Tutto il nero d'Italia
I fascismi di ieri e di oggi. Il malloppo nascosto, l’eterno sommerso che ha fatto girare il paese, quando il paese girava. L’altra pelle delle persone che dice quanto siamo stati e siamo ancora razzisti. Variazioni sul colore del buio nel nostro presente. Saggio sulla nuova Italia
Ancora c’è il fascismo, in Italia. Quello organizzato, detto neofascismo, con le sue sigle e le sue gerarchie (Avanguardia Nazionale, sciolta nel 1976 perché eversiva ma in realtà ancora presente e operante perché il fascista se ne frega, Forza Nuova, Fiamme Nere, CasaPound eccetera); e quello atavico, l’ur-Fascismo, come lo chiama Umberto Eco, che del primo è il mandante ma anche il ricettatore, lo spacciatore e il consumatore. Ancora c’è il fascismo – e col fascismo ancora sopravvive la paccottiglia del suo vocabolario e della sua simbologia. Tra questi simboli, nonostante su di esso si siano frattanto susseguiti gli espropri estetici degli All Blacks, della Famiglia Addams, di Halloween, delle John Player Special, dei punk, dei dark, dei satanisti, degli emo e dei tubini del bunga-bunga, sopravvive, entropico, il nero. Simbolo di cosa? Facile (non cercate mai la complessità, nei fascisti, è sempre tutto banale come sembra): di quella fantastica amica degli esaltati e dei fanatici di tutte le epoche, delle nullità e dei violenti senz’arte né parte, che non riuscendo a concepire il mondo nella sua complessità ne celebrano il suo tratto per l’appunto più banale – l’esperienza più facile da procurarsi. Ce lo spiega bene Luigi Freddi, fascista della prima ora, squadrista, volontario fiumano, futurista, giornalista, direttore della cinematografia italiana dal 1934 al 1939 e in questa veste inventore di Cinecittà: “Cercammo un simbolo. Il tricolore era stato troppo profanato dalla retorica patriottarda dei partiti costituzionali, e rappresentava ancora la viltà miserabile miserevole e miseranda dei governi demo-liberali che si nutrivano di miscele d’oppio e di cantaride, lasciando imbordellare l’Italia e prostituire il suo destino… Allora scegliemmo il nero vessillo degli Arditi, che aveva preceduto gli assalti oltre le trincee di carne umana del Grappa e sull’altra riva del Piave gonfia di sangue. Aveva il colore ‘della morte che infutura la vita’, e per questo l’abbiamo prediletto; era il simbolo della nostra disperazione e della nostra ferocia, e ci pareva che in esso risplendesse tenebrosa e tremenda la ‘voluttà di morire’ che arroventava i nostri sensi di giovani gagliardi pronti a tutto. Erano i tempi in cui nelle nostre canzoni non ricorrevano i temi dell’amore, del piacere e della gioia, ma risuonavano cupe parole apocalittiche: ‘pugnale’, ‘bomba a mano’ trovavan rime che facevan rabbrividire le timorate nonché vigliacchissime anime dei conservatori pronti a ceder tutto pur di conservare le ghirbe flaccide e graveolenti. Il ritornello spavaldo echeggiava risolutivo ammonitore e terribile come la cannonata, e volgeva in fuga le mandrie imbestialite del socialismo gaglioffo e vigliacco” (1).
“Scegliemmo il nero vessillo degli Arditi. Aveva il colore ‘della morte che infutura la vita’, e per questo l’abbiamo prediletto”
Ecco fatto: c’è tutta la retorica del fascismo, in queste righe: “la morte che infutura la vita”, gli Arditi della prima guerra mondiale, il sangue, la disperazione e la ferocia, la splendente, “tenebrosa e tremenda voluttà di morire” – ed è una retorica tinta di nero. E’ così: il Fascismo è il primo dei totalitarismi di destra che si affermano nel Novecento, ha dunque la priorità di scelta, oltre che su linguaggio, folklore e liturgia militare, sulla loro estetica, e sceglie il nero. Cioè, per come eravamo abituati in Europa fin dai tempi di Carlo V, il lutto. Sovrano della vacuità adolescenziale, monarca indiscusso delle psicopatologie aggressive, mimesi e nemesi della Natura Castigatrice, il nero plana come un uccellaccio del malaugurio sulla liberal-democrazia smidollata, sul “socialismo gaglioffo e vigliacco” e sulle “ghirbe flaccide” dei conservatori, perché nessuno in Europa abbia a dormire sonni tranquilli all’incedere della rivoluzione fascista. Sappiamo com’è andata a finire.
