Capitale inetta, nazione infetta
Altro che arresti e sospetti di corruzione. Buche, monnezza, ratti, autobus in fiamme: tutto impallidisce di fronte all’inoccultabile sfacelo amministrativo di Roma. I primi due anni di Raggi sindaco, il prequel di cosa significhi avere i grillini al governo. Inchiesta
A un certo punto ad agosto dell’anno scorso Virginia Raggi era sparita, scomparsa dai radar, neanche una parola né una foto. E la sua assenza incombente, quelle sue vacanze silenziose verso un’ignota località, quella sua fuga dai problemi di Roma, dagli autobus in fiamme, dalla monnezza graveolente e dai gabbiani canaglieschi, dai ratti e dagli avvisi di garanzia che già fioccavano, dalle polemiche e dalle troppe dimissioni dei suoi assessori, quella sua eremitica ricerca di sé aveva cominciato ad alimentare battute, ironie, sospetti irridenti. E se la sindaca non tornasse proprio? si chiedevano allora i più fantasiosi, e spiritosi. E se facesse come il Papa nel film di Nanni Moretti, se insomma fuggisse? Ce ne accorgeremmo? A quel tempo, piccola e diafana, al compimento di un anno in Campidoglio, già ripeteva che “stiamo invertendo la rotta”, “in cinque anni cambiamo la città”, “l’onestà è la base dalla quale partire”, “c’è chi dice che l’onestà non basta. Invece paga”. E già allora, figurarsi adesso dopo due anni di questa onestà, osservandola andare a naso alto, mento in fuori, occhi socchiusi, sovraesposta ai beffardi precipizi e alla crudeli voragini che si aprono lungo la strada della realtà, era inevitabile domandarsi a che serve avere una casa di vetro se al di là di quelle limpide pareti sgobba in bella vista una schiera di strani, forse persino pericolosi pasticcioni improvvisati? E d’altra parte ai tangentisti della casta, come dimostrano bene la procura di Roma e il dottor Paolo Ielo, puoi sempre mandare i carabinieri. Lestofanti, ladri, ricottari, corrotti, mariuoli, malversatori… Va bene. Ma con gli incorruttibili incapaci, come si fa?
Lestofanti, ladri, ricottari, corrotti, mariuoli, malversatori… Va bene. Ma con gli incorruttibili incapaci, come si fa?
Il minimo del minimo, asfaltare le strade, a Roma diventa il punto più alto e denso di aspettative dell’attività di governo
Un incidente mortale su tre riguarda le buche, ha detto l’associazione famigliari delle vittime. Lo scorso 20 giugno l’autopsia ha escluso che Noemi Carrozza, la bella e giovanissima campionessa di nuoto sincronizzato morta in un pomeriggio qualsiasi mentre tornava a casa dagli allenamenti, avesse avuto un malore nel momento in cui perdeva il controllo del suo motorino all’altezza di via di Villa di Plinio, su una strada lacerata dalle buche e dalle radici degli alberi che sbriciolano l’asfalto. Il pubblico ministero ha aperto un fascicolo per omicidio stradale. E Piergiorgio Assumma, presidente dell’Osservatorio nazionale per la tutela delle vittime di omicidio stradale, parla di cinquanta persone uccise dalle pessime condizioni delle strade dall’inizio dell’anno. L’Adir, la società pubblica delle Assicurazioni di Roma, ha fin qui risarcito quindici milioni di euro per danni provocati dalle buche a persone e veicoli. Per questo in alcuni tratti della Cristoforo Colombo e di via Salaria, Raggi ha deciso di ridurre i limiti di velocità a trenta chilometri orari. Più che un’ordinanza, una furbata: in caso di incidenti il nuovo limite mette al riparo il comune dalle cause legali. Ma quello dei trenta chilometri orari si trasforma irrimediabilmente anche in un irreale manifesto ideologico, quasi una metafora della città. Capitale lenta, paese bloccato. E la lentezza diventa una sottomarca della furbizia amministrativa.
