Donald Trump (foto LaPresse)

Innamorarsi di Trump

I successi inaspettati del presidente impresentabile, il mondo soffocato da un individualismo minaccioso, le divisioni della politica in tribù. Pensieri senza balaustra sulla crisi occidentale e i suoi derivati visti con gli occhi di uno degli intellettuali più importanti d’America: David Brooks

Scavalcato l’inevitabile luogo comune su Venezia, per l’occasione enunciato in traduzione (“Venice is beautiful, but I would never live there”), si parte per una ricognizione a volo d’uccello sull’ampia fetta di mondo che cade sotto lo sguardo di David Brooks, opinionista eminente del New York Times e intellettuale di persuasione conservatrice e tendenza sociologica notoriamente onnivoro, a tratti insaziabile. Si occupa con la stessa, partecipata intensità di un luogo di educazione alla bellezza di Como chiamato Cometa, dal quale è appena tornato con gli occhi sognanti, dell’influenza di Putin nella storia di questo evo, dell’impatto della tecnologia sulla conoscenza, dell’Opzione Benedetto, del #MeToo, dei tic delle giovani generazioni e delle sanguinose congiure politiche che vanno in scena ogni giorno (ogni ora, ogni minuto) nella Casa Bianca di Donald Trump. Gli anni passati in Europa, con base a Bruxelles, per il Wall Street Journal sono stati l’antidoto a una certa autoreferenzialità in cui, alle volte, scivolano anche i più grandi pundit americani. Parliamo a un tavolino assolato sulla Fondamenta degli Ormesini, nel Sestiere Cannaregio, mezzo passo fuori dalle malebolge dell’instagrammazione seriale. Qui una volta era tutto un commercio di tessuti dell’isola di Hormuz, nell’odierno Iran, ma il governo imponeva dazi sulle merci forestiere, così gli scaltri tessitori veneziani si erano risolti a produrre drappi locali giusto ispirati allo stile persiano. Ed ecco tracciata l’improbabile linea che unisce lo spritz, il protezionismo nazionalista e l’accordo nucleare con l’Iran fatto saltare in aria dall’artista del deal. Tanto per ricordarsi che la storia non è nata ieri. Brooks parla come scrive – ordinato, euclideo, con fiammate sferzanti – non come mangia i cicchetti di un bar locale, cioè lentamente e in modo compassato. Quando affronta un argomento sembra di vedere i pensieri che si organizzano in paragrafi, sottopunti, capoversi, ma ciò che colpisce è la capacità sintetica. Ogni volta che si parla di Trump è normale perdersi nei dettagli, il quartiere in cui, com’è noto, abita il diavolo. Ci sono il tentato capolavoro diplomatico con la Corea del nord, la grande uscita dal “peggiore accordo di sempre” con gli ayatollah, c’è il compimento dell’epopea di Gerusalemme capitale, ma ci sono anche i continui rimpasti, le furibonde liti interne, le accuse di una pornostar agguerrita e poi gli spifferi, le maldicenze, i deliri via Twitter, c’è un avvocato-faccendiere che vorrebbe essere Roy Cohn e invece è soltanto Michael Cohen, goffa ombra del suo leggendario predecessore, ci sono le uscite sbagliate e le tasse tagliate, le mille crisi e le mille sfumature di impresentabilità, l’ombra lunga dell’inchiesta di Robert Mueller, che a seconda dell’osservatore è caccia alle streghe o sacrosanta pratica democratica, ci sono i nevertrumpers azzoppati ma non azzittiti e il circo estenuante che non conosce differenza fra il giorno e la notte. Su cosa fissare lo sguardo? Come orientarsi? Qual è il punto di questa colossale ubriacatura? Brooks lo dice senza edulcorare: “La vera storia di Trump è il suo successo”. Si parte dunque dal punto più improbabile: il successo di Trump.