In confronto ad altri paesi, il fascismo italiano è molto meno plumbeo, molto più permeabile e addirittura aperto
Però, in confronto ai fascismi degli altri paesi (Inghilterra, Estonia, Lituania, Lettonia, Spagna, Romania, Ungheria, Bulgaria, Portogallo, Polonia, Grecia, Iugoslavia, e ovviamente Germania) che in quel nero si perderanno completamente, il fascismo italiano è molto meno plumbeo, molto più permeabile e addirittura aperto. Non già – attenzione – per tolleranza, bensì per “sgangheratezza”, come rileva sempre Umberto Eco, che lo definisce un “totalitarismo fuzzy”. Infatti, insieme alla retorica ufficiale e ai pesanti crimini di regime, sopravvivono in Italia per quasi tutto il ventennio una vivacità intellettuale e un pluralismo culturale che nella Germania nazista o nella Russia di Stalin e Zdanov non erano nemmeno concepibili: il movimento futurista ma anche il realismo magico di Donghi e Casorati; Puccini, Mascagni, Toscanini; D’Annunzio e Malaparte ma anche Italo Svevo, fino al ’28, e dal ’29 in poi Alberto Moravia; e Pirandello e Benedetto Croce e Grazia Deledda e l’ermetismo con i suoi giovani poeti antifascisti, e Bontempelli e Papini e Prezzolini e Campana e Cardarelli e Debenedetti e Contini e Umberto Saba… Anche solo fermandosi qui è una scena molto più vitale e dialettica non solo di quella degli altri paesi azzannati dal totalitarismo, ma anche, onestamente, di quella dell’Italia di oggi. E come fu possibile? Spiega Eco che “le nuove idee circolavano senza alcun reale controllo ideologico, non tanto perché gli uomini di partito fossero tolleranti, quanto perché pochi di loro possedevano gli strumenti intellettuali per controllarle” (2).
Capito? Mentre veniva umiliato dai fascisti, il paese ribolliva del talento di due formidabili generazioni di intellettuali che l’apparato impregnato di nero non riuscì a controllare se non in minima misura. E al fondo di questo paradosso, Eco individua la micidiale – benediciamola – assenza di una vera filosofia fascista.
In virtù di questo vuoto, la grafica e l’architettura italiana raggiunsero durante il fascismo il loro apice espressivo di tutto il XX secolo, e lo raggiunsero con una tavolozza molto ricca di colori, molto lontano dal nero: col malva, il rosa e il verde acquamarina della réclame futurista di Attilio Calzavara delle crociere ONB (le crociere!); col verde marcio e il blu Savoia delle strepitose cartoline disegnate da Dario Cella per la Triennale delle Terre d’Oltremare, o con i colori “acidi e accesi” di quelle, altrettanto strepitose, da lui dedicate al padiglione italiano all’Expo di Chicago nel 1933; o con lo sbalorditivo caleidoscopio offerto dagli edifici futuristi di Angiolo Mazzoni, ingegnere-capo delle Ferrovie dello Stato: gli intonaci pazzeschi delle facciate (color “gelatina di fragole” alla stazione di Faenza, blu Savoia al Palazzo delle Poste di Trento, arancione-shocking alla Colonia Rosa Maltoni Mussolini a Calambrone, rosso mattone, rosso scuro e marrone chiaro alla Centrale termica e cabina apparati della stazione Santa Maria Novella di Firenze), i marmi multicolori, le vetrate policrome, gli infissi di rame, il marocchino rosso delle sedie… (3). Niente di ciò che era bello, nell’era fascista, era nero – e nemmeno era severo, o brunito, o cupo: quelli erano i toni plumbei della dittatura, servivano a rammentare la scelta scellerata compiuta da tutti gli imbecilli vestiti come beccamorti che vedevano la luce in uno psicopatico sovrappeso col fez in testa.
