Venti di cambiamento. Ecco chi sono i nuovi talenti italiani
La piramide demografica italiana è un disastro ma i giovani che innovano non sono solo sui social. Tra i nati negli anni Novanta ci sono eccellenti poeti, pittori, musicisti, imprenditori. Chi sono i ventenni (geniali) che cambieranno il nostro paese. Indagine
La piramide demografica italiana ha la forma di una trottola ma non è un gioco: se è normale che la punta sia molto sottile (di Gillo Dorfles, 107 anni, non è possibile ce ne siano tanti), è mostruoso, abbastanza innaturale e palesemente immorale che la sua base sia così esile, che i bambini siano meno dei ragazzi, che i ragazzi siano meno dei giovani adulti e che i giovani adulti siano meno delle persone di mezz’età. I ventenni sono pochi. In assoluto e in percentuale: negli anni Novanta sono nati solo cinque milioni di italiani mentre negli anni Sessanta, con una popolazione complessivamente inferiore, i milioni furono nove e negli anni Trenta (guarda caso la generazione cruciale del boom economico), con una popolazione complessivamente molto inferiore, i milioni furono dieci. I ventenni non sono mai stati così pochi e pertanto sono preziosi. Se poi sono perfino bravi a fare qualcosa sono preziosissimi: eppure non vedo tutta questa attenzione nei confronti dei nuovi talenti, anzi, mi è capitato di registrare perfino una certa incredulità circa la loro esistenza.
Molti danno per scontato che la pittura, la poesia e un mucchio di altre arti e competenze appartengano al passato e che i giovani siano tutti a farsi foto sui social. Quando invece il re di Instagram è un cinquantenne “bianco per antico pelo” e Facebook sembra ormai un cimitero degli elefanti.
LUCA BERNARDI (Varese, 1991), narratore
Luca Bernardi è l’autore dell’esordio più ardito dell’anno – che lo dica io conta nulla, essendone stato l’editor; per fortuna lo hanno detto anche gli autori delle decine di recensioni uscite – “Medusa”, romanzo di ossessione semiotica, alieni e schizofrenia, che nulla concede alla digeribilità commerciale, presentando più o meno tutti gli spauracchi dell’odierna editoria di consumo: una lingua lavorata e giocata su più livelli, una sintassi complessa, un protagonista spregevole in cui è difficile identificarsi, una corte di coprotagonisti addirittura peggiori di lui e un’apocalisse valoriale di fondo che nulla concede ai buoni sentimenti che tanto vanno di moda in narrativa di questi tempi.
Classe 1991, Luca Bernardi “cresce a Bolzano”, come tiene a dire in biografia, dimostrando evidente e forse motivato pudore circa il fatto di essere nato a Varese. Di questi tempi si parla spesso e volentieri anche di scouting letterario, tema senz’altro più interessante dei buoni sentimenti, e capita sovente di sentirmi chiedere dove abbia scovato questo o quell’autore. Bernardi non nasce letterariamente a Bolzano o Varese, ma su Collettivomensa, rivista dalla vita breve e sfolgorante, fondata a Firenze da tre anarchici lucani e capace di raccogliere l’eredità di Mostro, foglio che segnò la rinascita di una scena letteraria in città. A differenza di Mostro, la cui autarchia era cifra stessa d’identità, Collettivomensa ebbe invece l’intelligenza (derivante forse dal semplice fatto che i suoi fondatori non erano fiorentini e quindi si trovavano sprovvisti di una certa qual pretesa di essere migliori degli altri a prescindere) di aprire ad autori esterni alla cerchia della rivista e alla città. Così su un numero di Collettivomensa – non ricordo se quello con in copertina la foto, rigorosamente autoprodotta, di un ano che faceva la bolla col Big Babol o di una vagina con i denti giocattolo di Dracula – Bernardi si presenta al mondo, o meglio al demi-monde letterario, o meglio a una sua riottosa frazione, con due poesie di discreto valore e considerevole portata narrativa. Bah, l’ennesimo poetastro underground fuori tempo massimo, penserà qualcuno, e lo capirei.