 

“Pensavo che a forza di scandali e di bugie la sua popolarità sarebbe calata presso i repubblicani.
Non è andata così”

“La resilienza del presidente è il dato fondamentale di questa confusione incomprensibile. Ero ferocemente contrario a Trump, e pensavo che a forza di scandali, di bugie e di imbarazzi la sua popolarità sarebbe calata presso i repubblicani. Non è andata così. Il sostegno fra i conservatori è all’89 per cento, il più alto di sempre. Ero di recente a un evento importante con un gruppo di finanziatori repubblicani, gente che muove soldi veri. Due anni fa questi erano tutti contro Trump; un anno fa erano ambivalenti; adesso sono tutti con lui. In minima parte è per via dei tagli alle tasse, ma la cosa importante è che lo concepiscono come il loro uomo. E’ il capo del partito, non è stato un disastro come temevano e hanno deciso di sostenerlo. Finora è stato molto più stabile e resistente di quanto avessi mai potuto immaginare. E nel tempo ha sviluppato anche più fiducia in se stesso. All’inizio si è circondato di persone non trumpiane, e per trumpiano intendo quella tradizione che unisce la commissione dell’America First degli anni Trenta, Pat Buchanan e i paleoconservatori. Si colloca in quella tradizione, anche se non ho idea di dove abbia assorbito quella filosofia, che pure agita con una certa coerenza. Nel tempo ha assunto sempre più persone simili a lui. John Bolton parlava di America First molto prima di Trump, negli anni Novanta, e ha sempre avuto una visione realista del potere americano: niente ideali, niente esportazione della democrazia, l’interesse nazionale come unica guida. Così Trump è diventato sempre più trumpiano, ha assunto una qualche coerenza, e si è progressivamente circondato di gente che crede sempre di più in ciò in cui crede lui. Bolton è un raro caso di outsider ideologico che è anche un efficace insider di palazzo: nella Casa Bianca mancano figure che abbiano un’idea di cosa significhi governare, ma lui invece un’idea ce l’ha”.

 

Però anche il predecessore, H.R. McMaster, aveva la stessa abilità. “Il problema è che parlava troppo. Per Trump tutto è personale. E’ un re, non un presidente. 

 

Nei ranghi militari McMaster era famoso per andare sempre lungo nei discorsi, e credo che Trump si sia annoiato, tutto qua. Si libera in fretta di quelli che lo seccano, anche per motivi futili. Poi sì, c’erano anche altri fattori: Jim Mattis non era soddisfatto del suo lavoro, e tutto quello che si vuole, ma il punto è che non è stata una scelta ideologica. Trump ama essere attorniato da gente che lo fa sentire bene”.

 

“All’inizio si è circondato di persone non trumpiane. Nel tempo ha assunto sempre più persone simili a lui, come John Bolton”

Una teoria dice che se togliamo di mezzo i tweet e tutti gli altri rumori di fondo, quello che rimane dell’amministrazione in termini di policy è una ricetta conservatrice standard messa in tavola dai repubblicani al Congresso. A conti fatti, Trump si è avvicinato all’establishment? “Trump ora è l’establishment. Si pensava che il Partito repubblicano sarebbe sopravvissuto nella misura in cui fosse rimasto saldo sul libero mercato e sul commercio. Ma quel partito, quello in cui sono cresciuto quand’ero al Wall Street Journal, non esiste più. E non ritornerà. Non è che l’establishment si è improvvisamente volatilizzato e lui intanto twitta in libertà: lui è l’establishment, cioè incarna ciò in cui il partito crede. Non credo sia un’amministrazione normale. Conosco molta gente che lavora lì dentro, e tutti sono profondamente infelici. Domina la cultura della pugnalata alle spalle, non c’è alcuna leadership dall’alto, ci sono disparità di trattamento, tutti mentono continuamente, ci sono leak a ogni minuto. Qualche giorno fa è venuta a casa mia una persona che lavora nell’amministrazione e non era mai stata prima in una posizione di governo. Mi ha chiesto: ‘E’ vero che in altre amministrazioni c’era un senso di comunità, di un’impresa comune? Fra di noi non c’è minimamente, è un covo di serpi’. Questa è la descrizione che ho sentito da molti. Quindi non si tratta di una amministrazione normale con l’aggiunta di Twitter, è completamente inusuale e irreale. Non ho idea di come faccia ad andare avanti, però ci riesce. Ed è questo il punto: ci riesce”.

