La nuova questione morale
E’ il fanatismo che affonda la lama nel burro del conformismo. E’ il moralismo perbenista dell’onestà-tà-tà e di #MeToo. La nostra epoca in cerca del “buon fine” sembra un’eterna Quaresima senza mai un Carnevale. Il racconto di Pietrangelo Buttafuoco
L’uomo che compie davvero ciò che si ritrova attribuito sulla lapide al cimitero – “marito devoto, padre esemplare” – non fa la volontà di Dio ma quella del Diavolo. Di un cardinale ferrato in precetti, e di specchiata moralità, uno che però non si fermava a contemplare la luna – o a sognare i tortellini, nel dopo, in Paradiso – Giacomo Biffi diceva: “E’ più pericoloso per la cristianità di un eresiarca”. La perfezione in terra – la correzione secondo morale e non per Grazia divina – è il capovolgimento di ogni paradiso. Una époque che fa riassunto di tutti i torti per raddrizzarli – questa nostra, intrisa di illibata morale – istituisce una religio senza incomodi trascendenti.
Oltre l’utopia ottocentesca, abolito il tempo degli stati nazionali, ecco il trionfo della società totalitaria: la politica diventa il laboratorio dell’onestà, che è la messa in parodia della virtù, l’istinto – sia esso eros, sia la volontà di potenza – è costretto tra le parentesi della precettistica e la stessa catena vitale, con sapiente manipolazione, è sottoposta al lavacro molecolare in vista del “buon fine”.
Zhong Zhong e Hua Hua, due macachi rispettivamente di otto e sei settimane di vita, clonati come a suo tempo la pecora Dolly, dalla Cina fanno ciao ciao con le loro manine annunciando il passaggio ulteriore, il trasferimento in una cellula non fecondata del nucleo prelevato dalla cellula uovo di un altro essere. Quello dell’esser-ci qui e ora, ovvero l’umano domesticato ben bene.
La legge morale dentro di noi si fabbrica nel groviglio delle complicazioni. Il moralista si adopera per l’astuzia di Satana
Eccolo: uno che non ruba quando diventa assessore; uno che non guarda nella scollatura delle signore; uno che assolve ai doveri civici, uno che pensa in ragione del pensiero unico; uno che parla in ossequio alla neolingua della correttezza; uno che proclama l’antifascismo in assenza di fascismo per evitarsi l’anticapitalismo in conclamato imperio capitalista; uno che non legge Louis-Ferdinand Céline (e figurarsi Martin Heidegger); uno che si copre gli occhi davanti ai quadri di Balthus; uno che sulla tomba, infine, una volta dismessi i meriti patriarcali – “marito devoto, padre esemplare” – avrà scolpita la bestemmia redatta dal professor Kant sempre assai cara all’Ade: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.
Una sempiterna Quaresima senza mai un Carnevale, questa è la nostra epoca in vista del “buon fine”. Ma il cielo stellato sopra di noi vuole starsene, invece, a guardarne di cotte e di crude. A cominciare dalle scollature. Per non dire del ninfeo.
Samantha Geiner, sul Monde, lunedì scorso, rievoca ciò che le accadde all’età di tredici anni, nel 1977, con Roman Polanski: “Perché dover dire per forza che quello che mi è successo è stato spaventoso? Non lo è stato”.
Emmanuelle Seigner che è la moglie di Polanski, intervistata da Stefano Montefiori sul Corriere della Sera, asseconda a sua volta Genier scegliendo di stare dalla parte opposta di #MeToo. Seigner denuncia la piega fondamentalista dei neopuritani che sono la piaga d’Occidente e dice: “Noi donne siamo forti, si può dire di no”.
La legge morale dentro di noi si fabbrica, dunque, nel groviglio delle complicazioni.
L’uomo che agisce per ammaestramenti, il moralista insomma, si adopera per l’astuzia di Satana; ciò che è morale non coincide con ciò che è sacro perché è il Demonio, per dirla con Padre Pio, “a volere le cose giuste” mentre il Misericorde, invece, – al culmine sublime del buonumore – “vuole le cose belle”.
