trulli di Alberobello. Lo studio sistematico di questi testi potrebbe dare un piccolo, ma significativo contributo alla comprensione di principi, logiche e prassi di ciò che in mancanza di meglio continuiamo a chiamare populismo. E’ una miniera d’oro per i posteri quando saranno alle prese con questo passaggio storico dell’occidente. Le centinaia di milioni di recensioni presenti sul sito si offrono come un inesauribile thesaurus della “disintermediazione”, parola un tempo appannaggio del lessico bancario, poi sconfinata nel dibattito pubblico come incarnazione dello “Zeitgeist”. La morte e trasfigurazione dell’“expertise” scalzata dall’“esperienza”. Addio corpi intermedi, benvenuta anarchia dell’opinione.

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La morte e trasfigurazione dell'"expertise" scalzata dall'"esperienza".
La Fontana di Trevi "meglio in una piazza più grande"

I viaggiatori sono travolti da sentimenti contrastanti, gioie improvvise, delusioni, disappunti e nuove, inedite sindromi di Stendhal. Quando va bene, ci si fida solo dell’audioguida (ma c’è sempre quella storia dei microchip sottocutanei, occhio). “Il Louvre è noioso, da usare al massimo come location per selfie d’autore, ma attenti alle file per la Gioconda”. “Emozionante camminare tra tutte quelle opere, ma sembra quasi un’accozzaglia di quadri buttati lì a caso!”. La Statua della Libertà è “bella ma non balla”, “ci vai perché ci devi andare”, “un po’ di suggestione te la dà, ma gli manca qualcosa”. I faraglioni di Capri “sono solo due grandi scogli che non ho capito perché si enfatizzano così tanto”; le grotte di Lascaux “sono in tutti i libri di storia, ma quelle che ti fanno vedere qui sono un fake, non veniteci!”; la Fontana di Trevi “non mi ha colpito davvero, penso che avrebbe reso meglio in una piazza più grande”. Ci penseremo. La Scala di Milano “l’avrei immaginato più particolare, invece è molto anonimo”; altri lo consigliano come “una pausa originale tra lo shopping e le passeggiate in centro”. 

“Trattasi di museo gratuito per tutti, dedito all’arte concettuale”, ci spiega una recensione della Tate Modern; “mi ero accinta a questa visita con la mente aperta, dispostissima a lasciarmi sorprendere, stupire, provocare, ma ho avuto solo la nausea, scommetto che era meglio quando era una centrale elettrica”. D’altronde, “tutti potremmo esporre lì” (e si capisce, espongono sempre i soliti raccomandati). C’è l’insofferenza autentica per i trucchi sempre più stanchi dell’arte contemporanea (con feroci stroncature ampiamente condivisibili); c’è la prosopopea “middlebrow” con tormentato spiegone intellettuale in cui si viaggia al di sopra delle proprie possibilità.

 

La passeggiata al Louvre risveglia sempiterni e indomabili rigurgiti nazionalisti per la Renaissance Italienne, secondi solo a quelli per i Marò: “Non sono d’accordo sul fatto che abbiano rubato così tante opere in giro per il mondo”; “il Louvre è immenso ma si sappia che è un’accozzaglia di tesori rubati da Napoleone e mai restituiti ai legittimi proprietari, cioè noi”. La recensione della Torre di Pisa diventa l’occasione per richiamare “l’assenza di politiche famigliari, perché ormai salgono solo gli stranieri e per noi italiani diciotto euro è un’emozione troppo cara” (arriva allora il consiglio a giocare d’astuzia: “Meglio vederla dal basso che salirci, ci si può fare la foto mentre si finge di tenerla”). Forse gli stessi che recensiscono la visita alla casa natale di Mussolini a Predappio come “un tuffo nel passato per ricordare le nostre radici e anche il Made in Italy”, tra Gucci e l’orbace. Ma anche: “Credo sia inutile cercare i grandi uomini nei loro luoghi natii, bisogna cercarli nelle loro opere”; “posto idoneo per i nostalgici di destra, ma anche per chi vuole fare un tuffo nella storia”. Quattro palline. Superbo, anzi imbattibile infine l’attaccamento “senza filtri” al Vittoriale degli italiani, con la prosa del Vate e quella di TripAdvisor ad amalgamarsi in un’unica, fiammeggiante vibrazione estatica: “Un luogo a mio parere sacro per noi Italiani, dove si assiste a un connubio autentico tra il sacro e il profano. Dove un uomo, un combattente, un poeta, un’artista, un’appassionato alla vita (tutte e due con l’apostrofo, che qui non guasta), ha lasciato in eredità all’Italia un patrimonio che consiste non solo in monumenti, opere d’arte, innumerevoli libri ma anche la sua mente, il suo cuore, il suo respiro, la sua anima e il suo corpo, collocato in un mausoleo la cui vista trasmette l’onnipotenza intellettuale del suo essere esistito”. Il resto è vano, il resto è nulla.