 

Il clima febbrile dunque fa parte del modus operandi di Trump, è un tratto, per dire così, positivo? “Trump non crede nei sistemi impersonali, che sono un grande lascito della modernità. Crede in sistemi di autorità personali e premoderni, e in un certo senso il partito è costituito da lui e da Fox News. I repubblicani al Congresso sono contrariati e arrabbiati, lo disprezzano e cercano di sopravvivere, ma non guidano la macchina. Si adattano, cercano spazi. Se Ryan fosse davvero la guida occulta del partito non si sarebbe dimesso. E’ vero che il ruolo di speaker non apre le porte della Casa Bianca di solito, ma ci sono politici che sono stati speaker molto a lungo”.

 

“Il paradigma Reagan-Thatcher è durato dal 1984 al 2016… Quello che non avevo capito è che non ci sarebbe stata una fase
di competizione fra paradigmi: Trump è diventato il paradigma.

Dice che il vecchio Partito repubblicano è morto: significa che Trump ha soltanto messo il sigillo su un processo già in atto? Se non è Trump la causa remota, cosa lo ha fatto crollare? “C’è un famoso libro di Thomas Khun intitolato La struttura delle rivoluzioni scientifiche in cui dice che nella scienza un certo paradigma spiega la realtà per un certo periodo, poi nuovi dati ed evidenze si accumulano e mettono in crisi il paradigma. A quel punto qualcuno tocca il paradigma già sotto pressione e questo collassa di colpo. Inizia così la fase dei ‘paradigmi competitivi’, che va avanti fino all’affermazione del nuovo paradigma. Il paradigma Reagan-Thatcher è durato dal 1984 al 2016, e gente come Paul Ryan non ha mai cambiato idea dal 1984. Sono state prodotte pochissime nuove idee e nuovi pensieri da allora. Gli elettori, invece, si sono mossi. Si sono trovati ad affrontare nuovi problemi, nuove preoccupazioni. Trump è arrivato e con un ago ha fatto scoppiare il vecchio paradigma come se fosse un palloncino. Quello che pensavo, all’inizio, è che Trump fosse soltanto l’uomo con lo spillo che tocca il palloncino. Negli anni Sessanta abbiamo avuto Abbie Hoffman, che era una specie di clown della New Left bravissimo nell’esporre, in modo teatrale e anche cialtrone, gli errori del vecchio ordine della sinistra. Ecco: io pensavo che Trump fosse un Abbie Hoffman della destra. Quello che non avevo capito è che non ci sarebbe stata una fase di competizione fra paradigmi: Trump è diventato il paradigma. Il suo buchananismo-nativismo ha rimpiazzato istantaneamente il vecchio ordine della destra internazionalista e liberista”.

 

 

Rimane il problema: cos’ha reso fragile il modello reaganiano? E’ forse l’implicita visione liberale dell’uomo e della società che era alla base di quel progetto conservatore? “E’ esattamente il punto. Per quel mondo conservatore, l’individuo-che-sceglie era l’unità elementare della società, non la comunità. Ci siamo spostati da un ethos degli anni Quaranta e Cinquanta il cui motto era ‘siamo insieme in questo progetto’, permeato dal forte senso di un destino collettivo, a uno spirito individualista che ha conquistato definitivamente la scena nel 1962. Il suo motto era ‘sono libero di essere me stesso’ e aveva due versioni, una di sinistra, basata sulla giustizia sociale, e una di destra, basata sulla libertà economica. Significa che abbiamo avuto quarant’anni di puro individualismo che ha logorato il tessuto della nostra società. In questo periodo ci sono state tre crisi concomitanti: la prima è una crisi di solitudine. Vent’anni fa il venti per cento degli americani soffriva di solitudine, adesso è il quaranta per cento, mentre i suicidi e la dipendenza da oppiacei sono in crescita. La seconda è una crisi di alienazione, nel senso dell’alienazione da tutte le istituzioni, che non rappresentano più il popolo. La terza è una crisi del telos: si è persa l’idea del significato, dello scopo del vivere. L’aumento della depressione e il collasso delle chiese tradizionali sono due sintomi di questa crisi. Quando lasci le persone nude e sole, fanno quello che le loro radici evolutive dicono loro di fare, cioè si organizzano in tribù. Il tribalismo diventa così il modo in cui si formano le comunità. Trump è il tribalista per eccellenza. Tutta la sua retorica è impostata sulla distinzione fra noi e loro, fra amici e nemici. Quello che mi sembra importante capire è che la causa primaria di questa triplice crisi è sociale, non economica”.