Cose così giuste quelle di Belzebù da fabbricare nel solco dell’antica arroganza – pianificare la vita, a prescindere dalla Grazia – nel laboratorio della vita nuova e della città nuova, va da sé, dell’utopia politica portata a perfezione: un’esistenza di totale salute nel privato, una società di totale onestà nella sfera pubblica e la secchezza dei tessuti carnosi del pene finalmente soggetto alla consapevolezza culturale della domesticazione.
Allo stesso modo dei cavalli che in natura non riescono più a montare le giumente – deve, infatti, intervenire il veterinario – così l’umanità moralizzata si emancipa dagli errori invasivi del desiderio. La penetrazione “era” un fatto incontrovertibile, ma tutto – nell’umanizzazione morale della natura – trova il suo aggiustamento. E’ il fare del prodotto naturale, un “prodotto culturale”: fare dell’aggressivo attrezzo maschile un canale da cui prelevare sperma per via ambulatoriale e non più per copula.
Perfino dire “che bel vestito” a una ragazza, nell’orrida macchina del collettivismo glamour liberal, diventa reato
La “costumazione” del canone di correttezza mira al contenimento della vampa ferina del maschio al punto che perfino dire “che bel vestito” a una ragazza, in quell’orrida macchina del collettivismo glamour liberal, diventa reato.
La bellezza è però il viatico dell’istinto, il primo necessario lusso della natura.
“Non è la bellezza ciò da cui si dovrebbe necessariamente partire?”, scrive Cristina Campo – tra i sommi autori della letteratura contemporanea, cattolica lefevriana – “E’ un giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei regni sotterranei della conoscenza e del destino”.
La bellezza è la chimera del desiderio. La moglie di Polanski, il regista a suo tempo arrestato a Los Angeles per violenza sessuale su Geiner, è un’attrice di elegante potenza erotica, sa come dire di no.
E’ una guerriglia, questa – nel gioco delle parti tra maschi e femmine – per lei iniziata dopo la pubertà. E sa come dare conseguenza al no, lei.
Come Titti Nicosia, una bella nonna, assai attiva nei pellegrinaggi mariani a Medjugorje, che mi ferma davanti all’ascensore del condominio per chiedermi cosa ne pensi di Asia Argento che dopo molti anni lancia l’accusa a Harvey Weinstein, il produttore di Hollywood, orco conclamato.
E’ la famosa conseguenza al no. Io – con la legge morale fuori da me – non so come cavarmela, ne accolgo il ragionamento e l’ascolto il suo punto di vista: “Lei, e quelle come lei, tutte le signore del cinema, dicono di essere state costrette e ci credo, i maschi quello fanno; ma se quello te lo mette in bocca – dico io – e non vuoi, mordilo!”.
I like sono come le pietre che si ammonticchiano per lapidare l’adultera. L’arco di lancio della caduta si abbrevia col clic e il moralismo – come trappola mentale – è lo stratagemma di contrasto all’orgoglio della ragione
La famosa forza delle donne, quindi, ma il verso del pelo – la coscienza infelice borghese – non ammette deroghe: si liscia solo dalla parte giusta. Il mare grande della chiacchiera apre ai farisei le praterie del web. I like sono come le pietre che si ammonticchiano per lapidare l’adultera. L’arco di lancio della caduta si abbrevia col clic e il moralismo – come trappola mentale – è lo stratagemma di contrasto all’orgoglio della ragione.
Il moralista legge, infatti, come un orrore l’uso della ragione. Ha le sue verità. Non ammette l’esercizio di chi oggi può indovinare e dopo, sbagliare. Si stupisce, il moralista, della capacità di stupirsi altrui, teme qualunque avventura dello spirito, cauterizza qualunque sbrego dell’immaginazione: tutto deve stare dentro i precetti.
Il moralismo impone un manicheismo rigido, nega la stessa natura che fa di ogni individuo – e di ogni ente presente nell’Essere – la compresenza di due polarità opposte, la tavolozza di tutte le sfumature, l’eterno stare in bilico tra la concupiscenza e il distacco, la bramosia e l’astinenza, la ragione, appunto, e l’irragionevolezza.