A questo proposito andrebbe indagato, forse da un sociologo, anche l’imperscrutabile andamento degli autobus – passano, non passano, arrivano a coppie come i carabinieri, spariscono a lungo come un talpone che va in letargo: sono pena concreta, e insieme perfetta allegoria di un’amministrazione grillina. A Roma gli autobus hanno la tendenza a sparire, quando non prendono fuoco, come misteriosamente inghiottiti dalla terra – e senza voler riprendere la già trattata questione delle buche. Una sera di agosto, a Ponte Mammolo, periferia est, una folla accaldata se ne sta in attesa del bus 451. Passa mezz’ora. Poi un’ora. Un’ora e mezza. Due ore. Le poche decine di persone diventano venti, poi quaranta, poi forse cento. E la pensilina non li contiene nemmeno più, per quanti sono. Rumoreggiano. S’incazzano. Si fomentano l’un l’altro. Alle 21, dalla distanza di cento metri, viene finalmente avvistato un autobus, ma non è il 451 che va verso Cinecittà, è invece il povero 163 appena uscito dalla stazione. Così si verifica uno di quei fenomeni di tumulto popolare ben descritti da Manzoni nella Milano appestata del Seicento: l’autobus 163 viene bloccato, assaltato, occupato, dirottato e trasformato d’impeto popolare in un 451. La vettura parte, lievemente inclinata per il peso imbarcato, e dai finestrini si vedono braccia, gambe, borse, come olive in barattolo. Se a Londra venisse dirottato un autobus, probabilmente si attiverebbe l’Mi6, con i reparti speciali antiterrorismo. A Roma è soltanto l’Atac. E infatti quando il 63 si blocca, va in fiamme ed esplode nella centralissima Via del Tritone, lasciando una colonna di fuliggine alta quanto un palazzo, i negozianti si affacciano, gettano uno sguardo alla carcassa flambé e mormorano: “Eccone ’nartro”. Il nono da inizio anno, più di due al mese. Trentasette autobus incendiati in due anni.
Un incidente mortale su tre riguarda le buche, ha detto l’associazione famigliari delle vittime della strada
L’Atac, l’azienda dei trasporti, è un paradigma disfunzionale per numero di dipendenti, tasso di assenteismo, evasione delle tariffe, stipendi dei dirigenti e loro permanenza negli incarichi
C’è la riunione definitiva sullo stadio della Roma? E lei non c’è. C’è consiglio comunale sui “punti verde qualità”? E lei non c’è. Si discute d’urgenza intorno allo stato dell’azienda municipalizzata dei trasporti? E Raggi non c’è. Si decide d’intitolare una strada a Giorgio Almirante? E lei casca dal pero, in televisione, di fronte a un imbarazzato Bruno Vespa, e trasforma così in farsa una questione che potrebbe avere una sua legittimità storica e simbolica: “Non lo sapevo”. I magistrati le chiedono di Luca Lanzalone, l’avvocato da lei nominato presidente di Acea e arrestato pochi giorni fa per corruzione nell’inchiesta sullo stadio della Roma? E lei dice che “me l’hanno imposto quelli del M5s nazionale”. Insomma Virginia Raggi non sa mai niente. Sembra passare da lì, per caso. Così in Campidoglio, in quel luogo perennemente sul filo di lana tra palcoscenico e bordello, in quel magnifico palazzo in cui tutto sembra immerso in un linguaggio di sbruffoneria parolaia – gli uscieri che parlano di calcio con le gambe poggiate sui tavoli sono uno spettacolo nello spettacolo, come i dipendenti dell’ufficio stampa del comune che i grillini, non fidandosi, hanno trasformato in inviatori seriali di smentite precompilate via email (e allora loro stanno al bar tutto il giorno) – in quel luogo, si diceva, che sta a metà tra la pennichella e la coda alla vaccinara, tra trivio e il caos, e dove nessuno si nasconde (o si vergogna), Raggi, la sindaca che c’è ma non c’è, con la sua evanescenza persino fisica, è un caso, forse prima antropologico che politico.