 

Trump è il tribalista per eccellenza. Tutta la sua retorica è impostata sulla distinzione fra noi e loro, fra amici e nemici”

Perché proprio il 1962? “La Dichiarazione di Port Huron ha segnato l’inizio dell’individualismo della New Left, e la Feminine Mystique di Betty Friedan è di quell’anno. Una serie di romanzi usciti in quegli stessi mesi rappresentava un sentimento montante di ribellione contro il conformismo degli anni Cinquanta”.

 

Ma Tocqueville non aveva già notato questa pericolosa pulsione individualista nell’anima americana con 130 anni di anticipo? “La società americana è sempre stata più individualista di molte società europee dell’Ottocento, ma ora c’è questo dibattito, suscitato soprattutto da Patrick Deneen, sulla sua origine. Lui sostiene che questo tratto era presente dall’inizio, è connaturato all’esperienza americana, ma io non sono d’accordo. Penso che la democrazia sia un sistema morale basato sulla dignità umana, non credo si tratti dell’espressione di un individualismo selvaggio, e sono convinto che abbia il potenziale per concorrere al compimento degli esseri umani. I Padri fondatori, e poi Washington e Lincoln, avevano una profonda fede religiosa che attraversava e abbracciava il sistema istituzionale americano. Il senso di uno scopo nazionale è impresso nell’origine degli Stati Uniti, c’era una causa per cui si era disposti a morire. Il liberalismo è coerente con questa impostazione. Se leggi le lettere che i soldati mandavano a casa durante la Guerra civile si capisce che la causa americana era un’escatologia, una fede secolarizzata. Non penso quindi che il passaggio dal liberalismo all’individualismo sia inevitabile”.

  

“Il partito di Reagan in cui sono cresciuto è morto, e non tornerà più”. Quarant’anni di individualismo, di destra e di sinistra, ci hanno lasciato soli, alienati e senza scopo

 

Che ruolo ha avuto la Guerra fredda nella creazione di quella identità dei repubblicani che poi è stata spazzata via da Trump? “Chi di noi è cresciuto nella Guerra fredda ha respirato l’idea che l’America rappresentava un bene per il mondo intero. Siamo stati educati in quel modo, e così si è formata la nostra visione del mondo. La storia dell’America era la storia di un esodo dall’oppressione e della costruzione di una nuova libertà attraverso la nostra bellissima democrazia. Durante la Guerra fredda le prove della bontà di questo progetto erano sparse ovunque. Se hai meno di quarant’anni non hai sperimentato niente di tutto ciò. Il sistema educativo americano non è stato in grado di trasmettere l’idea che l’America è una forza benevola. Passo molto tempo con gli studenti universitari a cui insegno: non sanno molto della storia americana, ma quello che sanno è una storia di oppressione. Degli afroamericani, degli indiani, delle donne. Non hanno la stessa idea che hanno quelli con più di quarant’anni, cioè che c’è una narrazione nazionale che ha a che fare con la nascita di un certo tipo di società. Hanno perso la fede nell’America. E questo fa imbestialire tanti americani con più di cinquant’anni, che invece erano degli adepti di questo credo. In questo senso, la Guerra fredda non è la storia di una vittoria contro un nemico esterno, quanto una sconfitta autoinflitta: ha mostrato la nostra incapacità di raccontarci e raccontare di nuovo la storia che ci ha uniti all’origine”.