 

Insieme agli ordinati utilizzatori finali, si dispiega una flotta di storici dilettanti con teorie scomode, critici d'arte incompresi, escursionisti indignati, professoresse democratiche, pezzi
di società civile che
si spingono tutti
ai confini
della conoscenza
per approdare
su TripAdvisor    

“I post devono essere utili e pertinenti per i viaggiatori”, si legge nel regolamento di TripAdvisor. Ovvero, “non devono includere insulti personali, tentativi di screditare una struttura e opinioni personali di natura politica, etica, religiosa o inerenti ad altre questioni sociali”. Il sito ricorda agli utenti che “i viaggiatori cercano informazioni utili per pianificare i loro viaggi e non descrizioni di esperienze personali”. Però, insieme a questi ordinati utilizzatori finali, si dispiega davanti ai nostri occhi una flotta di emuli di Bruce Chatwin e Mark Twain, nostalgici del Grand Tour di Byron e Goethe, storici dilettanti con teorie scomode, critici d’arte incompresi, direttori di musei intrappolati nel corpo di un pizzicarolo, orbi veggenti, escursionisti indignati, professoresse democratiche con lo zaino sopra il golfino, pezzi di società civile, divoratori di “Focus” e “Voyager” che si spingono tutti ai confini della conoscenza per approdare su TripAdvisor, sfogare il proprio impulso critico, godere dell’agognata platea per raccontare, valutare, condividere. Fin qui non ci sarebbe niente di male. Siamo nell’epoca dei social. Ma quello che si trova tra le righe di queste recensioni a volte lunghissime, altre lapidarie, spesso con sintassi oscura, quasi sempre pretenziosissime oppure in linea col “primitivismo” dominate, racconta anche qualcosa di più. Qualcosa che ha a che fare con la scomparsa della distinzione tra fatti e opinioni, prima ancora che con l’“highbrow” e il “lowbrow”; con l’esibizionismo, col ribaltamento dello “spirito critico” negli abissi del narcisismo, con la dissoluzione del sapere, coi disastri della scuola, dell’università, con la dittatura dell’esperienza e l’autofiction. Per carità, non che ci sia da preoccuparsi troppo (vale sempre il detto di d’Alembert, “la barbarie dura secoli ed è il nostro elemento naturale, la ragione e il buon gusto passano in un batter d’occhio”). Solo che liquidare il punto di vista “dal basso” come il punto di vista dell’ignoranza dilagante preclude ogni possibile comprensione dei fenomeni in corso. Non siamo più ignoranti di prima. Semmai sta cambiando il nostro rapporto con l’ignoranza che nel frattempo si fa sempre più pretenziosa.

 