Il fanatismo moralista affonda la lama nel comodo burro del conformismo. La tragedia del Novecento, all’indomani della catastrofe, non registrava verso i vinti, considerati sconfitti come nella ruota della storia capita ai popoli di vincere o di perdere una guerra quell’odio e quel rancore con cui oggi si rubrica come un’ottusa emergenza se perfino un Sergio Mattarella, convintamente, invece di pacificare – nel proprio ruolo, perfino cristiano – perpetua il dopoguerra imbullonando nella cupa buca dell’eterna guerra civile il lascito di Benito Mussolini: “Non si può dire che il fascismo abbia fatto cose buone”. Suvvia, signor Presidente, non ricordiamo Giovanni Gentile, la previdenza sociale, le tutele dei lavoratori, l’urbanistica o la bonifica delle paludi ma anche la frantumazione del feudo e la spietata lotta alla mafia volute dal Duce nella sua Sicilia furono cose cattive?
Il moralista ha la sua dialettica, va da sé, moralizzatrice. E il moralista ha la sua ritmica conseguente. Indimenticato resta il Rodotà-tà-tà degli attivisti Cinque stelle alle Quirinarie, ossia la campagna di mobilitazione per portare il compianto Stefano Rodotà al Quirinale.
Una cosa è doxa, un’altra è il logos ma il moralista, lo stregone del livellamento al grado zero ha opinioni e non – come stigmatizza giustamente dal suo nuovo blog Beppe Grillo – le necessarie e sacrosante idee. Il moralista crede solo nei luoghi comuni. Ma se solo l’Italia fosse incappata nel moralismo di un Enrico Berlinguer – giusto per fare un esempio, giusto per restare in tema di “Questione morale” – ne sarebbe venuta una stagione di austera tristezza naturalmente più che giusta, severa e difficile per i troppo ladri che sono sempre troppi nella nostra terra, ma per ridurla allegra, la povera Italia, come la trista Cecoslovacchia sotto i cingolati sovietici.
Come il comunismo e il nazionalsocialismo fecero da supporto alla costruzione dello Stato Totale in Unione Sovietica e nel Terzo Reich così il moralismo fonda la società liberale in un esito totalitario non nelle istituzioni ma nella precettistica
Il moralista è, Dio ce ne scampi, onesto. Piega la realtà e sono benvenuti allora i tormentoni quando, la dura sostanza delle cose, svapora in una risata: “In Cina hanno inventato un robot-poliziotto, in cinque minuti ha catturato dieci ladri; in America in quattro minuti ne ha catturati nove; a Palermo, in un solo minuto, si futteru ’u robot”.
Il moralista ha una memoria eterna, e inamovibile. Anche a Leonardo Sciascia capitò di non essere d’accordo con Paolo Borsellino, e di dirlo – “Professionisti dell’Antimafia” – come lo stesso Pietro che si ritrovò a rinnegare per ben tre volte Gesù. Quello stesso Cristo che lo prese poi, quel pescatore, come prima pietra della nascente chiesa reclutando, con lui, gli ultimi – e non specificatamente i miserandi – ma proprio i peggiori: usurai, puttanieri, zoccole e vigliacchi. E gli assassini.
La santità è sempre sudata, giammai candeggiata al modo dei protestanti, convinti di fare degli Evangeli la manualistica delle buone maniere. E il fare il cristianesimo senza Cristo, una sorta di Comunismo senza il Cielo, degrada il figlio di Maria a un pretesto per parlare d’altro. Come il capolavoro cui lavora da sempre Satana – cancellare dall’orizzonte d’Occidente il Golgota – riduce il transito di Gesù sulla terra a una metafora, a un mito tutt’al più.
E il risultato già c’è: cento milioni di martiri russi, uccisi per avere attestato la fede nel figlio di Maria, neppure troppo tempo fa trucidati tutti – come Pavel Florenskij, sul limitare di una fossa – non riescono a far fermare il respiro, anzi, ci fanno girare velocemente pagina non potendo da loro trarne un galateo fatto di neo-lingua, di pensiero unico, unica narrazione e mutande sterili.
