Enrico Vanzina

Natale con Vanzina

Michele Masneri e Andrea Minuz

Il cinema, i maestri della commedia, il quartiere più elegante che c’era e la borghesia che non c’è più. Il Pd della ztl, l’incafonimento collettivo e il succo dello scontro tra Milano e Roma. L’Italia di oggi e di domani vista da Enrico Vanzina nei giorni dei cinepanettoni

“In realtà i Parioli sono i Monti Parioli”, precisa subito Enrico Vanzina mentre ci sistema in un vasto studio-ufficio con tanti libri antichi, riviste, copioni sparsi sul tavolo, foto di famiglia (una col padre Steno e Flaiano, entrambi molto giovani, seduti al Caffè Greco). Un termometro per la febbre, piantane tipo AD, orologi da tavolo Cartier, matite regalo della Ferrari, libri di Biagi, Conan Doyle, Soldati, Tolstoj.

 

Si è in una specie di mega saletta Freccia Alata con le poltrone di pelle chiara un po’ consunta, nel cuore dei Parioli, anzi Monti Parioli, appunto (è importante); in una palazzina anni Sessanta di fronte all’ambasciata di Danimarca, con fuori l’esercito schierato come in “Baby”, i filippini a passeggio coi cani, Smart e flotte di macchinette nel parcheggio con adesivi “Monterey, California” sul parabrezza. Siamo venuti qui in pellegrinaggio per parlare del suo ultimo film e delle vacanze di Natale (e di Roma, di Milano, di Cortina), ma anche naturalmente della saga borghese, anzi di villa Borghese, di questo quartiere; il Grande Romanzo dei Parioli implica ramificazioni culturali, politiche, sociologiche, cinematografiche.

 

“Sul tema sono abbastanza preparato”, dice Vanzina, “ci sto scrivendo un libro. All’inizio non era nemmeno un quartiere, era solo una strada, pochi metri quadrati”: i Monti Parioli, stradicciola leggiadra che sembra un quartiere bene di Rio de Janeiro, con questo nome altisonante tipo “Monte Napoleone”, poi ha generato nei decenni una grande favela più o meno lussuosa, estesissima. Ma nell’età dell’oro “Mario Camerini abitava qui di fronte, e poi c’erano Monicelli, Germi, Valentina Cortese, Audrey Hepburn nel palazzo più bello, quello accanto al fioraio” (si sa che è già pronta una serie, prodotta da Fremantle, scritta dal figlio della Hepburn, Luca Dotti, che abita ancora ai Parioli, e da Luigi Spinola, ex direttore di Pagina 99, il giornale che teneva redazione qui dietro vicino a casa di Totò che abitava a via Bruno Buozzi, nella mitica palazzina disegnata da Luigi Moretti). I Parioli opera-mondo. “Totò però girava in Cadillac con le tendine, sentendosi molto principe de Curtis, e più giù, a via Mangili, e piazza don Minzoni, stavano Gassman, Germi, Cecchi-Gori. Era un quartiere di cinema, ecco, molto liberal”, dice Vanzina, accendendosi una sigaretta.

 

Romanzo immobiliare

Enrico è ormai l’unico dei Vanzina, essendo morto suo fratello Carlo pochi mesi fa, con lutto nazionale e famigliare, e basilica di Santa Maria degli Angeli gremita, e Roma commossa. Chissà come si sente ora che è “Vanzina” e non più “i Vanzina”. Carlo era il regista, Enrico è lo sceneggiatore, lo scrittore, il giornalista (ha una rubrica sul Messaggero da anni, “Che ci faccio io qui”, tipo Chatwin ai Parioli). Tra qualche mese compirà 70 anni. “Mio padre venne a vivere in questo quartiere spinto dal suo grande amico, Mario Camerini, che era stato sposato con Assia Noris e qui viveva con la seconda moglie Matilde Hruska, figlia dei dentisti del Papa”. Sotto l’understatement vanziniano, parte già una diramazione e una digressione: da Mario Camerini, regista déco, cosmopolita, moderno, scopritore di Vittorio De Sica e Assia Noris, primo cantore della nostra borghesia, alla dinastia Hruska. “La famiglia Hruska apparteneva alla piccola nobiltà terriera della Boemia, una delle province del Sacro Romano Impero. Sarà Joseph, il primogenito nato nel 1843, il capostipite della genia di dentisti”, informa il sito internet degli aristodontoiatri. “Da sempre gli Hruska sono conosciuti per aver prestato servizio a Papi, personaggi di corte e tante star del cinema e dello spettacolo”). Dai telefoni bianchi ai denti bianchi. Vogliamo la serie sui dentisti del Papa, dopo “Baby” e Audrey.