 

Ha ragione Mark Lilla quando nel suo The Once and Future Liberal sostiene che l’individualismo è un tradimento del liberalismo? “L’individualismo di sinistra ha prodotto le tribù, e la identity politics è una forma di tribalismo. Quello che è andato perso è il senso di un’appartenenza comune. Se cerchi di spiegare la storia degli Stati Uniti come un nuovo Esodo ai giovani, ti ridono in faccia. Adesso abbiamo varie narrazioni nazionali. Una è quella della Silicon Valley, che dice che siamo tutti cittadini globali in un mondo proteso verso il futuro; un’altra è quella multiculturale, secondo cui ciascuno è parte di un gruppo oppresso, e il più oppresso ha più dignità; poi c’è quella repubblicana, per cui l’individuo è un essere solitario che crea da sé la propria felicità; poi è arrivato Trump, che ha raccontato un’altra storia, quella in cui i virtuosi contadini americani sono stati invasi da stranieri di vario genere. E’ la storia che tradizionalmente hanno usato i governanti russi, ma questa volta ha fatto presa anche qui”.

 

A proposito di Russia. L’inchiesta di Mueller sarà letale? “La mia idea è questa: non credo che ci sia stata una collusione fra Trump e il governo russo, e ho molti dubbi che ci sia davvero qualche scandalo in questa storia. Per mettere in atto un progetto coordinato di questo genere servono capacità che la campagna di Trump ha ampiamente dimostrato di non avere. Siamo di fronte all’Amministrazione con più leak nella storia, sappiamo tutto quello che succede quotidianamente alla Casa Bianca, mi risulta difficile credere che siano riusciti a custodire quell’unico segreto. Penso tuttavia che ci sia un’ammirazione di Trump nei confronti di Putin, così come c’è nei confronti di Steve Bannon, di Pat Buchanan, di Viktor Orban e di tutti i componenti della famiglia populista globale che guardano al presidente russo come a un modello. Sanno di essere parte di un movimento internazionale di cui Putin è una specie di guida morale. Ho scritto in un editoriale che se mi chiedessero chi è la persona più potente del mondo oggi, Putin potrebbe essere un buon indiziato. Ho seguito la fine della Guerra fredda e il collasso dell’Unione sovietica da Bruxelles, per il Wall Street Journal, poi l’indipendenza dell’Ucraina, il trattato di Maastricht, la fine dell’apartheid in Sudafrica, il processo di pace di Oslo e alla fine del mio mandato qui mi sono occupato della guerra nei Balcani. Guardandomi indietro, la guerra in Jugoslavia è l’evento più importante che ho seguito, perché forniva la previsione più attendibile di quello che sarebbe venuto dopo, più di tutti gli altri sviluppi positivi della storia. Se me lo avessero detto allora avrei detto che era una follia: sembravano gli ultimi rantoli della storia, invece era una prefigurazione del futuro”.

 

La storia non era finita. “In quegli anni ho passato molto tempo a Mosca, e parlavamo di una cosa soltanto: l’economia. Se avessero fatto le riforme giuste per passare all’economia di mercato, dicevamo, tutto il resto sarebbe venuto di conseguenza. Abbiamo completamente ignorato la perdita di fiducia nella società civile, la corruzione e così via. Li consideravamo mali passeggeri. Qualunque concezione intellettuale era dominata dall’economia, che è diventata l’unica connessione fra le scienze sociali e la politica. La cultura sembrava una cosa secondaria. Vedevamo il mondo alla rovescia, solo oggi ce ne rendiamo conto”.