La santità gronda di sangue, non di buone azioni. E Hosseyn, figlio di Alì, martirizzato a Kerbala, non è un boy-scout quando nel solco del nonno, Muhammad, abbraccia Sabah al nūr, la mattina di luce. L’Islam fa della morale quella moralità (akhlaq) a noi nota per tramite di Platone. E’ ciò che sgorga se non dalla filosofia (come amore di una sapienza perduta, cui ricongiungersi) dalla conoscenza della Parola di Dio, una virtù innata effusa trasversalmente nella creazione e che prescinde dall’urgenza d’influenzare la condotta umana.
L’islam fondamentalista, di stampo protestante e perciò letteralista, al contrario riduce il Cielo a un lugubre galateo dove l’uomo passa davanti alla donna e non le dà la precedenza entrando in un locale per non guardarle il culo. Preciso e uguale a ciò che accade nel bacchettonismo liberal del politicamente corretto.
Come il comunismo e il nazionalsocialismo fecero da supporto alla costruzione dello Stato Totale in Unione Sovietica e nel Terzo Reich così il moralismo – giusto nell’epoca in cui si danno per tramontate le dottrine – che è un’ideologia, fonda la società liberale in un esito totalitario non nelle istituzioni ma nella precettistica, nell’abito mentale di tutti perché il politicamente corretto, infine, non è una retorica, bensì uno statuto antropico.
Vorrei proprio ripetermi: il liberalismo si evita il disturbo di uno stato totalitario perché serba in sé ben altra comodità, la società totalitaria. Urge ripetersi. Ce ne stiamo tutti a pensare la stessa cosa, e tutti all’interno dello stesso circuito mentale, come in questo nostro tempo, con un’inquisizione morale e moralizzatrice che non ci porta al rogo solo per un motivo: diciamo già tutti la stessa cosa… (e di scantonare rispetto al sacro canone, personalmente, me ne guardo bene).
Il soggettivismo morale, per dirla con il cardinale Biffi, “induce a ritenere che sia lecito e perfino lodevole assumere in campo legislativo posizioni differenziate dalla norma di comportamento alla quale personalmente ci si attiene”.
Non consente correzione di rotta, il moralista, perché nell’epoca della correttezza compiuta lo stesso libero arbitrio – mordere oppure no quel manico indicato dalla signora Titti – è comunque ricondotto al gioco delle tre carte. E quel che vince e quel che perde lo decide solo l’uovo perfettamente tondo del moralismo.
Rod Stewart, un tempo star della musica, disarmato, confessa: “La mia canzone Blondes have more fun – le bionde si divertono di più – oggi non potrei più cantarla”. La bestia bionda, immorale per definizione, è costretta ad arretrare in conseguenza dei troppi privilegi acquisiti. E lo stesso Alfred Hitchcock, maniaco del genere – specificatamente la versione femminile – si troverebbe costretto a riscrivere le sceneggiature, in ossequio alla palingenesi moralista, mettendo in scena signore dai capelli crespi e castani. Proprio come succede adesso con i rifacimenti cinematografici hollywoodiani della letteratura epica, con gli africani del Continente Nero inseriti a forza perfino nell’Iliade (manca poco, anche nell’Anello dei Nibelunghi).
Tre sono le carte del gioco: due sono per il Bene e il Male mentre la terza è per Canonizzazione. E’ il Canone che non divide più gli uomini tra peccatori e salvati ma, al contrario, riunisce in unico statuto – buoni e cattivi – tramite benefici ugualmente necessari agli uni e agli altri, giusto a offrire quell’equa ripartizione su cui s’adira ormai soltanto Vladimir Putin: “L’Occidente mette sullo stesso piano Dio e Satana”.
E’ il soggettivismo morale, per dirla giusto con il cardinale Biffi, “che induce a ritenere che sia lecito e perfino lodevole assumere in campo legislativo posizioni differenziate dalla norma di comportamento alla quale personalmente ci si attiene”.