 

   

 

Essere poveri ai Parioli

“Da grande ho capito che i Parioli sono brutti. Sono bruttissimi”, esala Vanzina. “Passò l’idea che era come il XVI di Parigi, invece è un quartiere miserabile. Ci sono le case più brutte dei bei quartieri di Roma. Brutti ascensori, brutti infissi, brutti terrazzi che servono solo a mettere dei gerani”. E’ severo, quasi ingiusto. Va a colpire proprio la signorilità, l’attributo cui gli abitanti orgogliosi del quartiere tengono più di tutto. “E’ nato il mito che i Parioli fossero il quartiere più elegante che c’è. Ma non è così; io per esempio sono nato in centro, e non c’è paragone come eleganza. Ma anche altri posti da ricchi, l’Aventino, il Pinciano, sono molto più belli dal punto di vista della potenza che dimostri con la tua casa”. (E quando dice “la potenza che dimostri con la tua casa” è puro romanzo immobiliare, la casa come palcoscenico, Vanzina vende sia sogni che solide realtà. “E’ un mistero questa cosa dei Parioli”, però. “Quello che è bello sono le salite e le discese, ecco” (si accende un’altra sigaretta).

 

“Poi ci sono dei caseggiati popolari”, ma questa cosa nella narrazione mainstream non si trova. “Ogni volta che succede qualcosa qui i giornalisti entrano in un sottoscala e poi scrivono sempre “la bomboniera e l’attico ai Parioli”. Sospira. Rappresentano sempre questo mondo dorato. “Ma qui è pieno di poveri, ce ne sono tantissimi. Abitano in posti squallidi. Ed essere poveri ai Parioli è terribile, non è come essere poveri a Tor Bella Monaca, è peggio; i poveri ai Parioli diventano dei paria”.

 

Poi sono diventati tutti del Pd

Al cinema i Parioli sono stati raccontati pochissimo rispetto ai vari Pigneti o Esquilini e borgate neorealiste; nessuna bohème artistica o criminale, nemmeno un po’ di alienazione, come all’Eur di Antonioni. Ma allora come nasce la narrazione dei Parioli? “Anzitutto, molte mitologie sono false. Ad esempio, quella dei Parioli quartiere di destra. Non è così, i Parioli non sono mai stati di destra, erano liberali; qui c’era di tutto: Bruno Storti della Cisl, il capo della banca dell’Agricoltura, Giovanni Auletta Armenise, la dinastia Romanazzi, quelli dei camion” (ovvero, Paolo Romanazzi altro personaggio leggendario, scomparso lo scorso anno, a 83 anni, una specie di Agnelli dei Parioli, lavoratore indefesso, protagonista del boom industriale, sempre accompagnato da modelle stupende, faceva la spola in yacht tra Montecarlo, Porto Cervo e Porto Ercole, attraccava sempre all’Argentario, davanti al “Pellicano”, sfuggì anche a un sequestro di persona negli anni Settanta).

 

Insomma, i Parioli non erano come altri quartieri, come per esempio la Balduina o corso Trieste”, prosegue Vanzina, “qui da noi abitava Malagodi, il segretario del Partito liberale. Era l’idolo di mio padre, e mio padre che conosceva tutte le star del cinema aveva come idolo solo lui, Giovanni Malagodi. Poi c’era il palazzo dei Campilli, grande famiglia democristiana. Fascisti davvero pochi”. Questo era lo scenario dei Parioli nel lungo dopoguerra del boom e ancora su, fino agli anni Novanta. Poi qualcosa inizia a cambiare.

 