 

La riduzione economicista era un’eredità impazzita del marxismo? “Sì, ma va accoppiata allo scientismo che si è diffuso con le scienze umane. Quella economica sembrava la scienza più ‘scientifica’ di tutte le altre. Gli economisti hanno guadagnato un prestigio enorme, mentre i sociologi, gli umanisti e i critici culturali sono precipitati giù. Marx, del resto, era parte di un più ampio movimento razionalista. Una delle cose che mi colpisce di più di recente è che abbiamo distrutto il vecchio establishment protestante americano attraverso l’elevazione delle abilità cognitive. L’ossessione per i test standardizzati, per i punteggi. La condizione di privilegio si è slegata dall’appartenenza famigliare e si è legata al quoziente intellettivo, una misura che indica un modo individualista e razionalista di giudicare un sistema di valori. Mettiamo l’accento sulle abilità mentali e cognitive, e questo produce grandi sistemi razionalistici, dal sistema finanziario di Wall Street al mondo tecnologico della Silicon Valley a quello delle scienze sociali dell’accademia. Questi sono diventati i sistemi dominanti, ed è il modo in cui l’élite ha controllato la società. Non riuscivamo a vedere tutto il resto, e adesso tutto il resto si sta vendicando”.

 

“Alla fine della Guerra fredda tutti abbiamo respirato l’idea che l’economia sarebbe bastata a partorire la civiltà nuova. Ora che siamo disgregati e infelici assistiamo al ritorno della dimensione spirituale. Ho fiducia nella capacità dell’uomo di trovare nuove soluzioni a nuovi problemi”

 

Pare di capire che il sistema educativo americano ha responsabilità enormi. “La meritorcrazia è il modello culturale dominante, e questo modello ti insegna a concepire te stesso come un giacimento di risorse da estrarre. In questo senso Marx aveva ragione: parlava del padrone che sfrutta l’operaio, ma nel contesto della meritocrazia tu diventi il tuo padrone e sfrutti le tue stesse risorse. Gli orari di lavoro incredibili, la pressione già dalla prima infanzia a mettersi sulla strada che porta ad Harvard, Yale o Princeton sono segni di uno stile di vita organizzato attorno al principio della meritocrazia. Quando esci dall’università scopri che il numero di persone che lavorano fra 80 e 100 ore a settimana è molto alto, e la diseguaglianza che evidentemente esiste è guadagnata: le persone che fanno due, tre, cinque o dieci milioni di dollari all’anno li guadagnano lavorando incredibilmente e applicandosi in settori che producono tanti benefici economici. Magari sono tristi nella vita, ma non è che il sistema sia ingiusto o viziato. Semplicemente ha dei modi per ricompensare generosamente i talenti più sviluppati. La sociologa Anette Lareau dice che in America non c’è un modello educativo comune, ma ci sono due stili radicalmente diversi. Quello della classe dirigente, che lei chiama concerted cultivation, impone un’agenda fittissima di attività, grande attenzione dei genitori ed è associato a un tasso di divorzio basso; poi c’è quello della working class, dove è tutto più rilassato e meno pressante, ma risulta molto meno nel matrimonio e in relazioni stabili. Questo secondo modello è più attraente per i ragazzi, ma non funziona se il loro scopo è andare al college e avere successo professionale”.

 

Questo è anche il motivo della crisi delle discipline umanistiche? “La cultura umanistica ha perso prestigio sociale, e questo è un primo elemento da considerare; il secondo è il panico economico dei genitori. Magari loro stessi hanno una laurea umanistica, ma non permetteranno mai che i figli facciano lo stesso percorso. Terzo fattore: gli umanisti hanno perso fiducia nel loro progetto. Il senso delle humanities è parlare della vita intima, spirituale e contemplativa, ma i professori hanno perso qualunque interesse in quella dimensione e si sono messi a parlare di gender, razza e giustizia sociale. Penso tuttavia che, come negli anni Sessanta, ci sia oggi un movimento di persone che sono tornate a domandarsi: ‘Come faccio a ritrovare un senso della vita?’”.