La sindaca ha invitato la popolazione a smetterla con le parole “monnezza” o “rifiuti”, perché entro il 2021 Roma rinascerà nel quadro di una solida “economia circolare”, rifiuti-cittadini-riciclaggio- creatività
Un’ingenuità affettata, i silenzi e i non so, l’onestà a far da paravento all’immobilismo. Poi Virginia Raggi entra in Campidoglio come si entra in un buco nero, e scompare
Tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia. Un martirio lento, uno spelacchiamento (e “spelacchio” si chiamava non a caso il povero albero di Natale, il tapino sadicamente destinato alla rotonda di piazza Venezia) tuttavia non estraneo a momenti di trascinante comicità involontaria, come l’approvazione del bilancio del comune celebrato quest’inverno alla stregua d’un atto eroico, salutato dunque da un autistico e inspiegabile applauso in Consiglio comunale da parte dell’intero gruppo consiliare grillino. Ci mancava solo che non approvassero il bilancio. La verità è che sempre di più Virginia Raggi finisce per l’assomigliare a Ignazio Marino, il suo spaesato predecessore di centrosinistra. L’una diventa la prosecuzione dell’altro, con la medesima retorica dell’onestà a far da paravento all’immobilismo, e con l’ingenuità affettata, e recitata, che diventa trincea difensiva. Virginia pubblica su Twitter fotografie di fiori che ignoti ammiratori le avrebbero inviato per solidarietà, proprio come a Ignazio arrivavano invece imprecisate dichiarazioni di stima da parte di evanescenti chirurghi e innominati professori americani. “A Roma fatico ma ‘abroad’ mi applaudono”, spiegava infatti lui, con l’aria dell’americano di Filadelfia, un po’ Alberto Sordi e un po’ Totò truffa, mentre lei, con lo stesso tono da incompresa, marziana con venature di furbizia, dice “grazie del vostro affetto, mi riempie il cuore”. Marino se la prendeva con le telecamere del centro storico che avevano multato per nove volte la sua Panda rossa – “mi hanno teso una trappola”, diceva – mentre Raggi intervistata da Mario Calabresi su Repubblica ha svelato al mondo il complotto dei frigoriferi che “vengono buttati vicino ai cassonetti e mi sembra strano”. E poi: “Mi attaccano perché sono donna”. Insomma la Spectre e il Bilderberg, il Pd e la lobby dei sessisti. E anche di lui dicevano “non lo impicchiamo ai dettagli”, “lasciamolo lavorare”, “è solo contro tutti”, come di lei adesso dicono che “è onesta”, che “sta scardinando un sistema”, che “non si era accorta”. Quando si scoprì tutto quel mondo di ricottari e grassatori impropriamente chiamato Mafia Capitale, quel sottobosco di piccoli intrallazzatori che infestava il sottopotere romano di destra e di sinistra, Marino si fece passare per tontolone, proprio come lei, oggi, circondata dai suoi Raffaele Marra e dai suoi Lanzalone, “sconvolta” ed “estranea”, si consegna al ruolo d’ignara boccalona di fronte ai magistrati e all’opinione pubblica in genere.
Ci sono stati anche degli arresti, spaventosi pasticci nella costruzione della giunta, spericolate arrampicate di tanti piccoli Bel Ami che intuendo l’odore del potere si sono infilati nel Movimento e lo hanno scalato, e poi ancora dimissioni a raffica, indagini per abuso d’ufficio e corruzione, faide tra gruppi interni al M5s
I sette gabinetti pubblici inaugurati a febbraio. Il bilancio comunale approvato con applauso. La parola spazzatura eliminata dai documenti ufficiali del comune e il milione e 700 mila tonnellate di rifiuti che non si sa dove mettere. Gli alberi tagliati senza pietà. I dinieghi e le imposizioni dall’alto del movimento
