Abbasso il #metoo

Mariarosa Mancuso

Letteratura e arte dopo le molestie. Quando si fa confusione tra vita e opere, e bisogna stare attenti a scrivere “tette” o a descrivere uno sguardo maschile. Eppure una volta pubblicare romanzi scandalosi era un punto d’onore, non di demerito. Indagine sulla nuova lolitofobia

Povero Oscar Wilde. Attaccato su due fronti. Rupert Everett gli dedica un film per omaggiarlo e suggellare una venerazione durata decenni. Sciaguratamente, “The Happy Prince” risulta un vanity movie di bozzetti dickensiani sul tema miseria & povertà. Intervallati da orgette mediterranee, languidamente fotografate. Per giustificare il titolo – la fine del dandy con il garofano verde all’occhiello fu straziante – usa come cornice la favola wildiana “Il principe felice”: disperato tentativo di imitare il Barone di Münchhausen, che sfuggì alle sabbie mobili afferrandosi per i capelli. Peggior sorte tocca al più prezioso consiglio di Oscar Wilde (volevamo dire insegnamento, a lui sarebbe venuta l’orticaria): “I libri non sono morali o immorali, ma scritti bene o scritti male”. L’abbiamo citata, ripetuta, lanciata contro gli avversari un migliaio di volte. Senza che nessuno provasse a controbattere. O magari sì, a qualcuno veniva in mente, l’obiezione morale. Ma il temerario sapeva che sarebbe stato immediatamente espulso dai confini della letteratura. E trasferito d’ufficio nel territorio dell’ideologia, del catechismo, dell’indottrinamento, delle letture edificanti, del minculpop, di qualsiasi altro strumento finora escogitato per raddrizzare il legno storto dell’umanità.

 

Pensavamo di averla fatta franca. Pensavamo di poter continuare a leggere libri scritti bene senza curarci della loro moralità. Peggio che mai, della moralità di chi li ha scritti, li scrive o li scriverà. Pensavamo di poter continuare a rovinarci leggendo, pratica che nei romanzi viene illustrata con dovizia di particolari, in “Madame Bovary” di Gustave Flaubert o nel “Don Chisciotte” di Cervantes. Avviandoci verso la rovina con maggiore diletto, da quando Roberto Fico ha decretato in un tweet: “Leggere rende migliori”.

 

Anche l’editoria, dopo il cinema, dove lo scandalo è scoppiato, viene passata al setaccio, nel tentativo di ripulirla da scorie sospette

Conti fatti senza #MeToo. Anche l’editoria, dopo il cinema dove lo scandalo Weinstein è scoppiato, viene passata al setaccio fine, nel tentativo di ripulirla da scorie sospette. Come accadeva nell’Ottocento, quando le menti assennate – o sedicenti tali – temevano le fake news chiamate romanzi. E cercavano di tenere il veleno lontano dalle menti influenzabili, per esempio le fanciulle che poi avrebbero faticato a trovare marito. L’inglese lo dice più chiaramente dell’italiano: “fiction” vuol dire “roba inventata”.

 

Il New York Times riferisce che un libro per bambini su Mario Molina, Nobel messicano per gli studi sul buco dell’ozono – “Mario and the Hole on the Sky” – sarà mandato al macero per le accuse di molestie all’illustratore David Diaz. Non se ne fa niente. O meglio, si ricomincia da capo. Arruolando un altro illustratore che – si spera – non abbia mai allungato le mani o fatto proposte indecenti. Sempre meglio che organizzare tour per i piccoli lettori rischiando l’ira delle mamme progressiste (chi altri infliggerebbe al bimbo favole sul buco dell’ozono?). L’autrice Elizabeth Rusch approva – o forse abbozza, pare abbia lavorato dieci anni all’edificante volumetto: “Scelta dolorosa ma giusta”.