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Su TripAdvisor si porta molto lo sconforto seguito all’aspettativa magari altissima dell’incontro diretto con la storia, l’arte, la bellezza. La forza primigenia della natura, i resti di civiltà antichissime piacciono sempre più dell’opera dell’uomo occidentale corrotto dal progresso, dell’arte viziata dalla mercificazione del capitalismo (per cui si capisce il successo di Rousseau, filosofo e piattaforma). In lunghe dichiarazioni di principio, gli utenti specificano che non recensiscono le opere ma i musei (gestione, servizi, spazi, costi, personale, parcheggio, seguendo insomma la logica utilitaristica del sito). Poi però le cose degenerano. La tentazione è irresistibile. Dopo aver stroncato l’organizzazione del “Van Gogh Museum”, denunciato la logica delle file sospette “coi soliti avvantaggiati” (“ho la vaga impressione che il personale non sia imparziale”), dopo aver soppesato vantaggi e svantaggi della “Amsterdam City Card”, prima o poi si arriva al dunque: “A parte i girasoli, 15 autoritratti tutti uguali tra loro e una serie di tele di parenti vari che non valgono i 17 euro”; “si guarda Van Gogh come un grande, ma non è stato un caposcuola, troppo preso dalla sua follia, è stato fatto più grande di quanto fosse in realtà”. Non va meglio agli Scrovegni: “Decisamente troppo semplici e scolastici i ritratti di Giotto”. La Piramide di Cheope è invece “una cosa mai vista prima”. E’ “impressionante cosa possono costruire delle persone senza nessun macchinario, perché è tutta fatta a mano”. Ma la fregatura è dietro l’angolo anche nella preistoria: “4 pietre messe una sopra l'altra”, ci informa una recensione del circolo di Stonehenge. “Nessuna atmosfera speciale, nessun alieno, nessuna visione speciale. Una cosa del genere in Italia non sarebbe nemmeno degna di nota”. Noi abbiamo il nostro da fare con Pompei, con la reggia di Caserta, con la Valle di Templi, dove “ci si immerge nella cultura con la A maiuscola”, come ci ricorda un viaggiatore entusiasta.

 

Si porta molto
lo sconforto seguito all'aspettativa magari altissima dell'incontro diretto con la storia, l'arte, la bellezza. La forza primigenia della natura, i resti di civiltà antichissime piacciano sempre più dell'opera dell'uomo occidentale corrotto dal progresso

Si finisce quindi in lunghissime recensioni a forma di lamentazione per il profitto che mortifica l’arte. Post indignati per la mercificazione del paesaggio, della poesia, dello spirito, della campagna con le lucciole di Pasolini, scritti probabilmente dagli stessi pezzi di società civile che poi ci spiegano che “con la cultura si mangia” e che “la bellezza è il nostro petrolio”. “Ho avuto la sensazione che tra quelle mura, seppur splendide, l’arte sia più una questione di business che di stato d'animo!!!”, leggiamo in un’altra recensione del Louvre. La Sagrada Família è “una trovata di marketing colossale, sta in piedi solo con la favoletta che ci vogliono altri 10 anni per completarla”. E’ una chiesa “molto simile ai castelli finti di Gardaland”; è imponente, certo, ma “dentro è vuota, non vi conviene spendere i soldi per niente” e poi “sulle guglie ci sono la frutta e i pupazzetti”.

 

Tutte osservazioni che non sarebbero dispiaciute a Gaudí. Molto peggio i Musei Vaticani, “una delle più squallide macchine per soldi mai viste”, in cui “le persone vengono fatte accedere a mo’ di orda barbarica, senza alcun rispetto per l’arte che si va ad incontrare, presumibilmente al fine di ottenere il massimo profitto”. L’arte che si va a incontrare, peraltro, può anche deludere perché “la cappella non è nemmeno ’sto granché come viene dipinta da tutti e non si possono fare neanche le foto”. A San Pietro ci sono “cecchini sui tetti, polizia infiltrata nella piazza, metal detector all’entrate, perquisizioni e cani anti droga/esplosivi che girano… tutto per preservare l’oro rubato nei secoli dai papi”. La critica alle opere d’arte si salda alle proposte di riforma del culto e del soglio pontificio: “La spiritualità della basilica di San Pietro ormai si è persa”, spiega un viaggiatore avvilito, “la grandezza temporale domina troppo sull’aspetto religioso”; “l’interno della basilica è uno spreco volgare di opulenza, il ritratto perfetto della falsità dell’istituzione che ne abita i luoghi”; è un “simbolo di ricchezza e potenza che molto ipocritamente ti fa pagare al suo interno anche l’aria che respiri, con un ingresso in cupola a 7 euro e controlli legati eccessivamente al bigottismo tipico del cattolicesimo più integralista”. Non già riprovazione luterana, ma purissima indignazione anticasta, raccolta, compresa, e rilanciata dalla galassia Grillo. Vedi il celeberrimo “Raggi chiederà l’affitto al Papa… i Musei Vaticani, credo, sono del Comune che non percepisce nessuna cosa, ne parleremo con Bergoglio perché credo che non lo sappia”. Ma Bergoglio sapeva. I Musei Vaticani, come dice la parola, appartengono alla Città del Vaticano, quindi ahimè niente affitto per Raggi. D’altronde, si può sempre riprendere la battaglia sul blog. Ecco. Si confrontino commenti e sottocommenti ai post di Grillo su chiesa e Imu con le recensioni su TripAdvisor dei luoghi celebri della cristianità per farsi un’idea del terreno culturale, del gioco di risonanze, della sapienza con cui il Movimento 5 stelle sa fondere la propria voce con quella dell’utente medio di Internet.