Il punto infatti è esattamente opposto: una volta capito di voler fare, davvero, il letterato, e appena avuta, attraverso la pubblicazione del libro d’esordio – un romanzo e non una plaquette, e anche questo viene a dirci qualcosa – Bernardi, pur mantenendo dichiarata fede nella superiorità artistica della poesia, ha inanellato rapido due traduzioni di thriller mass market per Longanesi (uno è diventato anche un bestseller: “Il libro degli specchi” di E. O. Chirovici) e al primo articolo che è stato chiamato a scrivere in quanto autore pubblicato, ha scelto il tema dei guadagni degli scrittori. Concretezza, forse, bolzanina (o varesotta), oppure elevata consapevolezza: anzitutto del fatto che, se vuoi continuare con le arditezze della lingua e della sintassi, devi metterti in condizione di potertelo permettere.
Vanni Santoni
DAVIDE DATTOLI (Brescia 1990), imprenditore
Quando si parla di giovanissimi talenti del web, specie se italiani, ci sono buone ragioni per essere sospettosi. Troppi “giovani guru” e troppi “enfant prodige” sono stati esaltati da media ansiosi di trovare lo Zuckerberg italiano e prontamente dimenticati. Meglio affidarsi ai freddi numeri. Non sono “inspirational” come una citazione di Steve Jobs, ma aiutano a distinguere chi è serio da chi tira a barare. Ecco un numero abbastanza convincente: 12 milioni di euro. Sono i soldi che Davide Dattoli, 26 anni di Brescia, ha ottenuto per la sua azienda tecnologica nell’ultimo giro di finanziamenti concluso nel novembre dell’anno scorso. Spesso sentiamo parlare delle decine di miliardi che valgono le startup americane, e 12 milioni di euro sembrano pochi. Ma chi conosce il panorama tecnologico europeo, spesso asfittico e poco generoso (in specie quello italiano) sa bene che quei 12 milioni sono una fortuna. Aggiungiamo ai numeri anche un nome convincente: Reid Hoffman, fondatore di Linkedin. E’ uno dei guru della Silicon Valley (quelli veri) che hanno deciso di investire i loro soldi nel progetto tecnologico del giovane Dattoli, perché sono convinti che la sua idea sia valida e che lui sia in grado di trasformarla in un progetto di valore – economico, ovviamente, ma anche generazionale.
Il principale progetto di Davide Dattoli, quello per cui ha ottenuto i milioni di finanziamento, si chiama Talent Garden. Nella dicitura ufficiale, Talent Garden è un “network di coworking”, che tradotto significa: Dattoli ha aperto, prima in Italia e poi in Europa, grandi uffici arredati e iperconnessi in cui i giovani lavoratori tecnologici possono affittare spazi e lavorare a una startup, a un progetto come freelance, a un’attività creativa. Nel linguaggio interno gli uffici si chiamano “campus”, e sono 20: 16 in Italia e poi altri in Spagna, Romania, Albania, Polonia. Dattoli conta di aprire anche a Londra e a Berlino entro breve. I “campus” non sono solo uffici, hanno anche aule di formazione in cui sono organizzati corsi per aziende e imprenditori.
Talent Garden è la più grande azienda nel suo genere in Europa. E’ stata fondata nel 2011 da un Dattoli appena maggiorenne, che nonostante la giovane età ha già un curriculum vastissimo: è stato consulente per Condè Nast, ha cofondato un social network per famiglie (Save The Mom) e ha ruoli di rilievo in diverse realtà tecnologiche importanti in Italia e in Europa. Ripetiamo: il ragazzo ha 26 anni e la mole di risultati ottenuti è già grossa. Ma anche le idee sono chiare. In un’intervista recente sul sistema educativo italiano incapace di formare le competenze giuste, Dattoli, studi scientifico-economici e carriera tech, ha difeso strenuamente lo studio del greco e del latino nei licei.