 

Non capita solo agli scrittori per l’infanzia. Dieci donne (sette protette dall’anonimato) hanno accusato di molestie il pellerossa Sherman Alexie – “Danze di guerra” esce in italiano da NN. L’American Indian Library Association gli ha revocato un premio del 2008, al romanzo “The Absolutely True Diary of a Part-Time Indian”. La borsa di studio a lui intitolata – dall’Institute of American Indian Arts di Santa Fe – ha cambiato nome. Per evitare altri guai, Alexie ha chiesto all’editore di sospendere l’edizione tascabile del memoir “You Don’t Have to Say You Love Me”. Leggendo le accuse, così come sono state denunciate alla NPR – non un tribunale, la National Public Radio – scopriamo che la voce “comportamenti inappropriati” comprende sia il rimorchio di lettrice sia la brusca interruzione di un amorazzo al secondo appuntamento.

 

Accusato di molestie James Dashner della saga per adolescenti “The Maze Runner”. Gli editori troncano i rapporti

E’ stato accusato di molestie James Dashner di “The Maze Runner”, roba da 14 milioni di copie. Una di quelle saghe per adolescenti con crudeli riti di passaggio, prontamente adottate dal cinema: piacciono tantissimo ai giovani spettatori sempre assecondati, mai posti di fronte alle difficoltà, difesi dai professori che secondo i premurosi genitori “ce l’hanno con lui”. L’editore americano e l’editore inglese hanno troncato ogni rapporto (per i soldi non si sa, forse chiederanno i danni). In un vicolo cieco anche Jay Asher, lo scrittore di “Tredici”: quattro milioni di copie, la storia di una ragazza suicida che accusa amici e conoscenti in tredici cassette da ascoltarsi postume. Netflix produce la serie – puritani come loro non c’è nessuno, nella prossima stagione di “House of Cards” vedremo solo Claire Underwood – e immediatamente ha garantito che “Tredici 2” è Jay Asher-free (in streaming dal 18 maggio, il trailer minaccia “le cassette erano solo l’inizio”). Amazon ha adottato la stessa politica con Woody Allen, fanno da coro gli attori pentiti di aver recitato nei suoi vecchi film. Il Festival di Cannes avrà una hotline per vittime e testimoni di molestie: i pro-streaming e i pro-cinema-in-sala concordano sul fatto che le donne non sanno più cavarsela da sole. Che fine farà il film d’autore a luci rosse, finora presenza puntuale sulla Croisette, non è dato sapere. 

 

Si parla di una nuova clausola da inserire nei contratti letterari, un codicillo morale per consentire lo scioglimento in presenza di molestie (gli scrittori maledetti dei secoli passati si rigirano nella tomba, per fortuna pochi di loro avevano un regolare contratto). Sotto la mannaia finisce il Nobel per la Letteratura, tra i membri dell’Accademia di Svezia c’era un molestatore seriale, nonché marito di una giurata (che per consolarsi spifferava segreti in giro). Nel 2018 non sarà assegnato. I già premiati tremano. Annulleranno i premi e vorranno indietro il milione di euro? Faranno una seduta spiritica per evocare Alfred Nobel, in guerra da sempre con la letteratura come noi la conosciamo? L’inventore della dinamite non voleva premiare i più bravi, ma chi dava una spintarella al progresso dell’umanità.

 

Jonathan Franzen sarà pure antipatico, ma è un grande scrittore. E un moralista nel senso dei moralisti francesi, colti, pungenti e di ottima penna: conviene precisarlo, a uso degli indignati scarsi nella grammatica. In “Le correzioni”, uscito l’11 settembre 2001 (la fidanzata-scrittrice in preda all’invidia tirò un sospiro di sollievo: “Quel maledetto romanzo sparirà nel nulla”) vide piuttosto lontano, immaginando le traversìe di una sceneggiatura intitolata “La Porpora Accademica”.

 

Si parla di una nuova clausola da inserire nei contratti letterari, un codicillo morale per consentire lo scioglimento in presenza di molestie.

“Quel tuo continuo parlare di seni è un tantino disgustoso” obietta la fidanzata Julia a Chip, autore del copione nonché professore universitario che si è portato a letto una studentessa carina e rischia la denuncia. Julia insiste: “Mi sembrava di essere nel reparto pollame: petto, petto, petto, coscia”. Il tarlo fa effetto: a Chip tornano in mente, lampeggianti come una scritta al neon, tutte le occorrenze della parola “seni” nel manoscritto. Disperato, cerca di ricuperare il corpo del reato (ormai sulla scrivania della produttrice cinematografica Eden Procuro). Di notte ha gli incubi, inseguito da “un’orda di Furie simili nell’aspetto a seni senza corpo”.