A un certo punto son diventati tutti del Pd e io questa cosa l’ho denunciata per primo; tutta questa borghesia democristiana, vagamente liberale, era attratta ormai dal Pd, ed era perfettamente logico, inevitabile”. Una mutazione genetica inversa a quella della periferia romana, lì dove una volta era tutto Berlinguer e Pasolini ora ci sono CasaPound, Cinque stelle, Romanzi Criminali. Viene in mente la mappa del voto la sera della vittoria di Virginia Raggi: tredici municipi in giallo (M5s) con solo la Ztl del centro e i Parioli in rosso (Pd). Quella sera in tv Massimo Cacciari spiegò che eravamo dentro una rivoluzione epocale, che era cambiato il mondo, ma la commedia all’italiana e Vanzina lo dicevano da anni. Lui, però, come se ne è accorto?  “Dalle vecchie al cinema. Io al pomeriggio andavo sempre al Roxy (ai Parioli ndr), a un certo punto queste signore si sono messe a vedere i film dei fratelli Dardenne; il politicamente corretto ha invaso il quartiere col cinema d’autore, anche se poi in sala era tutto un “come?”, “che ha detto?”, “chi è questo?” e colpi di tosse e mentine, perché si capisce, l’età media del pubblico è quella che è. Tutte signore comme il faut. Tutte carine, educate. Non erano più spaventate dal comunismo, erano spaventate dalla cafoneria, dai barbari arricchiti. Invece in tv quelli del Pd erano più simili a loro, così era logico, naturale, è scattata un’identificazione di classe,  ma anzitutto nei modi, nel vestire, nel mangiare, perché il Pd non era più il vecchio Pci, non era il partito degli operai e dei metalmeccanici. Avevano cominciato coi Dardenne, ora tessevano le lodi del Pd; è lì che ho cominciato a pensare che la sinistra era fottuta. Capisci tutto, al Roxy”. Si aprono in effetti nuovi scenari: i Parioli che resistono, brigata Parioli; tra molti anni, quando il populismo avrà fatto il suo tempo e i suoi danni, non si dirà più “mio nonno era partigiano” ma “mio nonno era pariolino”.

 

Manila, Parioli

La trasformazione dei Parioli in feudo del Pd porta al crollo sociologico del quartiere. “Le case sono disabitate o trasformate in uffici, i figli delle vecchie famiglie hanno affittato tutto, se ne sono andati. Il sabato e la domenica il quartiere è deserto. I negozi finiti. In giro, i filippini e i cani”. “Manila è qua”, spiega Vanzina, “questo quartiere è pieno di filippini, sono anche molto simpatici. Una volta un mio amico che era partito per le vacanze di Natale e aveva lasciato tutte le istruzioni per la gestione della casa al suo cameriere si rende conto che si era dimenticato una cosa, così torna indietro, apre la porta di casa e dentro trova venticinque filippini scatenati che giocavano a chemin de fer”.

 

Come Asunción e Conception che giocano con le palle di neve nella prima scena di “Vacanze di Natale”, subito riprese dalla signora Covelli: “E andiamo, aho! che mica v’abbiamo portato in vacanza”. I Vanzina sono stati i primi a raccontare i filippini che davano lustro alla borghesia degli anni Ottanta. Oggi i filippini difficilmente emigrano in Italia, casomai vanno a Hong Kong o negli Emirati Arabi o a Dubai. In uno dei loro ultimi film (“Non si ruba a casa dei ladri”), il ricco imprenditore fallito si ricicla come cameriere a casa dei nuovi cafoni arricchiti: “Ammazza, ’sti filippini ormai sembrano proprio italiani”. “Anche mio fratello Carlo diceva che ormai al cinema ci va soprattutto chi non può permettersi una serata fuori, così c’è un fenomeno curioso: i nostri film sono amatissimi dagli extracomunitari; ce ne accorgemmo una sera, andando a vedere uno degli ultimi Fantozzi, la sala era strapiena, erano quasi tutti filippini”.

 

Ricapitolando, ci sono quindi tre fasi nel Grande Romanzo dei Parioli: 1) i Parioli liberal-cinematografari degli anni Cinquanta e Sessanta, la loro eleganza dimessa, borghese, il cinema, Camerini, Audrey Hepburn; poi 2) l’incafonimento, i “Torpigna che ci invadono Cortina”, le “Finte bionde”, la California, e queste cougar dei Parioli che si vestono come a Santa Monica. Lo dice lui da anni, che le sciure dei Parioli si sentono molto californiane. Chiediamo perché. “Prima non si vedevano mai (“prima” risale all’“epoca aurea”): è successo all’epoca dell’incafonimento. Pensavano di potersi affrancare da Sabaudia e Fregene e allora sognavano Malibu, ma solo per comprarsi le macchine grosse, solo per avere il suv. Big Suv, non Big Sur: mica avevano letto Kerouac”. Insomma, da Malagodi a Malibu (o Malagò).