Eugenio Cau
ANDREA FIORINO (Augusta, Sr, 1990), pittore
Sono un realista e dunque necessito di favole. Proprio perché non mi faccio illusioni ho bisogno di visioni che mi ristorino. Se devo fare un regalo a un bambino gli regalo un libro illustrato sugli gnomi e immancabilmente risulta che, fra i due, il più interessato all’argomento sono io. Non ho mai avuto il coraggio di comprare un tal libro per me, per la mia libreria, e allora non mi resta che sbirciarlo nell’intervallo fra l’acquisto e il dono (se non è incartato e infiocchettato) oppure subito dopo la consegna, quando lo sfoglio fingendo di voler mostrare al piccolo le meraviglie del popolo dei boschi. E se questo può farmi apparire ridicolo, infantile, perfino un po’ femminile, affronterò l’onta. Se devo pensare a un regalo per me penso a una tela di Andrea Fiorino, che dei cinque o sei pittori nati negli anni Novanta e nonostante la giovane età già fatti e finiti, già perfettamente riconoscibili, è il più fiabesco e forestale. Poetica almeno all’apparenza slegata dalla biografia: nato nel 1990 sulla costa dell’arsa Sicilia, ad Augusta, la città di Fiorello, Fiorino abita in una periferia milanese particolarmente grigia, di quelle senza boschi verticali né orizzontali. Credo che come me sia un sognatore e pertanto la sua pittura silvana dovrebbe scaturire, per reazione, proprio dalla realtà cementizia del quartiere Barona: ecco dunque un nesso biografico, per quanto capovolto. Che poi i suoi villaggi e i suoi escursionisti sembrano circondati da boschi nordici, forse germanici, scandinavi, canadesi... Potrebbero essere i boschi dei fratelli Grimm e le casette, anziché di pietra o legno, essere composte di marzapane. Quale sarà la dimora della strega? Dove si nasconderà l’orco? Naturalmente ci sto mettendo del mio, le tele di Fiorino non sono in alcun modo illustrazioni di “Hänsel e Gretel”, i suoi personaggi sono contemporanei, calzano sneaker, portano berretti da baseball sopra capelli tagliati alla Francesco Bianconi dei Baustelle, qualcuno li potrebbe definire hipster. Eppure il fiabesco c’è, non me lo sono inventato io, sarà mica realistico “Unicorno nero” oppure “Il viandante”, quadro dove il protagonista ha sulle spalle, a mo’ di zaino, una casa con le finestrelle illuminate e il comignolo fumante, e come compagno di sentiero un animale un po’ cane, un po’ lupo, un po’ volpe, un po’ lince. E quando ho chiesto a Fiorino la colonna sonora della sua pittura mi ha risposto Bjork, che non è una donna ma un folletto. Mi racconta di essere stato influenzato da Paul Delvaux, surrealista belga, e da Silvia Argiolas, gotica sarda, e non lo metto in dubbio ma non vedo nudo nella sua pittura, non esente da inquietudini e però immune da Eros il demone. Più che adatta ai fanciulli è un’arte adatta a chi fanciullo vuole ritornare, a chi come me vuole riposarsi dalla pressione erotica esercitata dalla realtà. E dalla pressione cromatica: i quadri di Fiorino sono quasi in bianco e nero, il colore è solo un tocco mentre sul resto della tela domina la fusaggine, sorta di carboncino da cui scaturisce un segno scuro e morbido, sussurrato e naturale, la tecnica usata ad Altamira quindicimila anni fa e dunque perfetta per un pittore ventenne in contatto con gli archetipi.
Camillo Langone
FRANCESCO GIUBILEI (Cesena, Fo, 1992), editore
Confesso che fra i novantiani cercavo un filosofo e mi è venuto lo sconforto. Eppure non lo credevo così complicato: Nietzsche aveva scritto “La nascita della tragedia” a ventisette anni, Schopenhauer aveva già pubblicato “Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente” a venticinque. Niente; si vede che in Italia i filosofi maturano più tardi. Allora ho interpretato l’accezione di filosofo in senso lato, ossia qualcuno le cui convinzioni profonde siano d’esempio anche ad altri. Ho trovato Francesco Giubilei, il più giovane editore italiano, nato nel 1992 e fondatore nel 2008 della casa editrice Historica. Non è un refuso: duemilaotto meno millenovecentonovantadue fa sedici, quindi Giubilei è diventato editore a sedici anni. Il suo curriculum occuperebbe tutto questo spazio pertanto sintetizzo: ha fondato due quotidiani online (Cultora e Il Conservatore), scrive per Il Giornale e per La Voce di Romagna, ha curato fra l’altro una biografia di Longanesi che ha avuto il buon cuore di non pubblicarsi da solo, affidandola a Odoya.4
Ha combinato anche molto altro, a un’età in cui molti si stanno ancora organizzando, ma più dell’elenco è interessante lo scavo: quale filosofia soggiace a tanta fregola? Anzitutto, credo, la sfiducia nell’insegnabilità della virtù lavorativa. Giubilei ha messo su la propria attività esattamente all’età in cui oggi nelle scuole si pratica, con risultati talvolta magrissimi, l’alternanza scuola/lavoro. Giubilei ha fatto da sé e non ha aspettato che dall’alto calasse lo stato a rivelare ai giovani che prima o poi bisognerà lavorare; sotto questo aspetto, va considerato un eroe della libera iniziativa e in senso lato della responsabilità individuale. Né va sottovalutato che Giubilei era editore già da tempo quando si è laureato – corso breve in Lettere moderne, magistrale in Cultura e storia del sistema editoriale – a dimostrazione della superfluità della laurea umanistica, per non parlare dei vari master in editoria per le allodole. Giubilei dimostra che l’istruzione serve a completare, non a costruire, e che non sarà un timbro su una pergamena a fare di qualcuno un professionista nel settore.