 

Nel manoscritto si leggono frasi del tipo “i fari splendevano nella notte come due seni candidi” – ma si tratta, appunto, di robaccia scritta male. Aggravante, robaccia firmata dall’unico maschio americano che insegna “Teoria del femminismo”. In principio furono le signore studiose, ad acchiappare le cattedre quando vennero di moda i “Women’s Studies”. Poi a qualcuno venne il dubbio: sarà legittimo negare al maschio, purché non predatore, una cattedra in materia? Non sarà discriminazione?

 

Dopo #MeToo non basterà levare dai romanzi le tette e altre rotondità (a vedere “Loro 1” di Paolo Sorrentino sembra che si siano rifugiate tutte lì dentro). Bisognerà accertare che le donne non siano vittime del “male gaze”, lo sguardo maschile che ammorba. Non è un’invenzione recente: Laura Mulvey, studiosa di cinema e femminista, l’aveva diagnosticato in “Visual Pleasure and Narrative Cinema”, anno 1975. Di più: bisognerà accertarsi che la vita privata non contempli molestie, complimenti pesanti, signorine che dopo vent’anni ricordano un disastroso appuntamento, e decidono che l’umiliazione ancora brucia.

 

Scendono le quotazioni di chi scrive “tette” in un romanzo, salgono altre quotazioni. “Cat Person”, un racconto di Kristen Roupenian uscito sul New Yorker, ha procurato alla scrittrice un contratto milionario per un bestseller annunciato (fatto salvo l’ordine di grandezza che separa i numeri dei fenomeni virali su internet, perlopiù gattini o tette, dai numeri dell’editoria). Racconta una serata malriuscita, come ne capitano tante, tra una certa Margot e un certo Robert, dopo un corteggiamento via social (il titolo evoca la differenza tra “cat person” e “dog person”, gattari e canari).

 

“Cat Person” fa tornare in mente un racconto di John Cheever uscito nel 1954, sempre sul New Yorker. Lo legge e lo commenta Mary Gaitskill, in una fantastico podcast (prodotto dal New York Times) che accoppia storie classiche a scrittori d’oggi. Va aggiunto, per completare il puzzle, che Mary Gaitskill aveva scritto il racconto che ha suggerito a Steven Shainberg il film “Secretary” con Maggie Gyllenhaal e James Spader: la segretaria sbagliava apposta per farsi sculacciare dal capo. Nel 2002 si poteva girare e applaudire. Oggi è all’indice: si configura già come molestia – non in teoria, fa testo un’intervista alla Nbc – mostrare una scena del film a una stagista. E’ accaduto al giornalista e conduttore tv Charlie Rose.

 

Oltre mezzo secolo fa, in “L’accelerato delle cinque e quarantotto” John Cheever raccontò il breve incontro tra Blake il capufficio e la segretaria appena assunta: una trentenne esile, timida e brava in tutto, calligrafia a parte. Dopo qualche settimana di lavoro fuori orario, il capo propone un drink e la segretaria rilancia: “Se proprio ci tiene a bere qualcosa, a casa ho del whiskey”. Rilancio, piuttosto deciso. Si mettano il cuore in pace le teoriche del “Non poteva dire no, ne andava del posto di lavoro, quindi è stupro”. Inorridiranno a leggere ll seguito: “Dopo avergli preparato da bere lei era passata in bagno, dicendo che voleva mettersi addosso qualcosa di più comodo”. Dissolvenza. Mr Blake un’ora dopo se ne va, lasciandola piangente nel letto, e il giorno dopo la fa licenziare.

 

Trattenete lo sdegno, colpo di scena. Una sera la molestata & licenziata si fa trovare alla porta girevole del palazzo, Blake intuisce che è lì per lui. Spaventato, non la saluta, va avanti come se niente fosse, teme di essere seguito ma non osa girarsi. Medita di salire su un taxi da una parte e scendere dall’altra, entra in una pasticceria e scappa dal retro con le pastarelle in mano. Si infila in un locale per soli maschi, beve un gin, perde il treno, sale sul successivo, se la ritrova nello scompartimento. Con una rivoltella in borsetta e una gran voglia di vendicarsi.