Qui sta la differenza tra il tumore primitivo, sviluppatosi in Italia, e le metastasi che hanno appestato il resto d’Europa: in questa incapacità – benediciamola – del fascismo italiano di teorizzare rigidamente il razzismo e, di conseguenza, di mettere al bando l’entartete Kunst, l’arte degenerata, cioè quella vera, per sostituirla con quella fasulla – pura, tragica e nera.
Nelle sue memorie Albert Speer racconta che Hitler gli chiedeva edifici che fossero belli “anche da distrutti” (4).
DISSOLVENZA IN NERO
Secondo Nero: il Nero.
Il Nero.
L’Italia invisibile,
ogni cosa è senza luce,
tutto sboccia nel buio,
fiorisce, si trasforma,
e nulla viene dichiarato.
La soffitta che diventa mansarda,
il garage che diventa taverna,
l’ingresso di casa che scivola al civico accanto,
– e il censimento, ogni dieci anni, mai lo saprà.
Il Nero, il gruzzolo,
la concretezza, la prossimità, l’aderenza,
la disponibilità, l’immediatezza, la forza,
il nascondiglio quasi sempre dentro casa,
che resta sconosciuto ai familiari
finché qualcuno, spiando, non lo scopre.
Qui sta la differenza tra il tumore primitivo, sviluppatosi in Italia, e le metastasi che hanno appestato il resto d’Europa: in questa incapacità – benediciamola – del fascismo italiano di teorizzare rigidamente il razzismo e di mettere al bando l’entartete Kunst, l’arte degenerata, cioè quella vera
Il milione di Peppino
nascosto nella scatola,
nascosto sotto la mattonella,
nascosta sotto al comodino,
diventato settecentomila lire
per via della “svalutazione monetaria” (5).
Il Nero, il malloppo,
accumulato, contato e ricontato,
accarezzato, annusato, adorato,
ricchezza nascosta
eppure anche l’unica veramente condivisa,
“i soldi che lei ha dato a me,
che io ho dato a te,
che tu hai dato a me,
per pagare lui!” (6).
Il Nero, l’esperanto,
il linguaggio unificato,
stesse buste, stesse valigette, stesse mazzette,
usate per corrompere, anticipare, saldare,
procurarsi la droga, le armi, la merce di contrabbando,
scommettere ai cavalli, giocare d’azzardo, dare le mance,
pagare metà della casa, metà della ristrutturazione,
poi ungere l’assessore per l’ampliamento,
e poi pagare tre quarti dell’ampliamento,
poi ungere l’altro assessore per la piscina,
pagare due terzi della piscina
e ogni tre mesi il manutentore della piscina,
pagare il pizzo, la cresta, la tangente,
il riscatto per il rapimento del figlio,
la Panda usata per il figlio,
il Baume & Mercier per il figlio,
l’animatore alla festa del figlio,
l’ufficiale medico perché riformi il figlio
alla visita per il servizio militare,
il funzionario perché lo assuma,
il giudice perché lo assolva,
per sfruttare i braccianti negli agrumeti,
i mungitori, i potatori, i pastori,
i raccoglitori di pomodori, gli strappatori di capperi e ceci,
comprare il treno di gomme, il brillocco, il mobile antico,
i pezzi di ricambio per il trattore, il quadro di Morandi,
il pied-à-terre per la ganza,
per mantenerla, la ganza,
per pagare i pediatri, gli specialisti, i dentisti,
i maghi che levano il malocchio, le ripetizioni di latino,
le lezioni di tennis, di chitarra, di sci,
gli spacciatori da strada, i killer,
il conto al ristorante, in trattoria, in rosticceria,
dal salumiere, dal macellaio, dall’ortolano,
il subaffitto dell’appartamento,
l’architetto, l’ingegnere, l’arredatore,
l’avvocato, il notaio, il commercialista,
l’idraulico, il barbiere, l’elettricista,
il giardiniere, il tappezziere, il carrozziere,
il meccanico, l’elettrauto, il bagarino,
il faccendiere, l’autista, il ragioniere,
il presidente, il segretario, il consigliere,
il CEO, il manager, il consultant,
la baby-sitter, la dog-sitter, la cat-sitter,
la escort, la lap-dancer, la stripper,
lo startupper, l’adviser, l’operator,
il media strategist, il tutor,
il personal trainer, il personal shopper,
il fashion blogger, il wedding planner,
il BlaBlaCar, l’Airbnb,
perché è così che funziona,
il Nero si aggiorna,
e sopravvive alla tecnologia.