Politicamente, Giubilei è conservatore ma non passatista. Da adolescente, nel momento in cui tutti smaniavano per la virtualità ineluttabile, ha deciso che era meglio pubblicare un romanzo su carta anziché online e Historica è nata per questo. Però da qualche parte ha dichiarato che non è d’accordo con l’approccio di Longanesi, secondo il quale il termosifone avrebbe ucciso la lettura soppiantando le riunioni attorno al caminetto: Giubilei non crede alle magnifiche sorti e progressive ma non per questo ritiene che ogni novità sia necessariamente mortifera. Infine, Giubilei mantiene il bilancio in pareggio senza chiedere soldi ai genitori all’età in cui i più promettenti filosofi italiani lamentano che nella nostra nazione corrotta e retriva non si può combinare nulla, e per sentirsi realizzati vagheggiano carriere accademiche all’estero che li fanno invecchiare precocemente.
Antonio Gurrado
GIUSEPPE NIBALI, (Palermo 1991), poeta
Ci sono almeno tre poeti tra i nati negli 90 che secondo me hanno la stoffa per dare, oltre alle prime opere che già hanno offerto, cose ottime. Ivonne Mussoni, Francesca Mazzotta e Giuseppe Nibali. Vi parlerò dell’ultimo non perché più bravo – si vedrà – ma perché meno giovane e perché indica un percorso che dalla Sicilia attraversa l’Italia con sosta a Bologna e ripartenza per Milano, con un carico intenso di poesia letta, vissuta e scritta. Giuseppe nasce a Catania nel ’91 da un padre giornalista prematuramente scomparso, e da una madre bella e forte. Lui ha tratti normanni, eloquio ricco e coltivato in casa e in studi presso l’Università di Bologna, laurea breve su Quasimodo e master su Tondelli. Poi via a cercar fortuna nella comunicazione a Milano. Ma rifuggito quel mondo se ne sta là a insegnare a ragazzetti e scrive poesie impastate di dolore, amore e senso sacro dell’esistenza e della giustizia. Molto sicule e molto italiche. Ormai lo invitano in parecchi festival strani di poesia, vorrebbe pubblicare un romanzo e vive la poesia come una grande sfida. Molto siculo, molto italico.
Cresciuto insieme a Valerio Grutt, poeta chansonnier delle anime buone del mondo e con Ivonne Mussoni – sirena gentile e meravigliosa delle profondità – collaborando al Centro di poesia dell’Università di Bologna che inventai – io anarchico e non accademico – come un porto di mare della poesia ormai vent’anni fa insieme al grande prof. Ezio Raimondi, ora Nibali cerca la maturità. E sono sicuro verrà, dopo un libretto di esordio molto forte (“Come un dio su tre croci” vincitore premio Le stanze del tempo – Fondazione Claudi per l’inedito) e una intensa plaquette d’arte, “La voce di Cassandra” per Origini edizioni con le foto di Massimo Degli Innocenti. Anche l’inclusione in diverse antologie e la presenza in diversi blog tra cui quello di ParcoPoesia di Isabella Leardini dove cura uno spazio sui poeti del sud, è il segno di un lavoro generoso. E la maturità verrà dal continuare a stare nella sfida alta della poesia.