Il soggettivismo proprio della lotteria delle possibilità, col benpensante – a questo punto cattolico “adulto” – che a proposito della legislazione sull’aborto, o sul fine vita, dice: “Io non voglio l’eutanasia o l’interruzione di gravidanza perché sono credente, ma non voglio togliere agli altri queste possibilità”. Ecco la lotteria. Carta vince, carta perde al tavolo di Snct, ossia Somatic Cell Nuclear Transfer, e quando non c’è più l’ordine – la natura – subentra la legge.
Quando svanisce la legge, arriva l’ethos.
Quando tramonta poi anche l’ethos sorge la morale, ovvero la carta definitiva del Canone ultimativo che parla allo sfaldamento del sé di ogni individuo ed erige a dominio del formicaio globale la coscienza infelice della minoranza egemonica, sia essa quella dei giustizialisti, dei pauperisti e degli impotenti, sia quella del gender o quella della correttezza che dà forma all’epoca del mondo e che si erge a tabù.
E tale resta, il tabù, a discendere per li rami se l’oro – il metallo dell’avidità – adesso si trova “etico”, e cioè estratto in miniere eco-solidali, e così il caffè, con le tazzine Lavazza marchiate con garanzia di #sostenibilità #TierraColombia, fino ad arrivare a sentire parlare di una donna (ma si spera vivamente sia una fake news) che ha vergogna del suo essere di razza bianca, non fosse altro per avere nel sangue quell’istinto predatorio con cui il pianeta terra è diventato mondo.
Il moralismo è la prosecuzione dell’utopia totalitaria con altre armi, quella di questi tabù. Come un riposo per chi si sottrae all’obbligo della verifica critica, il moralismo – e i suoi cascami, il puritanesimo su tutti – porge alla società un kit di norme riconducibili tutte al vomitino perbenista. Ed è l’élite a farsi garante del compimento filantropico se poi all’inaugurazione del 48esimo World Economic Forum, dopo aver ammirato Roberto Bolle, la vera photo opportunity di Christine Lagarde, chiamata alla guida del Fmi, è quella con la coppia simbolo della redenzione compiuta: Elton John e maritino.
Il moralismo è la struttura politica che intima alla natura – la tanica in cui si versano, in pazzotico disequilibrio gli errori e il definitivo altolà in nome di un umanitarismo genericamente culturale.
Il moralismo – e i suoi cascami, il puritanesimo su tutti – porge alla società un kit di norme riconducibili tutte al vomitino perbenista. A Davos, la vera photo opportunity di Christine Lagarde è quella con la coppia simbolo della redenzione compiuta: Elton John e maritino
Justin Trudeau, il premier canadese, sana la discriminazione contro la comunità Lgbt, indennizza tremila vittime con 66 milioni di euro per le vessazioni subite nella pubblica amministrazione e nel darne notizia nel novembre scorso si commuove – “E’ con vergogna, tristezza e profondo rammarico per le cose che abbiamo fatto” – e piange, appunto: “Sono qui e dico: abbiamo sbagliato, ci scusiamo, mi dispiace, ci dispiace”.
Justin Trudeau è lo stesso acclamato statista che sotto il tappeto del salotto globale tiene accuratamente nascosti gli aborigeni, i nativi americani che nel civile Canada patiscono un apartheid insopportabile ancor più perché nascosto ai radar dello storytelling dei millennial, ho visto una di queste riserve a venti minuti di Montreal neppure un anno fa, ne ho ricavato un reportage ma, insomma, la domanda è rimasta appesa: chissà quando ci sarà anche per loro – per i pellerossa – il “mi dispiace, ci dispiace”?
Il moralismo non consente oltraggi all’ardente dedizione del Canone.
Toro Seduto, mi sono fatto quest’idea, è troppo radicato nella natura per assurgere a un’urgenza precettistica. Ed è innestato anche nella geografia ben precisa di un luogo, uno stare nel luogo proprio, da cui deve essere – pur padrone di casa qual è – scalzato via. Ed è puro messianismo: né più né meno che i dinosauri cui la civiltà ha chiesto graziosamente di estinguersi, così gli Indiani d’America.
E mi sono fatto questa idea – che non beneficiano del sabba moralista della correttezza – perché riconoscere la ferita inferta loro macchierebbe la verginità del Mondo Nuovo, inedito rispetto a qualunque stortura arrivata sempre da altrove, da dove sorge il sempre vivo razzismo, l’urto dannato che i giornali della destra atlantista individuano già, sempre risorgente, nelle casbah del Maghreb.