 

Poi, 3) questi Parioli di fine millennio che per reazione al cafonal dilagante si buttano sul Pd e i fratelli Dardenne; infine, oggi, 4) la desolazione, i filippini coi cani, il deserto. I figli a Londra. Ma non è mica un male. Il futuro dei Parioli è la narrazione filippina. Filippini di seconda o terza generazione come quelli che hanno sceneggiato “Baby”: coi figli che ascoltano la trap, si prendono le case, mettono su bische per giocare a chemin de fer, aprono ristoranti, locali. Mentre Vanzina parla dei filippini e di come si prenderanno i Parioli noi sogniamo di scrivere con lui “Manila, Parioli”, un documentario d’impegno civile su integrazione e accoglienza, altro che “Santiago, Italia”; Enrico Vanzina e noi su e giù tra piazza Euclide e Monti Parioli a parlare coi filippini, qualche immagine di repertorio da “Vacanze di Natale ’83” che fa “memoria collettiva” e “archivio”, lunghi piani-sequenza in Smart; lo storytelling filippino potrebbe in fondo rinnovare i fasti della commedia all’italiana. Chissà.

 

Nel frattempo, in questa mutazione costante che travolge i Parioli, anche i ristoranti storici del quartiere cambiano. “Il Caminetto è sempre aperto”, prosegue Vanzina, “perché Italo, il proprietario, dice che fa servizio pubblico. Poi c’è il vero ristorante dei Parioli, la Scala, quello col carrello dei bolliti, il preferito di Dino Risi, ci vanno sempre i vecchi ambasciatori in pensione. Poi c’è il Ceppo a piazza Ungheria. “A Ferragosto invece i ristoranti si riempiono di badanti con le signore anziane. Due mie amici che avevano provato a fare un po’ di cinema come produttori ma poi si erano presi un ristorante ai Parioli mi raccontavano sempre questa scena: il giorno di Ferragosto entravano solo badanti con anziane al seguito perché i figli stavano tutti a Sabaudia o Porto Ercole e per non sentirsi in colpa  mandavano la mamma al ristorante con la badante. Al momento del conto, era tutto un mormorio, sentivano le vecchie borbottare, “ammazza quanto costa, l’altra sera so’ venuta co’ mio figlio abbiamo pagato ’a metà”. Le badanti facevano la cresta e gonfiavano il conto.

 

Milano

Altra sigaretta, e poi (doveva succedere) a un certo punto salta fuori l’annosa questione. Milano contro Roma. “Sono stato a un convegno recentemente”, aspira Vanzina, “ed è saltato fuori che chi ha fatto più film su Milano siamo stati noi”. Certo c’è la trilogia meneghina: “Sotto il vestito niente” (1985); “Yuppies” (1986), “Via Montenapoleone” (1987). “E poi ‘Eccezziunale veramente’”. C’è il rischio che l’immagine di Milano sia stata inventata da un romano dei Parioli.

 

 

L'immagine del poster di Via Montenapoleone film diretto da Carlo Vanzina nel 1987

 

“Innanzitutto va stabilita una cosa”, dice facendosi tutto serio. “La famiglia Vanzina viene da Arona, lago Maggiore. Mio padre è cresciuto in Lombardia e guardava Roma con un certo distacco, una certa ironia. E a noi è sempre piaciuto l’umorismo milanese, che c’è!”. “I nostri riferimenti iniziali erano i comici milanesi. Mio fratello Carlo era aiuto regista di Monicelli in ‘Romanzo popolare’, e i dialoghi furono rivisti da Jannacci e Viola. Carlo cominciò a frequentare il Derby. Conobbe  Pozzetto che nel frattempo stava facendo con me e mio padre ‘La poliziotta’ con Mariangela Melato. Abbiamo conosciuto il grande umorismo milanese. Che esiste”. (Esiste: lo dice come mettendoci a parte di una rivelazione scandalosa. Insomma i milanesi possono essere anche simpatici, non solo imbruttiti. Un dato che forse si è perso, nella narrazione recente delle milanesità d’eccellenza. Hanno le metropolitane linde e le settimane del libro, del pianoforte, di qualunque cosa. Ma simpaticissimi non sono diventati).

 

Del resto, continua, “l’icona del personaggio milanese per eccellenza, il moderno cumenda, l’abbiamo inventato noi. E soprattutto ‘Via Montenapoleone’ e ‘Yuppies’ erano una fotografia di quello che stava succedendo a Milano. Milano andava raccontata. L’aveva fatto un po’ Olmi, ma nessuno l’ha portata sullo schermo col grande cinema popolare. Noi nei primi anni Ottanta ci siamo accorti che a Milano stava succedendo qualcosa. Per esempio, ‘Sotto il vestito niente’ è un racconto preciso di quello che era diventata la moda per questo paese” (Calenda l’ha capito quarant’anni dopo). “‘Via Montenapoleone’ era la fine di un mondo borghese milanese in cui si erano insinuati dei personaggi loschi. E ‘Yuppies’ era la storia di un gruppo di miserabili che sogna Agnelli ma litiga per il conto” (miserabili è la parola che ricorre più volte in questa intervista).