Come Francesca e Ivonne è consapevole che nell’epoca della chiacchiera facile e diffusa a costo zero la poesia deve cercare la voce del mistero del vivente, delle increspature nelle esistenze reali e confrontarsi con una tradizione di maestri. La poesia non si improvvisa e neppure un destino di poesia come vocazione personale nel mondo attuale. Il costo è alto, non solo in termini di incomprensione rispetto a più facili accomodamenti, personali e professionali – ma anzitutto come sfida alla disperanza di parole che non costruiscono vita e sono solo esibizione o narcisismo.
La figura amatissima del padre, rispetto a cui Giuseppe si sente in continuo dolcissimo debito, e la protezione per la madre fanno parte del suo scoperto stare al mondo, ne sono una linfa segreta e aspra e dolce. Il padre, Salvo, giornalista impegnato anche nella salvaguardia del patrimonio culturale siciliano, gli ha lasciato in eredità una impronta di decisione: la letteratura non sia il vizio di animi imbelli, di annoiati e noiosi intellettuali. Di questo la sua poesia – aperta alle vicissitudini del mondo, dantescamente – porta il segno nella piazza italiana. E’ da giovani uomini come Giuseppe, e dalla loro libertà, che dipende l’esistenza futura di una poesia forte di ricerca stilistica e di voce tra le parole spesso plastificate della comunicazione e anche, purtroppo, della comune conversazione. Lui il suo magone e il suo canto li offre con la spudoratezza timida dei poeti autentici.
Davide Rondoni
CIRO OLIVA (Napoli 1992), pizzaiolo
Mammà, alla cassa, lo segue in adorazione, lo sguardo amoroso e sereno degno di una moderna Madre con il Bambino; il padre controlla la lunga fila dell’“asporto”, cartoni quadrati fragranti, e non ha nemmeno un attimo per guardare la sala. Del resto non ce ne sarebbe bisogno alcuno, ché il figliol prodigo si aggira elettrico dall’entrata al forno, ai tavoli che corrono lungo lo stretto locale, distribuendo lungo il cammino ospiti arrivati d’ogni dove. Nulla sfugge al controllo del Folletto della Sanità, Ciro Oliva, 24 anni, due figli piccoli, motore incessante della storica pizzeria Concettina ai Tre Santi, dove settant’anni fa la nonna nel suo basso vendeva quei cerchi di pasta spruzzati di pomodoro da piegare “a libretto” e mangiare bollenti stando attenti a non sporcarsi le scarpe.
Così spunta Ciro, pizzaiolo 2.0. I suoi gli affidano la bottega, e lui la trasforma in una piccola azienda, assumendo trentadue ragazzi, tutti della Sanità, e arrivando a sfornare migliaia e migliaia di pizze al mese. Oggi come allora a proteggere quest’angolo vegliano i tre santi dell’edicola votiva: san Vincenzo Ferrari, il patrono del rione, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che veglia sulle mura del locale, e sant’Anna, alla quale era devoto lo stesso sant’Alfonso. E quando racconto ai miei amici che questo è un luogo dove non possono non venire, mi osservano – i napoletani soprattutto – come se fossi “asciuto pazzo”, neanche li stessi esortando a passare una serata nel feroce Bronx di un volta. Poi vengono, i forestieri (ma loro hanno meno pregiudizi e paure) e i borghesi di via Petrarca e di Posillipo si affacciano timidamente per scoprire che anche questa è casa loro, e che forse esser presenti e farsi vedere si rivela un discreto modo per ridurre distanze e diffidenze reciproche. Quello delle tante Napoli è un tema che il Folletto conosce bene. E’ contento quando il marchese arriva con un gruppetto di amici facilmente riconoscibili dai tagli di sartoria e si mettono in fila con un ordine che manco a Stoccolma. Ma è decisamente più felice quando ti presenta la sua squadra, molti tolti alla strada dove la malavita non esita a sparare.
Senza retorica partecipa ai progetti di recupero e all’universo della solidarietà. Qualcuno ha sospettato che puzzasse di bruciato, di trovata pubblicitaria l’offerta della pizza “sospesa”, ovvero la possibilità che gli avventori pagando il loro conto paghino una pizza in più – la pizza “sospesa”, appunto – per chi non se la possa permettere. Invece di persone che passano a chiedere sottovoce se ne è rimasta una, ce ne sono… Ed è raro che vadano via a stomaco vuoto.
Un frutto sano della tradizione, lo stesso orgoglio che ritroviamo nel modo di fare la pizza, a cominciare dall’impasto.