 

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Cosa sta cercando di dirci chi recensisce su TripAdvisor il museo di Auschwitz-Birkenau scrivendo che “nel suo genere di museo dell’orrore non posso non dargli il punteggio massimo, cioè cinque palline”? Per alcuni utenti, Auschwitz è una visita come un’altra, da fare se ci si trova dalle parti di Cracovia, perché come riporta il sito, è “il numero 1 delle attrazioni a Oswiecim”. Per altri, un luogo di “pellegrinaggio obbligatorio”. Nello spirito del sito, l’innesco della recensione è dato dal desiderio di rendersi utili agli altri utenti, scambiarsi pareri, informazioni pratiche su costi, guide, prenotazioni, ecc. Poi anche qui la cosa trascende. La recensione di Auschwitz diventa l’occasione per fermare e raccogliere le proprie emozioni, per lanciarsi in riflessioni apodittiche sul genere umano, per i più pedanti, l’occasione di una lezione di storia da tramandare ai posteri. Ma nella loro ingenuità, le recensioni andrebbero prese sul serio. Anzitutto come valida attestazione delle conseguenze di una pedagogia dell’orrore e di un sistema educativo che ha scelto di puntare tutto sul culto dell’emozione in prima persona.

 

Si confrontino commenti e sottocommenti ai post di Grillo su chiesa e Imu con le recensioni su TripAdvisor dei luoghi celebri della cristianità per farsi un'idea del gioco di risonanze, della sapienza con cui il Movimento 5 stelle sa fondere la propria voce con quella dell'utente medio di Internet

In “The Discourse of Online Consumer Review” (Bloomsbury, 2014) la sociologa Camilla Vásquez ha provato a interrogare le logiche di questa irresistibile spinta a rilasciare un giudizio scritto, alla “recensione compulsiva” di qualsiasi cosa. Se ci spostiamo dalle parti della letteratura, cioè delle “Amazon review” (o per i più esperti, “Anobii”, community dedicata agli amanti dei libri) ci si imbatte nella riscrittura “dal basso” del canone occidentale di Bloom: “Dopo due ore di lettura l’ho lasciato. Non succedeva niente, continuava a girare intorno al mancato bacio della buona notte da parte di sua madre”, scrive un utente deluso dalla “Recherche” acquistata su Amazon. “Io leggo soprattutto a letto o in poltrona e l’Ulisse è troppo voluminoso, si rovina facilmente. Era più opportuno dividerlo in due volumi, avete sbagliato”. Ci sono vari modi di vedere questo fenomeno, ma sarebbe oltremodo miope liquidarlo dalle parti dell’ignoranza diffusa. Come tutti sappiamo, per fortuna anche a persone colte, raffinate, istruite è capitato di mollare la “Recherche” o trovare illeggibile l’“Ulisse” di Joyce (magari senza dare la colpa alla scomodità del volume). Certo, in questi casi si sfodera il bon ton, il mot d’esprit, Woody Allen sulla lettura veloce di “Guerra e Pace” che è un romanzo che “parla della Russia”. Negli altri, si confessa il proprio candore. Ma in entrambi i casi, un numero sempre maggiore di persone sente il bisogno di scriverlo su Amazon.