 

Il rapporto con Milano però è conflittuale, si capisce. “Avevamo capito che la moda sarebbe diventata la forza e insieme la decadenza di Milano”. Decadenza? Siamo pazzi? Se ci sente il sindaco Sala, di quella città ormai verdissima, su cui splende il sole, in testa a ogni classifica di vivibilità, ci fa murare in un bosco verticale.

 

Certo. Decadenza. Guarda la prima della Scala, coi potenti in smoking: ma non sono più i grandi tycoon che avevano creato gli imperi, come i Moratti e i Pirelli. Adesso son questi che gestiscono le cose di altri. Che poi, la Scala, parliamone”. Nell’epoca della non criticabilità milanese, le signore agghindate come pupazze vengono elogiate pure da blogger e influencer, mentre la povera sindaca di Roma Raggi viene massacrata per la sua toga. “Pupazzi anche a Milano, ma lì non lo dicono”. La decadenza milanese secondo Vanzina passa anche per l’invasione di eccellenze romane: cialtroni e sòla. “Quello che non hanno ancora capito è che stanno per essere inghiottiti dal sottobosco televisivo. Se vai in giro per Milano, ti imbatti subito in tutti questi personaggi, le varie Belen, i press agent, le mezze calzette, le mezze marchette. Un mondiciattolo di pr, di influencer, di marketing researcher, di fuffa. E questo ucciderà la città. Perché alla lunga loro non hanno i fondamentali”.

 

Forse a Milano è in corso una sottile opera di romanizzazione: una specie di vendetta dei tanti romani che un tempo si bullavano della nebbia e della cassoeula, e oggi sono ridotti al silenzio, a adorare Sant’Ambroeus e andare ai silence party di Cattelan, nascondendo l’accento capitolino (ma poi già Roberto Covelli/Christian De Sica che alla fine di “Vacanze di Natale”, dopo essere stato scoperto dai genitori a letto col maestro di sci, Zartolin (“la mutanda”) decide di cambiar vita, si butta nella moda e prepara le valigie per Milano, primo prototipo di migrazione, prima dei Frecciarossa, prima che dietro ogni barista/commesso del centro si celasse un romano (Anche Abatantuono oggi sarebbe romano. E tutti i pugliesi, dove saranno finiti?).

 

 

Milano può fare tutti gli sforzi del mondo ma non riuscirà a scalfire il primato di Roma”, dice Vanzina con la forza della disperazione. “Anche nei momenti più bassi. Roma ha inglobato anche la Lega, ha assimilato Salvini”. Pare un mantra forse consolatorio: il rapporto conflittuale con Milano è anche calcistico: Vanzina, iperromanista, ricorda “questa rabbia che ho versato a San Siro per tutta la vita. Perdevamo sempre, con l’Inter, poi col Milan. Dicevo che basta, non andavo, non sarei più andato. Poi la mattina mi alzavo all’alba e andavo lo stesso, prendevo un treno o l’aereo o la macchina alle 5 di mattina e andavo, e perdevamo, di nuovo. Dovevo andare a conquistare quel cazzo di stadio, e non ci riuscivo mai. E’ questo che ti fa impazzire, la città più debole che ti mette in soggezione, perché è sempre più moderna, più elegante. Tu lo sai che sei meglio di loro, ma te la mettono sempre in quel posto”.

  

Ma i Covelli non votano Pd

Ha detto Christian De Sica: “Un giorno, per raccontare una certa borghesia, si rivedranno i cinepanettoni, così precisi nella loro follia”. D’accordo. Ma quale borghesia? E dov’è la borghesia oggi? “Se oggi essere borghese significa essere del Pd, è successo qualcosa di gravissimo nel nostro paese”, dice Enrico Vanzina in un affondo à la Marcuse che viene subito voglia di approfondire. “Il disastro è non aver avuto per troppo tempo un partito socialista o socialdemocratico; troppo a lungo il mondo socialista è stato visto come un pericolo terribile e la borghesia si è ritrovata orfana di sé stessa, orfana della stessa nozione di borghesia, orfana di una proposta liberale e di una destra che si era alleata con i fascisti, perché la vera borghesia, si capisce, non è fascista. Così, quando Berlusconi riunisce la destra, una parte della borghesia si sposta inevitabilmente verso il Pd, solo che nel frattempo stava cambiando il quadro, oggi è troppo tardi. Poteva nascere una sinistra democratica, quindi una sinistra borghese, ma è arrivata troppo in ritardo, con Renzi, ed è stata travolta da un contesto nazionale e mondiale ormai diversi”.