E’ il volano della nostra economia,
il motore del movimento dalla miseria alla ricchezza
e viceversa,
ha fatto girare l’Italia quando l’Italia girava,
l’ha fermata quando si è fermata,
e ora che è ferma la tiene ferma,
e crea le famiglie quando si creano
e le disfa quando si disfano,
e benedice le unioni, e le divora,
come nella storia del noto imprenditore ***,
che lo teneva nascosto in casa,
il Nero,
il suo amato Nero,
in camera da letto, sotto al letto,
nascosto anche alla moglie,
e un giorno deve andare a New York
a comprare un immobile,
(per investire all’estero, sapete,
per paura dei comunisti,
dato che siamo negli anni 70),
e gli serve il Nero, ma non può portarselo dietro,
non può passarci la dogana, troppo rischioso,
e allora organizza un magheggio
che prevede la complicità della moglie,
e perciò le mostra il nascondiglio
– è costretto a farlo –
lì, nella loro camera,
sotto al loro letto,
dentro a una scatola,
nascosta sotto una cosa,
nascosta sotto un’altra cosa,
le mostra il nascondiglio e le mostra il Nero,
tanto Nero,
tantissimo Nero,
sbalordendola,
con tutto quel Nero,
tutte quelle banconote spiegazzate,
tutte diverse, nessuna nuova,
tutta quella ricchezza che lei,
pur sapendosi ricca, non sapeva di possedere,
(e infatti non la possiede,
perché appartiene al marito).
Passiamo al plurale. Negre. Brutt’affare, qui. Siamo nel 1974, sulla tangenziale non ci sono ancora le ragazze africane che si prostituiscono: eppure quando il termine viene usato al plurale femminile per l’uomo bianco diventa improvvisamente, inconfessabilmente, un richiamo sessuale.
Sono otto miliardi, amore,
le dice il noto imprenditore ***,
sbalordendola:
quando sarò a New York, le dice, ti telefonerò,
e ti dirò soltanto “parti all’una”,
oppure “parti all’una e mezza”,
oppure “parti alle due”,
e tu allora verrai qui
e prenderai un miliardo
oppure un miliardo e mezzo, oppure due,
e li ficcherai in una valigia,
e andrai dritta filata a questo indirizzo di Como,
che ti ho scritto qui, su questo foglietto,
che metto insieme al Nero,
che rimetto qua dentro,
che rimetto qua sotto,
e sopra ci rimetto il letto,
andrai a questo indirizzo, amore,
che poi è lo studio di un commercialista,
e consegnerai la valigia a un certo Raffaele,
ricordati, Raffaele, scrivitelo,
darai la valigia soltanto a lui
e se non c’è lo aspetterai,
e quando arriverà gliela darai,
dopodiché non partirai affatto, tornerai qui,
dove l’indomani tornerò anch’io,
e così avremo una casa a New York,
bellissima, amore mio,
affacciata sul Central Park,
e quest’estate andremo insieme ad arredarla,
e poi ogni anno ci andremo, in autunno,
per assistere allo spettacolo del foliage
dalla vetrata del nostro salotto.
Dice questo alla moglie, l’imprenditore ***,
e lo ripete, perché tutto sia chiaro,
e parte per New York,
e tratta il prezzo dell’acquisto
della casa affacciata sul Central Park,
e tratta, di quel prezzo,
quanto bianco e quanto nero,
e se il nero si alza il prezzo si abbassa,
è matematico,
e alla fine telefona alla moglie,
e le dice “parti alle due”,
e lei va al nascondiglio,
e tira fuori la scatola, e tira fuori il Nero,
e resta lì, con le banconote in mano,
di nuovo sbalordita da quel tesoro,
da quella medievale presenza
nella casa da lei scelta, arredata, decorata,
nella camera dove dorme da vent’anni,
sotto al letto su cui ha concepito i suoi figli,
e guarda le banconote, invece di contarle,
le accarezza, le annusa, le adora,
e si accorge di non essere felice,
ma proprio per nulla,
di non esserlo mai stata,
se ne accorge davanti a quel Nero,
il Nero di suo marito,
il suo Nero – fermi tutti –,
perché il Nero è di chi lo ha tra le mani,
e decide,
di colpo, decide,
tanto i figli son grandi, i genitori son vecchi,
decide di partire per davvero,
né all’una né alle due né alle tre,
né alle quattro né alle cinque e nemmeno alle sei,
cazzo,
decide di partire alle otto.