 

Nel 1954 non si faceva confusione tra la letteratura e la vita. Valeva, come definizione di letteratura, “la distanza tra l’esperienza
e il modo di raccontarla”.

John Cheever scrisse racconti altrettanto crudeli (“Una radio straordinaria”, con l’apparecchio sintonizzato sui litigi e le miserie dei vicini, o “Il nuotatore”, ritratto della sconfitta e della desolazione nelle ville con piscina). Oggi sarebbe cacciato dai corsi di letteratura che non intendono turbare la sensibilità di studenti e studentesse: su dove finisce la sensibilità e dove comincia la suscettibilità varrebbe la pena di ragionare senza isterie, per non spazzar via la letteratura come l’abbiamo conosciuta finora. Nel 1954 nessuno si scompose, non solo perché “erano altri tempi” – e perché la ragazza, invece di lagnarsi con le amiche e scrivere ai giornali, reagisce con bella determinazione. Nel 1954, non si faceva confusione tra la letteratura e la vita. Valeva, come definizione di letteratura, “la distanza tra l’esperienza e il modo di raccontarla”. I tentativi di ridurre la distanza in nome dell’autenticità non hanno prodotto risultati notevoli. Hanno solo alimentato il vittimismo.

 

Siamo all’ennesima variazione su “La cultura del piagnisteo”, inchiodata con dovizia di esempi dal critico d’arte Robert Hughes nel suo saggio del 1994. Il racconto di John Cheever non fu chiosato dando giudizi morali sui protagonisti, né le lettrici scrissero al New Yorker per denunciare “è capitato uguale anche a me”. “Cat Person” ha fatto discutere più della malaserata – esposta nei minuti dettagli: sarà offensivo offrire vino rosso a una ragazza che preferisce il bianco? – che del talento letterario di Kristen Roupenian. Nella futura raccolta di racconti – titolo: “You Know You Want This” – l’editor promette storie “nere, divertenti, irriverenti”. Non sta a lui disprezzare la mercanzia in vendita. Se sia nata una scrittrice, oppure una lamentatrice, si saprà a febbraio del 2019.

  

"Il marito strapazzato di Emma Bovary, i racconti crudeli di John Cheever, “Lolita” bersaglio perfetto. Quando entrano in scena i revisionismi e la cultura del piagnisteo"

 

Conviene aprire una parentesi, per rivelare l’orribile verità. Banale, ma la superficie di questi tempi è assurdamente sottovalutata: tutti scavano e scavano, non abbiamo capito per trovare cosa. Come mai dopo tanti secoli leggiamo e rileggiamo Jane Austen? Primo, perché era brava. Secondo, perché inventava (con buona pace di chiunque abbia frugato tra le sue carte e spettegolato sulle corrispondenze tra la vita e l’opera). 

 

Ci sono, ovvio che le corrispondenze ci sono, ma non somigliano per niente alle condivisioni su Facebook. Perfino Airbnb non affitta più case ma propone “esperienze” pronte per finire su Instagram: sane e emozionanti come la foto del riso bollito. Paradossale contrappasso per chi non riesce più a procurarsele da solo, le esperienze, E si spaventa perfino a leggerle in un romanzo – che è come scendere tra gli squali ben protetti dalla gabbia.

 

Sarebbe ora di finirla con i revisionismi che attribuiscono a Jane Austen fidanzati da cui trarre ispirazione per Mr Darcy. Ultimo pervenuto: “The Lost Memoirs of Jane Austen”, scritto da Syrie James. Trama: Jane ha smesso di scrivere, incontra un colto e affascinante forestiero, scoppia l’amore e finisce la crisi. Ne escono a quintali, immaginiamo schiere di lettrici che invece di applaudire un genio – oddio, adesso ci picchiano, bisognerà declinarlo al femminile – sente il bisogno di fidanzarla. Stessa reazione davanti a Maria Callas, che nel documentario “Maria By Callas” dice – tra un sacco di altre cose – “alla carriera avrei preferito marito e figli”. Frase riportata ovunque, tanto forte è la smania di ridurre la Callas a “una di noi”.