 

Si impara di più in questo pomeriggio di dicembre sulle poltrone di pelle dei Parioli che davanti ai talk-show degli ultimi anni e noi non ce vorremmo più andare; ci affascina questa dialettica dell’illuminismo borghese ai Parioli, fondiamo una nuova Scuola di Francoforte o di Corso Francia. Il fantasma della borghesia torna così a tormentarci; una parola che era scomparsa dal dibattito pubblico, sostituita dal mito del “grande centro”, dei “moderati”, del “ceto medio”, più o meno riflessivo; ma per intenderci, i Covelli oggi votano Pd? “Macché, lascia perdere, i Covelli, quelli veri, sono amici miei, sono figli di Alfredo Covelli, fondatore del Partito nazionale monarchico e sono rimasti lì. Continuano ad andare dai Fürstenberg a Capodanno”. E invece a Roma? “La pochissima borghesia che c’era a Roma oggi manda i figli a Londra; d’altronde qui la borghesia non è mai esistita, qui c’era la grande aristocrazia; il borghese si vergognava quasi, era affascinato dai principi, persino dalla decadenza. Il sogno della borghesia romana era un matrimonio dei figli con una principessa o un principe”, magari solo per ereditare i debiti; insomma “Vacanze romane” o “Amarsi un po’” (capolavoro dei Vanzina e tra i più grandi contributi del cinema italiano alla storia universale della romantic-comedy, una variazione fiabesca della lotta di classe a Cortina, con Claudio Amendola elettrauto borgataro che conquista per sempre la principessa Cellini). “Questo sentimento papalino-cattolico”, continua Vanzina, “ha impedito di far entrare delle pulsioni calviniste, come al nord. A Roma la borghesia non ha capito una cosa fondamentale, e cioè che doveva investire nella cultura e nell’istruzione dei figli; qui invece mandano i figli a Sabaudia o a giocare a calcetto, sperando diventino Totti”. Il calcetto è la Bocconi romana.

  

Netflix e noi

“Rispetto ai film dei grandi padri e maestri della commedia all’italiana a noi sono mancati gli attori, perché gli attori a un certo punto si sono messi a fare i registi. Abbiamo dovuto fare i film corali, con tanti attori, anche per riempire questo vuoto” (tutti i film dei Vanzina sono corali e sul loro cinema è uscito da poco uno studio definitivo, maniacale, curato da un giovane studioso e cinephile, Rocco Moccagatta, “una roba che manco per ĖEjzenštejn”, dice scherzandoci su Enrico Vanzina che ce ne dà una copia sigillata con dedica immortale, “e pure questa biografia se la semo levata dalle palle”). “Insomma, tutti questi attori che a un certo punto si sono messi a fare i registi, che si sono messi a fare gli autori, dimenticavano che il cinema per funzionare deve essere un lavoro di squadra”. Ma il demone dell’autorialità non sente ragioni. Questi attori-registi o registi-autori, quando non si appassionano a sé stessi, puntano lo sguardo filmico su lotte, denunce, conflitti, ingiustizie. “E’ un brutto cinema quello che stiamo facendo in Italia, i film hanno sempre gli stessi attori, e mi ci metto dentro anche io, naturalmente”.

 

Ma qual è la cosa più brutta?I dialoghi” (scatta la standing ovation), “i dialoghi italiani sono spesso tremendi, manca la precisione sociologica, psicologica, linguistica dei dialoghi”. Dialoghi sempre affettati, parole che rotolano pesanti come macigni, oppure spiegoni micidiali di ciò che stiamo vedendo proprio in quel momento. “Ci sono delle fiction italiane che sono girate a Torino perché gli danno i soldi, dove uno parla milanese, i figli romanesco, quell’altro napoletano. Gli accenti sono importanti. Per esempio, questo è un altro problema dei Parioli al cinema: non solo non li sanno raccontare, ma non sanno farli parlare, forse un po’ la Archibugi con certi personaggi borghesi”.