La loro vicenda – quella dei Nativi che sono pur sempre euroasiatici, vigili nell’archetipo mai rinnegato dello sciamanesimo guerriero – è solo una pratica da nascondere. Non è la stessa cosa degli afroamericani, comunque arrivati dall’Africa e comunque portati dagli europei, (adesso anche dagli arabi secondo la vulgata di Steve Bannon), e sfregiati dalle catene di questi, e non dai Padri Pellegrini o dallo sfolgorante Triangolo del Sacro Dollaro la cui edificazione morale fortifica, va da sé, i Templi alla Virtù e scava profonde prigioni al Vizio.
Il moralismo che è un’ideologia, infine, incontra lungo il cammino degli irriducibili. L’identificazione del sé, nella dialettica dell’ideologia, è sempre costruita in ragione dell’individuazione: un nemico. E come la classe degli sfruttatori è nemica per il comunismo, come il giudaismo è nemico per il nazionalsocialismo, come il maschio è nemico per la donna, giusto ad alzare nel paradosso un andazzo ormai assurto a Dominium e così i popoli difficilmente redimibili – i pellerossa, come in questo caso – difficilmente possono assurgere al rango di “minoranza egemone”.
Solo nella rappresentazione gay friendly di Ymca può vedersi il cappello del capo indiano su perizoma e natica messa a nudo, su tutto il resto no. Per il moralismo, l’ideologia dominante, i nemici da cancellare sono tutte quelle realtà in qualche modo generate dallo “spirito”.
Fossero pure vestigia e tracce su cui la pratica morale, svuotandone la legittimità, fabbrica la distanza che relega il passato a un inferno neppure pittoresco, ma da sottoporre a vergogna. Fosse pure il Papa quando fa il Papa, figurarsi Putin quando santifica l’Epifania immergendosi nelle acque gelide del lago o leggersi le pagine di Mille e una notte e così sognare Sherazade, avvolta nei veli perché, diciamola tutta, una cosa è il pudore – sacrissimo – un’altra è la morale, sempre pelosa e ipocrita.
L’istituzione in assoluto più morale, non beneficiando che di verginità pacificata – manco fosse un club service tipo Kiwanis – è l’Unione Europea ma per non consegnarmi direttamente alla polizia politica, a sostegno dell’assunto, offre un ben potente Sommo, ossia Vladimir Sergeevic Solovev che non è certo un Nostradamus.
Ecco, è Il Racconto dell’Anticristo, è una profezia in anticipo sul XX secolo che ancora oggi turba il sentimento nascosto della cristianità nel precipitare del dramma ecclesiale: “Tutto perde di significato affinché venga meno la vecchia struttura in nazioni separate e quasi ovunque scompaiono gli ultimi resti delle antiche nazioni monarchiche; si arriverà alla così all’Unione degli Stati Uniti d’Europa”.
La perfezione in Europa – la correzione secondo morale e non per crisma spirituale – è il capovolgimento di ogni tappa dello Spirito. La perfezione dell’Occidente – la correzione secondo morale e non per il compimento dell’Essere – è il capovolgimento dell’origine, la negazione dell’Ellade e di Roma, le due porte dell’universale, a fondamento di una scienza, quella della libertà dell’uomo, sacrificata sull’ara del “buon fine”. Squillano le note dell’Inno alla Gioia, Emmanuel Macron, con accurata regia – a gran passo, a Parigi – si prende il posto suo di presidente della Repubblica. Se solo ci fossero stati, lì, Zhong Zhong e Hua Hua, i due macachi rinati, avrebbero fatto ciao ciao con la manina perché Macron, sulle note del povero Beethoven degradato a Canone, in ogni falcata trascina con sé la solidarietà, l’amore per la pace, la cura per la natura, il dovere del dialogo, l’imperativo d’inveramento di una totale e appassionata adesione alla morale superiore. Fatta tutta di cose giuste.
Il Foglio sportivo - in corpore sano