Il Nero,
che nasce rubato e rubato rimane,
e così non finisce mai,
il Nero che ha fatto povera l’Italia e ricchi gli italiani,
ricchi e ladri, ricchi e derubati, ricchi e bugiardi,
sempre lì a piangere, a credersi nel giusto,
a maledire gli altri,
con tanta fiera ferocia,
e a sprofondare nel rancore.
DISSOLVENZA IN NERO
Terzo Nero: i Negri
“Ma che cosa è poi un negro?” (Jean Genet)
Femminile, maschile, singolare, plurale. Non esiste vocabolo della lingua italiana che presenti un’escursione più ampia – non semantica, emotiva – a seconda della sua flessione nominale. Occorre però una buona dose d’immaginazione, e anche di empatia, e perfino di pietas, per percorrere questo amplissimo spettro emotivo sforzandosi di comprendere tutti i comportamenti che questa parola produce. Occorre innanzitutto maneggiarla, frequentarla, farla risuonare, e già questo è delicato perché, a rigore, oggi come oggi non si potrebbe, trattandosi in realtà di una parola bandita.
Stavano zitti, ma l’odio nei confronti dei negri li dilaniava, perché i negri a casa nostra, semplicemente, per loro non andavano bene: non vanno bene se non si integrano, e perciò delinquono, ma non vanno bene nemmeno se si integrano, e studiano, e lavorano, e pagano le tasse, perché tolgono il posto agli italiani
Immaginiamoci dunque, per essere più liberi, di ritornare negli anni 70, quando ancora il termine negro veniva usato senza connotazioni dispregiative. Concentriamoci: siamo nel 1974, si può fumare negli ospedali, a scuola, al cinema, in aereo, si viaggia in moto senza casco, in auto senza cintura di sicurezza, sulle autostrade non esiste limite di velocità, non esiste il colesterolo, non esiste l’HIV, non esiste lo zucchero di canna, non esistono i ristoranti cinesi, messicani, giapponesi, tailandesi, indiani, libanesi, Nelson Mandela è in galera da dieci anni ma nessuno sa chi sia, ci sono ancora i comunisti, i telefoni in duplex, la miscela, la strategia della tensione, il grande design italiano, l’escalation nucleare, la Germania Est, Hannah Arendt, Francisco Franco, Onassis, Pasolini, esistono solo due canali televisivi e tre canali radiofonici, l’inflazione è al 19 per cento, le banche emettono miniassegni che hanno valore di moneta corrente, l’Italia è un’ininterrotta barriera architettonica e Barry White è negro. Mi rendo conto che per chi non ha vissuto quegli anni deve trattarsi di un difficile esercizio di fantasia, ma poiché di quel contesto esiste una ratio, e questa ratio appartiene alla Storia, basta sforzarsi di comprendere quella e tutto il resto, per quanto assurdo possa sembrare, affiorerà alla mente di conseguenza. Per chi invece quegli anni li ha vissuti, be’, non sarà difficile ricordarli. Dunque siamo lì, nel 1974, e proviamo a pensare a una negra (femminile, singolare): ci viene in mente una donna di colore per forza di cose famosa, una star del cinema o della musica, o una campionessa, giacché quasi nessun italiano conosceva e frequentava a quel tempo una negra in carne e ossa. Lola Falana. Aretha Franklin. Wilma Rudolph. Per conoscerla realmente, una negra, in Italia, in quegli anni, bisognava essere famosi a propria volta, e frequentare il jet set, o appartenere a quella minoranza rimasta impigliata negli strascichi del colonialismo – per esempio avere sposato una donna abissina (cioè, secondo la geografia coloniale, etiope), o eritrea, o somala, con conseguente meticciato nella discendenza. Quindi l’urto emotivo prodotto dalla parola negra era accompagnato dalla nozione di bellezza e di talento, oppure, in misura minore, da quella del colonialismo fascista. Il brivido della celebrità o quello della faccetta nera. Stop.