 

"Parlo con i democratici, e mi aspetto che dicano che quando vinceranno le elezioni tutto si risolverà. E invece non lo dicono, nei loro volti è dipinta una crisi sociale e umana più profonda di una sconfitta elettorale"

E’ per questo che autori come Patrick Deneen, Jordan Peterson o il sociologo delle religioni Christian Smith, che fino a qualche anno fa erano autori minori o di settore, oggi sono letti e discussi dalla cultura mainstream? “Credo di sì. Lo noto nei miei studenti a Yale: dieci anni fa diventare un trader a Goldman Sachs o lavorare nel mondo della consulenza era considerato cool, oggi non è per niente cool. Dieci anni fa essere religiosi non era per niente cool, oggi non dico che è cool ma è quantomeno accettabile. Questo non significa che i ragazzi siano più religiosi, ma ammirano sempre di più la profondità spirituale che vedono nelle persone di fede. Vedo una svolta culturale in quella direzione. Noto anche nei miei lettori una fame spirituale che non avevano fino a poco tempo fa”.

 

E’ un bagliore di speranza nel quadro altrimenti fosco che ha dipinto? “La natura umana non è cambiata, l’uomo è ancora innanzitutto un animale spirituale ed emotivo, ma siamo in un momento storico di transizione. Nel 1962 è avvenuto un grande cambiamento culturale e antropologico, ma era successo anche attorno al 1905, e prima nel 1848 e così via. Ogni cambiamento è una turbolenza, a cui segue una fase di assestamento e poi una nuova transizione. Ho fiducia nella capacità umana di trovare nuove soluzioni a nuovi problemi”.

 

Abbiamo parlato dei repubblicani, ma i democratici? Con Hillary Clinton hanno subito una sconfitta epocale, ma grazie a Trump, nemico supremo, dovrebbero essere nelle condizioni migliori per consolidare una coalizione e preparare un’alternativa. E invece il partito è in ginocchio. “Questa è una vicenda che mi ha colpito molto. Quando parlo con i repubblicani che conosco meglio, che spesso sono anti Trump, mi danno una visione negativa dello scenario politico; allora parlo con i democratici, e mi aspetto che dicano che quando vinceranno le elezioni tutto si risolverà. E invece non lo dicono, nei loro volti è dipinta una crisi sociale e umana più profonda di una sconfitta elettorale. Questa crisi è anche quello che ha radicalizzato la sinistra. E’ un errore in questo caso guardare alla sinistra americana senza tenere conto anche dell’Europa: non ci sono molti paesi in cui il centro-sinistra è in salute, e l’Italia è forse l’esempio supremo di questo. La corbinizzazione della sinistra sta avvenendo su entrambe le sponde dell’Atlantico”.

 

Fra i democratici moderati ora si parla di “lavoro garantito”, un punto che nemmeno Bernie Sanders si era azzardato a mettere nel programma, e allo stesso tempo c’è un dibattito sull’inclusione dei liberal pro life. “Premesso che l’apertura del Partito democratico ai pro life non avverrà mai, c’è una fetta di americani che vota soltanto sull’aborto, e vota repubblicano esclusivamente per quella posizione. Parliamo circa del 19 per cento degli elettori. Se i democratici domani dicessero: ‘Bene signori, revochiamo la Roe v. Wade e rimettiamo la questione dell’aborto nelle mani dei singoli stati’, vincerebbero tutte le elezioni da qui all’eternità. Non lo fanno perché ci credono. Oggi mi sono fatto un giro dalle parti di Ca’ Foscari, ho visto i poster e i graffiti antifascisti sui muri, e ho pensato che la radicalizzazione della sinistra sta accadendo ovunque. Il termine ‘neoliberismo’ è diventato peggio di ‘fascista’ nel vocabolario della sinistra. Le persone che odiano di più sono Bill Clinton e Larry Summers. Anche in questo caso mi sembra più il prodotto del tribalismo che sta smembrando la società che di un’analisi economica precisa. L’economia americana è in buona salute, i salari sono tornati a crescere, la forza lavoro si allarga. Usano termini economici come manifestazioni dell’identità”.