Il primo gennaio 2013, con cappello di lana e occhiali scuri, Raggi si faceva riprendere in un parco giochi vicino casa sua, nella borgata Ottavia. “Vi facciamo vedere un po’ di degrado”, diceva la militante a Cinque stelle, prima di diventare sindaco. “Guardate qua, c’è un pezzettino di vetro”. Oggi a distanza di quattro anni, l’ex consigliere municipale Andrea Montanari è tornato nella stessa zona e in un video diventato virale su internet ha mostrato alla sindaca in che condizioni è quel parco. Sembrano immagini prese dalla Chernobyl post disastro atomico. L’erba incolta è così alta che arriva alle ginocchia, gli scivoli e i cavallucci dei bambini quasi non si vedono più, divorati dalla natura selvatica. “Oh Virgi’, ti ricordi quando venivi nei parchetti a far vedere le cose che non andavano? Dopo due anni da sindaco, la panchina è sommersa dall’erba. Adesso la utilizzano meglio i bambini, vero? Ciao Virgi’”. D’altra parte a Roma l’erba non si taglia. “Abbiamo solo duecento giardinieri, ma gestiamo una superficie di quaranta milioni di metri quadrati di verde su un totale di oltre un miliardo”, è la giustificazione dell’assessorato all’Ambiente. E la verità è che da oltre un anno sono fermi i due appalti europei da nove miliardi di euro per la manutenzione, pubblicati ad aprile del 2017 sulla Gazzetta ufficiale. Così su corso Trieste l’erba altissima si mischia ai tronchi morti degli alberi abbattuti, con le reti arancioni che segnalano le aree a rischio, in un’atmosfera di complessivo disfacimento. In viale del Battaglione della Speranza i prati a destra e a sinistra sono un groviglio di erba alta e moncherini di lecci segati. A Roma gli alberi non vengono curati. Quando non precipitano su una macchina, quando non ammazzano qualcuno, com’è già successo, vengono tagliati via senza pietà: quattrocento esemplari fino a oggi. Alcuni, secolari, erano sopravvissuti ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Ma non sono sopravvissuti alle attenzioni del comune. L’estate scorsa un gigantesco incendio ha sfregiato parte della pineta di Castel Fusano. Esiste una foto della sindaca che dall’alto, con il sole che tramonta all’orizzonte, osserva lo sfacelo carbonizzato: la regina delle ceneri. Tutti fatti amministrativi e politici, evidenze di cronaca, guasti di manutenzione, che trovano unità nella complessità disarmante di Roma, una città in cui si consuma tra idee bislacche e piccole furbizie il falò dell’abbandono e del degrado urbano.
E allora bisogna cogliere e concentrarsi sul grottesco dominante nella vita pubblica capitolina, le deformazioni culturali, “l’estate romana” ridotta a sagra di paese, le sfilate di maschere, le miserie della politica, quel collier di stupidaggini inanellate senza posa dall’insediamento della giunta, il 19 giugno 2016. Un panorama, di suo già pieno di macerie, su cui si staglia l’inadeguatezza della sindaca. Il grado zero di un’antica vicenda. A Roma ovviamente ci sono stati anche degli arresti, spaventosi pasticci nella costruzione della giunta, spericolate arrampicate di tanti piccoli Bel Ami che intuendo l’odore del potere si sono infilati nel Movimento e lo hanno utilizzato e scalato, e poi ancora dimissioni a raffica, indagini per abuso d’ufficio e corruzione, dossieraggi, faide tra gruppi interni al M5s. Scontri che non si verificano mai su temi di interesse reale, politico o ideologico, che non si risolvono mai nella fisiologia del contrasto anche gladiatorio ma democratico tipico dei partiti, ma che si configurano piuttosto come una strana, disordinata e sgrammaticata zuffa continua, in cui la delazione è tanto sciocca quanto forsennata e indirizzata alla distruzione personale degli avversari, alla loro delegittimazione di fronte ai leader supremi, Grillo e Davide Casaleggio. E non staremo qui a ripercorrere le insensate lotte tra Roberta Lombardi e Virginia Raggi, tra Daniele Frongia e Marcello De Vito, che sono i piccoli attori sul proscenio della nuova politica romana: illazioni, malizie, veline passate ai giornalisti, segnalazioni in procura, calunnie e sgambetti. Diremo solo che Raggi si è mossa sin dall’inizio in un ambiente pazzotico di questo genere. Si capisce infatti molto bene quello che ci vuole dire un amico di vecchia data della sindaca, uno che – estraneo alla politica e al M5s – ha provato ad aiutarla, quando, seduto sul