 

Ci piace prendere a prestito dal libro di Moccagatta una possibile definizione di “vanziniano”: “Credere nel cinema d’intrattenimento, credere in un’industria del cinema che però non si è mai sviluppata nella direzione che sarebbe piaciuta a loro”, ma anche a noi. Un cinema che pensa al pubblico prima che ai poveri, al degrado morale, al finanziamento statale. Ma oggi? “Io credo di aver perso un po’ il contatto con il paese. Vista l’età osservo con un certo sorriso l’evoluzione del mondo giovanile e mi perdo molto di quello che succede. Però è anche vero che nessuno racconta più i giovani, forse gli ultimi sono stati Moccia e Ammaniti, oggi quei dei giovani mi sembra un universo assolutamente incomprensibile”.

 

Però, chissà, forse va bene così. Lo diceva anche il padrino di Enrico Vanzina, Marcello Marchesi: “Bisogna resistere alla tentazione di comprendere i giovani perché essere capiti li umilia. Fingiamo di non capirli, è l’unico modo per farsi sopportare da loro”. Chiediamo quindi di “Baby”, ma non è interessato, non l’ha vista, “però l’ha fatta il figlio di un mio carissimo amico, Andrea De Sica. Siamo pur sempre dalle parti di ‘Roma bene’ di Lizzani, uno squallido caso di cronaca che all’epoca ho seguito, però anche un classico. Gente miserabile, i soldi che contano molto, ragazze scafate, genitori che chiudono gli occhi o che addirittura favoriscono, la droga. Una storia di una banalità sconvolgente. Siamo sempre dalle parti di ‘Bellissima’”. Sì, però qui c’è anche la scuola, in chiave opposta che nell’“Amica geniale”, coi grandi licei romani del centro, le scuole private; Enrico Vanzina andava allo Chateaubriand, quello che definisce, “il Mamiani di Parigi” che però, specifica, “è una scuola pubblicissima! Di scuole private invece nei miei ricordi ce ne sono tante, c’erano le ancelle del Sacro Cuore, l’uscita di scuola era spettacolare, una roba da film, migliaia di ragazzi con l’uniforme, i motorini; all’epoca i Parioli erano un quartiere molto giovane, pieno di ragazzi”; sarà mica la scuola della micidiale reunion di genitori con Christian De Sica in “Simpatici e antipatici” (1977), diretto da De Sica ma scritto da Enrico e Carlo Vanzina, tutto ambientato tra i Parioli e i circoli romani (c’è anche una leggenda nera per cui venne ritirato dalle sale poiché un personaggio era troppo simile a Cesare Previti). Qui De Sica incontra una sua antica spasimante, le fa il baciamano, rievoca momenti magici ormai lontani: “Fregene, estate Settantatré-Settantaquattro. La Conchiglia. Tu eri sdraiata sulla sabbia dorata. E in lontananza le ombre che si infrangevano sulla battigia. Al juke box, ‘Pazza idea’ di Patty Pravo…”. Lei: “Eri tenerissimo”. Lui: “Sì, te ricordi che bucio de culo che t’ho fatto?”. “Ah, quella battuta terribile l’ha voluta mettere lui” sospira Vanzina. “Comunque, no, era il Convitto nazionale”.

 

 

Si parla finalmente del film di Natale, “Natale a cinque stelle”, quello che avrebbe dovuto girare Carlo e che ha portato a termine Marco Risi. “Sui giornali continuavamo a leggere che la politica italiana sembrava uscita da un film dei Vanzina e alla fine abbiamo deciso di fare un film su questa nuova classe politica. Ma ‘Natale a cinque stelle’ è anzitutto una farsa, anche perché la politica di oggi è una farsa; le porte che si aprono e chiudono, i travestimenti, gli equivoci. Cosa c’è meglio di una bella farsa inglese con un po’ di sfottò sulla politica italiana?”. Su Netflix ci sono almeno quattro film di Natale usciti per l’occasione, ma solo quello italiano parla di politica. Niente Babbo Natale, niente principesse, slitte, nevicate, ma Boschi, Conte e la Lega. Il nostro star system, si capisce, è la politica.