Attenzione però: se volete cercare la prima ragione del successo, chiedete di affacciarvi nel Sancta Santorum: una camera climatizzata per mantenere costante la temperatura dell’impasto, accarezzato dalle note della musica classica, manco fossero le bufale di Paestum. La pizza esce alleggerita, complice il taglio del sale, ridotto del 50 per cento. A consolidare il primato del Folletto, gli ingredienti, sintesi di una selezione accurata del meglio della Campania Felix, dai pomodori (varietà incredibile) ai formaggi, fino al pesce: merita il viaggio la sola pizza fritta nella quale la ricciola ha sostituito i cicoli di maiale! Senza tanti complessi, il sommelier della Sanità mescola il gagliardo rosso di Gragnano allo Champagne. L’alto e il basso, il Sacro e il Profano: sotto il Vesuvio è arduo tracciare una linea di confine netta. A cento metri da qui nacque Totò, ma ai cultori che ne cercano le tracce nella casa di via Santa Maria Antesaecula 109 sfugge che all’inizio della strada c’è l’ingresso di un ipogeo greco. Tra palazzi antichi e mal tenuti, attraverso questi varchi si accede a un angolo prezioso della Napoli sotterranea, dalle Catacombe Paleocristiane all’amato Cimitero delle Fontanelle.
Venire a mangiarsi una pizza e ¬– grazie anche alle indicazioni degli Oliva – bighellonare riflettendo su quanto Napoli sia vitale, ovunque, compreso il mondo dei morti celebrati assieme ai vivi, in una discesa trepida verso gli Inferi che ti consenta di ritrovare la forza per campare meglio, tenendo possibilmente a bada i guai.
Guido Barendson
MARCO RAMBALDI (Bologna 1990), stilista
Nel 2014, Marco Rambaldi vinse il premio Next Generation di Camera nazionale della Moda. La giuria corse backstage al termine della sfilata, per accertare se davvero quelle stampe su lana fossero raffinate come sembravano da disegno e sotto le luci della passerella (lo erano), per verificare se l’omonimia con l’ideatore di E.T. fosse un caso (lo era) e per assicurarsi qualche capo (tutte sogniamo di diventare Isabella Blow e di comprare l’intera prima collezione del futuro Alexander McQueen, una volta o l’altra). Rambaldi, figlio minore di una famiglia di imprenditori bolognesi della meccanica, all’epoca ventiquattrenne e appena laureato allo Iuav di Venezia, discettava di tessuti con una competenza che al tempo stesso deliziava e lasciava senza fiato. Il premio gli permetteva di produrre quella prima collezione e di mettersi in mostra, e tutti dunque si aspettavano che iniziasse la consueta trafila di piccole collezioni, ricerca affannosa di produttori e di showroom, caccia al pr disposto a investire sul nome sconosciuto, cioè a lavorare gratis, che attende ogni esordiente e che spesso lo logora nell’attesa di un salto di qualità sempre più difficile da compiere, trasformandolo in uno dei tanti, eterni “emergenti” che a quarantacinque anni sono ancora privi sia delle forze economiche sia dell’esperienza per superare lo scoglio dei “minimi” di produzione richiesti dalle aziende terziste. Invece, essendo Marco Rambaldi un ragazzo intelligente, per i successivi due anni ha lavorato nell’ufficio stile di Dolce & Gabbana, dapprima come stagista, poi con un contratto a tempo indeterminato che, essendo bravissimo, gli è stato offerto in tempi rapidi, e lì ha appreso le basi del mestiere, che non significa taglio e cucito, ma applicazione degli stessi alle regole del mercato. Nel frattempo, ha continuato a disegnare le sue collezioni, in cui esplora, ribaltandone i codici, il mondo borghese italiano degli anni Settanta; per dare un’idea, quella di Marco Rambaldi è una logica Prada giovane, cioè più sovversiva nelle proporzioni. Presenta la sua seconda prova di stile, Oui, per la primavera/estate 2015 a Palazzo Morando, durante la settimana della moda di Milano. La terza, in una continuità difficile ma perseguita con determinazione, arriva invece circa un anno fa, porta l’anagrafica autunno-inverno 2017 e viene presentata al Fashion Hub Market promosso da Camera nazionale della Moda e Vogue Talents all’Unicredit Pavillion di Milano.