 

Non è la prima volta che la correttezza politica pretende emendamenti ai romanzi. Funziona così: un personaggio secondario viene tirato fuori da dove lo scrittore lo aveva collocato, allo scopo di risarcirlo o restituirgli dignità. Vale per il marito strapazzato di Emma Bovary, o per Venerdì al servizio di Robinson Crusoe, o per il forzato Magwitch nel dickensiano “Grandi speranze” (si attende l’animalista fanatico che in “Moby Dick” di Herman Melville starà con la balena). “Il grande mare dei sargassi” di Jean Rhys è dedicato alla pazza che brevemente appare in “Jane Eyre” di Charlotte Brontë. La prima moglie creola tenuta prigioniera in soffitta, scappa per strappare il velo di nozze e dar fuoco alla magione lasciando Rochester sfigurato (ma è vero amore, quindi Jane Eyre torna e giura all’ex padrone eterna fedeltà). La furiosa tradita ha origini giamaicane, maltrattata dal marito colonizzatore britannico – non è la solita guerra tra prime e seconde mogli.

 

Il romanzo-elefante-nella-stanza, nel Novecento, è “Lolita” di Vladimir Nabokov: una delle più belle storie d’amore del secolo, se non l’unica (ve ne viene in mente un’altra? si accettano suggerimenti). “El síndrome Lolita: el fenómeno cultural de una violación permitida”, scrive Maya Mutter in un libro del 2015, ora rispolverato da El Mundo. Non avevamo sentito nominare prima né la scrittrice né il saggio. Invece sappiamo un sacco di cose su Vladimir Nabokov e Lolita – qualcosa vorrà pur dire. Ms Mutter partecipa a “Project Consent”, progetto internazionale varato nel 2014 dove il “male gaze” è diventato, con un upgrade decisivo, “rape culture”.

 

Le molestie sono un potente “argomento di vendita”. Funzionano anche con la vecchia Odissea. Il romanzo dell’estate 2018, annuncia il Sunday Times, si intitola “Circe”.

Il bersaglio perfetto ha avuto già il suo ribaltamento. Nel 1996 Pia Pera scrisse “Diario di Lo” (Ponte alle Grazie). Per dare “asilo politico a un personaggio che non ha voce propria e sta nel titolo come proiezione passiva di un desiderio estraneo e in ultima analisi ostile”: più precisa definizione del “male gaze” non sarebbe possibile. La “vera” Lolita ha da ridire su come viene presentata, e fatta morire – leggi: su tutti i dettagli della sua storia che sono stati cambiati oppure omessi in nome della letteratura (se no, di nuovo, sono come l’instagram degli scampi nel piatto, ognuno ha i suoi).

 

Dolores si presenta con un marito e un figlio. All’Olympia Press, la casa editrice parigina che nel 1955 accettò di pubblicare – in inglese – l’audace romanzo dove Dolores diventa Lolita (usciranno lì anche gli scrittori della beat generation). Da non crederci: ci sono stati anni in cui i dottori facevano la pubblicità alle sigarette – gli spot sono ricostruiti nel film “Good Night and Good Luck” di George Clooney. E ci sono stati momenti in cui pubblicare romanzi scandalosi era un punto d’onore, non di demerito. Annotatelo da qualche parte, lo stiamo dimenticando.

 

La ragazza ha con sé un diario, scritto di nascosto dal maturo seduttore. Primo giudizio di lettura: “Non merita molto, ma pensavo che a un occhio femminile avrebbe fatto un effetto diverso”, dice il direttore della casa editrice, passando il manoscritto a una collega. L’occhio femminile non concorda: “Come tutte le adolescenti del mondo, anche questa si crede speciale”. Il diario fittizio di Dolores verrà alla fine pubblicato. Il romanzo di Pia Pera rimase intrappolato in questioni legali sollevate da Dimitri Nabokov, figlio dello scrittore, che considerava Lolita tra gli asset ereditari.

 

"L’incrocio con il “cretino specializzato” che impone di togliere dai musei
le ragazzine di Balthus. La censura a libri e film e quadri come primo passo verso il totalitarismo"

 

Le molestie – come i retroscena: “Lolita parla!” – sono un potente “argomento di vendita” (lo scrivono gli editori nelle schede fornite ai librai). Funzionano anche con la vecchia Odissea del vecchio Omero. Il romanzo dell’estate 2018, annuncia il Sunday Times, si intitola “Circe”. Firmato da Madeline Miller, viene celebrato – in chiave #MeToo – come “la storia di una donna che combatte per essere ascoltata in un mondo maschile”. Circe non è più la strega che trasforma in maiali i compagni di Ulisse, ostacolando il ritorno del guerriero dalla fedele Penelope. Strega era piuttosto, per le femministe, Hillary Clinton: il più recente e clamoroso caso (clinico) di anti-femminismo.