 

Vásquez sostiene che le community dove si recensiscono le proprie esperienze culturali o meno (libri, viaggi, opere d’arte) funzionino anzitutto come uno spazio di compensazione per la perdita di valore dell’esperienza “autentica”. Inserire la nostra esperienza, più o meno deludente, più o meno meravigliosa, dentro una struttura narrativa (o meglio, piegare la recensione verso l’autofiction) diventa l’unico modo per “autenticarla”. Un po’ come succede con le foto, ovviamente, ma in modo più articolato e profondo. Anche se è inserita in un contesto ripetitivo, seriale, industriale, commerciale, in breve turistico, questa è “la mia esperienza”. Stroncare Van Gogh o Giotto diventa il segno non già di uno sberleffo alla cultura istituzionale, ma una prova di “onestà”. La mia esperienza è stata questa, non mi è piaciuto, “quindi” può darsi anche che sia sopravvalutato. Per molte persone, avere uguali diritti in politica significa che qualsiasi opinione su qualsiasi argomento deve essere accettata come uguale a tutte le altre. Uno vale uno. Il problema non è Van Gogh ma cose come i vaccini o il pil che aumenta grazie al caldo. “Un numero sempre crescente di persone comuni”, scrive Tom Nichols in “The Death of Expertise. The Campaign Against Established Knowledge and Why it Matters” (pubblicato pochi mesi fa per Oxford University Press) è attualmente “convinta di essere più e meglio informata dei cosiddetti esperti, anche se in molti casi non hanno idea di cosa stiano parlando”. Il tema non è la loro ignoranza, ma “la profonda convinzione di saperne di più”. Qualcosa che potremmo chiamare il narcisismo dell’ignoranza. Siamo cioè “orgogliosi di non sapere le cose, così come vengono raccontate dagli esperti”, ovvero dalle élite, dalla scienza, dalla cultura istituzionale. E’ in questa luce che, ad esempio, vanno inquadrate le sfilze di gaffe, svarioni e strafalcioni dei Cinque stelle, a cominciare dai loro rappresentanti di punta. I congiuntivi sbagliati, i golpe in Venezuela, la confusione tra Auschwitz e Austerlitz, non solo non incrinano il consenso e la popolarità di Di Maio e Di Battista (anzi), ma si offrono come segni tangibili della loro “onestà” intellettuale, innescando una sconfinata empatia con gran parte dell’elettorato. Siamo come voi, non fingiamo, quindi potete fidarvi. Con la scomparsa delle mediazioni, l’ostensione di sincerità funziona assai meglio dell’arroganza della conoscenza. Lo ha spiegato bene in un’intervista la fashion-blogger Chiara Ferragni. All’inaugurazione del suo primo negozio a Milano è entrata sbattendo la testa contro la porta d’ingresso, come in una slapstick comedy del muto. La scena è stata ripresa, messa su Instagram e subito diventata virale. Alla domanda ingenua dell’intervistatrice, “come mai ha postato anche quella figuraccia?” Lei ha risposto, “perché quella sono io, mi succede spesso di inciampare”. O-ne-stà.

 

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All’indomani delle ultime elezioni americane, Alessandro Baricco scrive per Repubblica un articolo in cui prova a spiegare la vittoria di Trump sposando il punto di vista di un ferramenta del Wyoming. Anziché parlare della crisi del settore, dell’aumento del costo dei pannelli di compensato o dei dazi sui bulloni cinesi, il ferramenta del Wyoming passa in rassegna Google, Wikipedia, Amazon, Airbnb e le radicali trasformazioni innescate da Internet. Una sola cosa appare con chiarezza all’alba del 9 novembre 2017: “Trump ha iniziato a vincere quando abbiamo rinunciato alle mediazioni”. “Da qualche anno”, sostiene Baricco, “la gente si sta allenando a fare a meno degli esperti, cioè delle élite. Ti alleni per anni in piccole cose (la scelta del ristorante, la cura per il piede dello sportivo, le ricerche copiate da Wikipedia) e inizi ad acquisire una certa sicurezza di te e soprattutto: una silenziosa capacità di ribellarti alle élite”. Élite culturali, si capisce. Così, con la vittoria di Trump, scopriamo che c’è un’internet cattiva, rabbiosa, incontrollabile e un’internet buona. Quella della rete democratica che portò alla radiosa vittoria di Obama, quella del “premio Nobel per la Pace” lanciato da Veronesi con un appello su “Wired” ripreso dall’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini, in pieno trip da guru della Silicon Valley, “la rete merita il Nobel per la pace, sarà un Nobel dato a ciascuno di noi”.