divano del salotto di una bella casa alle spalle di piazza Navona spiega che “la sua finora sfortunata esperienza in Campidoglio sta forse danneggiando le ambizioni elettorali nazionali del M5s. Forse. Ma vi assicuro che l’insipienza, l’illogicità, e l’autoritarismo del Movimento hanno sicuramente compromesso questa sindacatura”. Così vengono spiegate un po’ di cose accadute in questi ultimi due anni, a cominciare dal contratto che la sindaca ha firmato, il famoso accordo di dubbia legalità che la obbliga al vincolo di mandato, a rispettare cioè quello che le viene detto dallo staff, da Casaleggio e da Grillo, pena la multa da centocinquantamila euro e ovviamente l’espulsione. “Ma vi siete mai chiesti perché Chiara Appendino non l’ha firmato quel contratto, e Raggi sì? Raggi non lo voleva firmare. Ma è circondata da questa nuvola di sospetti e sussurri, e malizie e odio, sin dall’inizio. Ci nuota dentro e ci affoga”. Mentre tutt’intorno a questo debolissimo, evanescente potere istituzionale, crescono gruppi d’interesse che non rispondono a nessuna logica democratica, civile o culturale: le cene organizzate da Davide Casaleggio nei ristoranti romani, gli uomini d’affari che rizzano le antenne e si scapicollano a conoscerlo, la sua piccola azienda milanese, la Casaleggio Associati, come sul Foglio ha raccontato Luciano Capone, che pare stia per aprire una sede nella Capitale, per trasformarsi così – di fatto – nella più tentacolare, inserita organizzazione lobbistica d’Italia.
Viene srotolandosi in questo modo, e piuttosto facilmente, l’elenco delle “mediazioni sciocche”, “dei caveat”, dei dinieghi e delle imposizioni dall’alto che sono precipitate sulla sindaca per effetto del clima psicotico in cui sta immerso il Movimento. Ed è così che Raggi si è prima affidata a Raffaele Marra, l’unico intorno a lei che conosceva i meccanismi amministrativi del comune, nel tentativo di difendersi e rendersi autonoma, ma che è finito in carcere e l’ha trascinata in un’imputazione penale per falso, in un processo che è appena cominciato, giovedì scorso. Ed è così che è poi precipitato in Campidoglio anche Luca Lanzalone, sponsorizzato dal ministro Alfonso Bonafede e dunque da Luigi Di Maio, l’uomo il cui potere è cresciuto nella misura in cui declinava quello dell’assessore alle Partecipate Colomban, l’uomo che adesso indirettamente inguaia la sindaca per la vicenda opaca dello stadio. “Tra Raggi e Lanzalone era nato un feeling professionale molto forte”, ha raccontato Colomban. Ma tutte queste contorte faccende giudiziarie, che s’intrecciano con le incongrue lotte interne al M5s, con il suo disordinato centralismo autoritario, scompaiono, si annullano, impallidiscono di fronte all’inoccultabile sfacelo amministrativo della capitale. E sono passati appena due anni dall’insediamento di Raggi in Campidoglio. Prima o poi qualcuno, qualche fuoriuscito dal Movimento, chissà, racconterà cos’è in effetti successo nei giorni in cui il comune ritirò la candidatura di Roma alle Olimpiadi, cosa determinò l’inversione della signora Raggi, che era favorevole, che avrebbe voluto fare un referendum per chiedere ai romani cosa ne pensavano, e che invece si ritrovò, assieme a tutta la sua squadra, a dover firmare un documento già pronto, scritto fuori dal Campidoglio, e consegnatole in un triste pomeriggio dal deputato Simone Valente. E prima o poi qualcuno racconterà, forse aiutato dalla mastodontica indagine della procura di Roma, anche come sono andate davvero le cose intorno allo stadio della Roma, com’è maturata la svolta del M5s, prima contrario e poi favorevole, e come anche questo cambio di orientamenti – gestito dall’avvocato Lanzalone, poi premiato con la presidenza di Acea, e oggi ai domiciliari per corruzione – sia bruscamente maturato in ambienti lontanissimi da Roma. In una cena, a Londra, pare. E non c’era Virginia Raggi. Ma lei, come sappiamo, non c’è mai.
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