 

Ma invece com’è il magico mondo di Netflix? “L’altra sera, durante una proiezione che abbiamo fatto qui, c’era in sala una signora di Netflix e ho detto: ma allora esistete per davvero! Perché sembrano usciti da uno 007 col Dottor No. Fai queste conference call con dei ragazzi che hanno tutti 28-29 anni al massimo. Secondo me quelli più vecchi li hanno eliminati. Tu poi li vedi male in cam, ma loro vedono bene te”. Forse non sono quelli di Netflix, forse è De Laurentiis travestito. Vanzina ride. Ci immaginiamo sempre questi emissari di Netflix che arrivano con la valigia piena di soldi, risolvono problemi; dove passa Netflix ricresce l’erba, restaurano le stazioni della metropolitana, Spelacchio risorge, si rialza. “Non è proprio così, però ti danno grande libertà, questo sì, ma soprattutto ti fanno arrivare a un pubblico globale. Un dirigente di Netflix mi ha detto che ‘Natale a cinque stelle’ gli sembrava un film di Mel Brooks; una cosa che in Italia non mi avrebbe detto mai nessuno; ecco, è interessante avere un confronto con l’estero, perché uno dei grandi problemi del cinema italiano è che non è più visto nel mondo, è diventato invisibile. Forse con Netflix, o anche grazie a Netflix, possiamo tornare a essere visti davvero anche all’estero”. Per ora, l’algoritmo italiano è impietoso, ci conosce: film di Natale o drammone di impegno civile, come il film su Cucchi.

 

Bonus Track: Alberto Sordi

Come regalo di Natale, dopo che l’abbiamo sfinito, Vanzina con l’ultima sigaretta ci regala una compilation – come direbbe un personaggio “dei Vanzina” – di aneddoti sordiani (materia di cui è espertissimo). Primo: “Carlo faceva l’aiuto regista di Alberto Sordi in ‘Polvere di stelle’ al Petruzzelli di Bari, dove si doveva girare la scena dello spettacolo in teatro con una platea di militari. Mille, tutti sudati. Arriva Sordi, protagonista, ma ha un braccio fasciato al collo. ‘Che te sei fatto?’, gli chiedono terrorizzati, visto che deve recitare la scena madre. ‘Ma niente”, risponde, togliendosi la fascia, “je dovevo dà la mano a tutti, quelli hai visto che mani sudate hanno?”.

 

Secondo aneddoto: “Sordi era ossessionato dalla fama della tirchieria. Andiamo a casa sua insieme a Bernardino Zapponi per una sceneggiatura del ‘Marziano’ di Flaiano, che avremmo voluto fare con lui regista e protagonista. Sordi aveva questo cane che si chiamava Domenica, che mi faceva sempre un sacco di feste. Un giorno andiamo a pranzo e Domenica non c’è. Glielo chiediamo, e lui dice: ‘Ah non sapete, Domenica è scoppiata. Daje e daje, l’abbiamo riempita troppo di cibo. E’ morta scoppiata’. Usciti, con Zapponi, ci siamo chiesti il perché di questo racconto, proprio a noi che comunque lo conoscevamo. Perché aveva comunque bisogno di smentire questa fama di avaro”.

 

Terzo bonus track: “Siamo a New York a girare un film e ci invitano una sera da Susanna Agnelli a Park Avenue e c’è Andy Warhol, che vuole intervistare Sordi per Interview. Io faccio l’interprete. Andy gli chiede come faccia a trasformarsi di volta in volta in personaggi diversissimi. Gli traduco e Sordi: ‘Ah, questo vò sapé Andy? Dije così, ’na volta metto il cappello da poliziotto, ’na volta metto il cappello da pompiere. So’ sempre io”.

 

4) “Sempre a New York, andiamo a casa di Dino De Laurentiis, c’erano mio padre e mia madre, e la Mangano” (che Vanzina chiama “la povera Silvana”). “Ci portano in un posto per l’epoca molto scandaloso, la Continental Bath, una sauna gay allora molto in voga, tipo Studio 54 in accappatoio. Arriviamo lì con Sordi in vestito blu, mia madre e la povera Silvana con le perle. Sordi comincia ad aggirarsi sconvolto, non crede a quello che vede. Poi un ragazzo mezzo nudo, che sta facendo roba in mezzo a un gruppetto, lo guarda e gli fa: ‘Alberto Sordi!’. ‘Ma che sei italiano?’ risponde Sordi. ‘Sì’. ‘Ma che sta’ a fa’ qui?’. ‘So’ venuto co’ n’amico mio’, risponde l’ignudo. ‘Co’ n’amico tuo? Viè qua, che te riporto a casa da mamma’”.

“Sordi”, ride Vanzina, “è forse l’unico attore al mondo che ha osservato gli italiani, li ha portati sullo schermo, ma poi sono stati gli italiani che hanno cominciato a imitare lui”. Come i personaggi dei Vanzina, in fondo, gli Yuppies imitavano Agnelli, poi gli italiani hanno cominciato a imitare gli Yuppies. Con orologi sul polsino, attici o sottoscala tra i Parioli e Cortina e Montenapoleone. Borghesi o, più spesso, miserabili.