A febbraio di quest’anno, ventisettenne, Marco Rambaldi si trova un produttore, una società immobiliare col pallino della moda che ha già lanciato Piccione Piccione: le promette di disegnare una linea di moda contemporary, cioè accessibile per approccio e per prezzo, (nome dell’etichetta Humanae), in cambio del sostegno alla sua, naturalmente eponima. L’ha presentata lo scorso luglio sulle passerelle di Altaroma, nell’ambito del concorso Who is on Next, e l’ha vinto. Lavora in un piccolo studio in via Goldoni, a Milano, a cento metri dal palazzo di Dolce & Gabbana con cui ha mantenuto ottimi rapporti: ha assunto la sua compagna di corso prediletta, che lo affianca nella gestione dei rapporti con i produttori. Sono in cinque, lavorano con la passione matta e disperatissima che la letteratura molto conosce e la moda molto di più. La moda di Marco Rambaldi, come ovvio, è bellissima.
Fabiana Giacomotti
BEATRICE RANA (Copertino, Le, 1993), pianista
Iprimi passi a Copertino, bella cittadina del Salento e patria di un san Giuseppe, in una famiglia numerosa, di musicisti a partire dai genitori. Due pianoforti sempre accordati ma ci sono anche le campagne, i nonni fanno il vino malvasia e la piccola Beatrice passa molto tempo tra le vigne e sogna già di diventare concertista. A dieci anni comincia a studiare con Benedetto Lupo, al Conservatorio di Monopoli, il suo vero mentore, quasi tre ore di autobus per andare e altrettante per tornare a casa e immaginare come migliorare un passaggio, come emozionarsi a ogni esecuzione, come prendere meglio una nota, fino al diploma con menzione, sapendo che d’imparare non si finisce mai. A diciott’anni a perfezionarsi con Arie Vardi alla Hochschule für Musik di Hannover. “Non c’era mai il sole ma ho imparato tantissimo”.
Dopo i primi concerti, si capisce un’inclinazione per Schumann, per Scriabin, per i preludi di Chopin. Poteva essere un talento come altri, ma a vent’anni vince la medaglia d’argento al Van Cliburn e si capisce che Beatrice Rana è una fuoriclasse. Un premio che ti proietta nella storia, fondato dal leggendario pianista texano che a Mosca nel 1958 vinse il Concorso Ciajkovskij, col placet di Krušcëv e divenne per un decennio l’idolo nei teatri dell’Unione sovietica.
Con i conflitti di quel tempo Beatrice ha poco a che fare, ti conquista con un sorriso e una parola che ripete un paio di volte durante il nostro incontro: restituzione. Ne parla raccontando l’adrenalina per Classiche Forme, il suo primo festival, quello che ha organizzato quest’estate a Spongano, a due passi da casa. Ci ha messo l’anima, oltre che i denari dell’ultima borsa di studio che ha vinto, per commissionare a Luca Francesconi un nuovo pezzo per pianoforte (“è stato galvanizzante suonarlo pensando che era stato scritto, in qualche modo, proprio per me”), ha chiamato gli amici e la sorella Ludovica, talentuosa violoncellista. Tutto questo in un’estate che ha visto il suo debutto ai Proms, davanti a una Royal Albert Hall gremita, il Concerto di Schumann con la Bbc Symphony Orchestra diretta da Sir Andrew Davis e poi al Lincoln Center e all’Hollywood Bowl di Los Angeles, quello dove hanno suonato anche i Beatles, davanti a quindicimila spettatori. “Era come entrare in un’arena per gladiatori”. Insomma un’estate da leoni, le vacanze sulla costa salentina e le Variazioni Goldberg, appena uscite su disco. “Mi sono chiesta, chi avrà voglia di stare seduto ottanta minuti al ascoltarle tutte?”. Sono più lunghe della prima registrazione di Glenn Gould, ci ha messo anche i ritornelli e soprattutto “moltissima umanità”. Gli amici di Beatrice non ascoltavano nemmeno la musica classica, ora sono tutti appassionati, tutti in prima fila sotto il palco al suo festival o nelle retrovie ad aiutarla, come dire che tutte queste note hanno senso solo se possono coinvolgere anche gli altri, portare gioia e far conoscere a molti la sua terra. Un bel sorriso, un tocco unico. Un grande talento italiano da regalare al mondo.
Corrado Beldì