 

Parlando di revisionismo, e siamo di nuovo al cinema, sul New Yorker Molly Ringwald ripensa a “Breakfast Club” nell’era delle molestie: “Revisiting the movies of my youth in the age of #MeToo”. Il film di John Hughes è appena entrato nella Criterion Collection e sta nella Biblioteca del Congresso. I ragazzi degli anni 80 ricordano che l’attrice e il regista girarono tre film insieme, lei finì sulla copertina di Time e lui fu considerato un genio. Quando la categoria Young Adults che oggi contribuisce a risanare i bilanci editoriali non esisteva. Quando i film con adolescenti femmine – “Bella in rosa” o “Sixteen Candles: Un compleanno da ricordare” – erano rarissimi (oggi sono perlopiù di fantascienza o fantasy: vampiri, distopie, lupi mannari).

 

Razzista, misogino, omofobo. Sono le accuse che la Molly Ringwald di oggi muove a John Hughes. In parte derivate dai film, in parte da un libro di racconti che oltre a storie intitolate “My Penis” e “My Vagina” – due adolescenti si svegliano portatori di un sesso diverso da quello con cui si sono addormentati – ne contiene uno intitolato “Sexual Harassment and How to Do It!”.
Scritto a quattro mani da John Hughes con Ted Mann, ora sceneggiatore di “Homeland” – altra serie in pericolo, con i criteri che impongono esistenze al di sopra di ogni sospetto – e vincitore di sette Emmy (a rischio di revoca). Il manuale è davvero tale: insegna ad arruolare segretarie scarse nel proprio lavoro – quindi più arrendevoli alle avance sessuali, e licenziabili quando sarà necessario (non sappiamo se avessero presente il racconto di John Cheever, le somiglianze sono impressionanti). Nel caso remoto di una denuncia, sono elencati i modi per ingraziarsi i poliziotti.

 

Il femminismo dovrebbe creare storie nuove, invece di ribaltare le vecchie rifiutando di mettere in scena la zingara (si può dire?) e sigaraia Carmen ammazzata da Don José.

Molti ragazzini riferiscono però che “Breakfast Club” – quattro studenti in punizione, tutto un sabato nella biblioteca della scuola a scrivere il tema “Chi credo di essere”, tra una canna e l’altra – ha salvato loro la vita. Mostrando altri adolescenti disadattati, ribelli e fragili. Fregandosene di loro, Molly Ringwald insiste con la domanda: “Cosa fare con film (o libri, o altro) che amiamo per come sono girati o scritti, e odiamo perché non rispettano la correttezza politica?”. Spiace dover ripetere che Oscar Wilde aveva già risposto, in tempi meno bacchettoni dei nostri, quando fare la vittima non era una professione.
Se registi e romanzieri se la passano male, figuriamoci gli artisti che dipingono donne nude. Nelle nostre preferenze, i film sui pittori sono piuttosto in basso – spesso in costume, condividono con i film sui musicisti l’idea che l’ispirazione vada espressa con una gestualità esagerata. Puntuale la scena con la modella davanti al pittore vestitissimo (vestiti anche i discepoli, in bottega o all’accademia). “Who’s Afraid of the Female Nude?” titola il New York Magazine, facendo il verso a “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, che a sua volta faceva il verso a “Who’s Afraid of The Big Bad Woolf?”, chi ha paura del lupo cattivo? Tra gli artisti intervistati, uno subito si arrende: “ho smesso con il figurativo, solo roba astratta”. Altri rifiutano di parlare del loro lavoro con le molestie incombenti. Forse si vergognavano di dover dare la stessa risposta. Michael Slenske, che firma l’articolo, dà la colpa a Twitter: “E se poi – pensa l’artista – mi scappa di bocca qualcosa che diventa virale e mi crocifiggono?”
Torna fuori il “male gaze”. Peggio, il “white male gaze”. Reso esplosivo dall’incrocio con il “cretino specializzato” (copyright Ennio Flaiano “oggi anche il cretino è specializzato”) che impone di togliere dai musei le ragazzine di Balthus (sempre la prima scelta per chi aveva da illustrare una Lolita letteraria o cronachistica). Quando i musei non ci pensano da soli, a levare di mezzo le ninfe al bagno nei dipinti vittoriani. “Vittoriani”, bisogna insistere, mica di Jeff Koons sposato a Cicciolina: speriamo che almeno la regina Vittoria si faccia una risata nella tomba.