 

Tralasciando il fatto che non immaginiamo il ferramenta del Wyoming che dorme con Airbnb e se ne va in giro con Uber, Baricco iniziava l’elenco dolente delle “disintermediazioni” proprio con TripAdvisor. “Perché passare da un’agenzia di viaggi, quando posso scegliermi e prenotarmi l’albergo da solo? La risposta ci sarebbe: perché l’agente di viaggio ne sa qualcosa e tu non ci capisci una fava. Questa risposta è la risposta che negli ultimi vent’anni è morta, è diventata falsa, è risultata inutile”. La disintermediazione dà, la disintermediazione toglie. Il problema però non è il salto sopra l’agenzia. Una rapida lettura delle recensioni degli utenti di TripAdvisor disvela erosioni più profonde. Con la massima stima per Baricco, forse c’aveva visto più lungo Alberto Sordi.

 

La riscrittura "dal basso" del canone occidentale di Bloom: "Dopo due ore di lettura l'ho lasciato. Non succedeva niente", scrive un utente deluso dalla "Recherche" acquistata su Amazon.
I due "fruttaroli" Romolo e Augusta che accettano di sottoporsi a un regime di afflizioni culturali 

“Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura”. Era il titolo (assai rousseauiano) della Biennale di Venezia del 1978. Qui Sordi e Rodolfo Sonego, il suo sceneggiatura di fiducia, ambientano alcune scene del film, “Le vacanze intelligenti”, come quella celeberrima con Anna Longhi sbracata su una poltrona di vimini, scambiata per opera d’arte “vivente” e subito quotata diciotto milioni di lire. All’epoca, Sordi e Sonego prendevano in giro lo scandalo della performance di Gino De Dominicis, “2° soluzione d’immortalità” (un giovane down seduto nell’angolo di una stanza vuota che fissa una pietra sul pavimento); più in generale ce l’avevano con i primi effetti della ramificazione culturale del ’68, allora entrato nel suo decennale. Rivisto oggi, il film appare sorprendente. Per amore dei propri figli che hanno fatto studiare all’università e che vestono etno-chic e parlano le lingue, i due “fruttaroli”, Romolo e Augusta, accettano con rassegnazione di sottoporsi a un regime di afflizioni culturali: dieta ferrea (vegana), concerti di musica dodecafonica del Maggio fiorentino, Biennale di Venezia, visita alla necropoli etrusca sotto il sole di agosto. A differenza dei viaggiatori di TripAdvisor vivono con sereno distacco la propria ignoranza. Se non capiscono, è colpa loro. E’ perché “non siamo intelligenti come i nostri figli”, tanto che nel viaggio si chiedono più volte, “ma come avranno fatto du’ fruttaroli come noi ad avere tre scienziati come figli?” Forti delle loro assemblee studentesche, di articoli letti su Re Nudo e Potere Operaio, i tre scienziati gli spiegano ad esempio che la Necropoli di Cerveteri non è solo un antico cimitero, ma la testimonianza di un feroce “pogrom dei romani”, uno dei primi della storia. Quarant’anni dopo, lo scriverebbero su TripAdvisor.

 

Sordi e Sonego anticipavano in modo formidabile un populismo che non avrà più a che fare con l’ignoranza dei “fruttaroli” ma con l’arroganza dell’“immaginazione al potere”, il narcisismo, l’esibizionismo, la frustrazione. Questo è forse il vero capolavoro di intuizione del grillismo. Come ricorda anche Giuliano da Empoli nel suo ultimo libro (“La rabbia e l’algoritmo”), “Casaleggio e Grillo non sono certo gli artefici di quest’evoluzione. Però sono stati tra i primi, e tra i più bravi, a trarne fino in fondo le conseguenze politiche”.

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