 

Una galleria di immagini sfida il lettore: “Sai riconoscere se questo quadro è stato dipinto da una donna o da un uomo?”. Era un vecchio gioco già sfinente quando si parlava di scrittura femminile, e ora torna fuori con Elena Ferrante. Dietro lo pseudonimo si nasconde una signora oppure un energumeno con la barba, come i camionisti in chat che si fingono timide ragazzine? Inutile riproporre la questione con i romanzi recenti: ormai i maschi hanno deciso di battere le donne sul loro terreno, e resocontano con piglio da verbale di polizia tutte le scopate deludenti (ma di questo un’altra volta).

 

Nel caso l’avessimo dimenticato, la censura a libri e film e quadri è il primo passo verso il totalitarismo. Lo ricorda “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood, rilanciato dalla serie tv (la seconda stagione su TimVision). L’ancella racconta – il romanzo ha la forma classica del manoscritto ritrovato, su audiocassette perché siamo negli anni Ottanta – la sparizione del cinema, dove le donne indossavano camicette sbottonabili, non le palandrane porpora e il velo bianco. Uno dei fautori del nuovo ordine – le donne sono proprietà dei maschi fin dal nome – ribadisce: “Il nostro grande errore è stato insegnar loro a leggere”. Da qui la schizofrenia. Viene deplorata una società futura dove le disobbedienti sono punite con la lapidazione. Dall’altra si fanno i primi passi, censurando libri e film, verso un mondo che a Gilead prima o poi somiglierà.

 

Il femminismo dovrebbe creare storie nuove, invece di ribaltare le vecchie rifiutando di mettere in scena la zingara (si può dire?) e sigaraia Carmen ammazzata da Don José. Scendendo verso il pop: nelle attrazioni Disney France le figuranti non vengono più insolentite e palpate dai pirati ubriachi. Fa piacere che nella terza stagione di “Genius”, la serie prodotta da National Geographic – dopo Einstein con Geoffrey Rush e Picasso con Antonio Banderas – vedremo Mrs Shelley che ci ha dato Frankenstein e la creatura (a proposito di film sui pittori, quanto è brutto il poster con le ditate di colore in faccia). Fa un po’ meno piacere che finora siano stati tributati così pochi riconoscimenti a una che – nel 1816, ancora non aveva vent’anni – ha cambiato per davvero e per sempre il nostro immaginario. Vincendo una gara di scrittura con due maschi.

 

Rubiamo volentieri a El Mundo la parola “postcensura”: era nell’articolo sulla Lolitofobia e descrive bene quel che sta succedendo. Nel film fantascientifico “Il dormiglione”, Woody Allen fa dire a uno scienziato del futuro, parlando del 1973: “Possibile che fossero così cretini da non capire il valore nutritivo delle merendine?” Pensando a noi, i posteri diranno: “Possibile che fossero così cretini da non capire la genialità di Woody Allen e la bravura di Kevin Spacey?”.

 

Finiremo così, sbeffeggiati dai pronipoti. Rimpiangendo scrittori meno timidi e meno disposti a chinare il capo. Shirley Jackson, altra magnifica scrittrice pubblicata dal New Yorker, rispose con una lettera a un lettore che protestava. Per “La lotteria”, uscito nel 1948: atroce racconto su un’estrazione a sorte per scegliere l’abitante del villaggio da sottoporre all’annuale lapidazione purificatrice (lo stesso meccanismo di “Hunger Games”, ogni distretto sacrifica due giovani che combatteranno nell’arena televisiva). Poche e precise parole: “If you don’t like my peaches, don’t shake my tree”. “Se non ti piacciono le mie pesche, stai alla larga dal mio albero”. 

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