Il discorso si fa più complesso quando si passa al singolare maschile. Negro. Un negro. Il negro. Anche qui, come per il femminile, il primo pensiero va allo sport, alla musica, al cinema: Cassius Clay, Jimi Hendrix, Sidney Poitier. Potenza, talento, bellezza. Ma c’è anche qualcos’altro. Molto più che al femminile, emerge, neanche tanto in filigrana, l’impronta della schiavitù. E’ un retrogusto acido, persistente, che si percepisce anche in Italia dove “non siamo mai stati razzisti” – ed è inquietante: è il Zi badrone nei doppiaggi dei film, sono i modi di dire che porteranno alla messa al bando di questa parola (“lavorare come un negro”, “fare il negro”), sono gli omicidi di Malcolm X e Martin Luther King, è la percezione tutta bianca e tutta inconscia dell’irreparabile ingiustizia perpetrata, della rabbia repressa, del rumore delle catene che si spezzano. In altre parole è senso di colpa, e per lenire quello è anche ribaltamento della colpa, demonizzazione, paura. Non mi aspetto che tutti lo confermino, né peraltro ne sento il bisogno, perché la certezza che ne ho è assoluta: la parola negro faceva paura, ed è probabilmente anche per questo che –– no, questo è presto per dirlo, questo lo dirò dopo. Negro, singolare maschile: Pelé, certo, e James Brown, come no, ma anche senso di colpa e paura.
Passiamo al plurale. Negre. Brutt’affare, qui. Spariscono le celebrities, le campionesse e le cantanti, sparisce Donna Summer, sparisce Yvonne Goolangong, sparisce Zeudi Araya, sparisce tutto il senso di ricchezza, di bravura e di bellezza: al plurale, anziché sommarsi, tutto questo svanisce. Ricordo al lettore che siamo nel 1974, il termine negro può essere ancora pronunciato ma sulla tangenziale non ci sono ancora le ragazze africane che si prostituiscono: eppure quando il termine viene usato al plurale femminile per l’uomo bianco diventa improvvisamente, inconfessabilmente, un richiamo sessuale. Siamo le 1974, “noi italiani non siamo razzisti”, ma le negre sono carne. Che altro, sennò?
E siamo al plurale maschile. I negri. Genet, per l’appunto – la sua pièce non certo rassicurante, anzi punitiva, nelle cui note di prefazione l’autore specifica: “Questa commedia scritta da un bianco, è destinata a un pubblico di bianchi. Nell’improbabile caso in cui venga rappresentata di fronte a un pubblico di negri, una persona bianca (maschio o femmina) dovrà essere invitata ogni sera. L’organizzatore dovrà accoglierla formalmente, vestirla con abito da cerimonia e accompagnarla al suo posto, preferibilmente in prima fila: gli attori reciteranno per questa persona. Un occhio di bue dovrà essere costantemente acceso su questo simbolico bianco. E se nessun bianco accetta? In questo caso che siano distribuite all’ingresso delle maschere da bianco a tutti gli spettatori negri. E se tutti i negri rifiutano di indossarla, che si ricorra a un manichino” (7). Il terrore, in pratica. La commedia è del 1958: immaginiamoci dunque che cosa può essere quindici anni dopo.
Sì, immaginiamoci di essere al cinema, nel 1974, a vedere uno dei tanti bellissimi film che sono usciti in quell’anno, diciamo Papillon, di Franklin J. Schaffner, e di esserci arrivati in moto senza casco, e di avere pagato il biglietto con i miniassegni, e di star bellamente fumando in sala, eccetera, e immaginiamoci che l’omino che ci siede accanto avvicini la bocca al nostro orecchio e dica: “i negri”. Immaginiamo la nostra sorpresa, le nostre sopracciglia che s’increspano, noi che diciamo “prego?”. E immaginiamo l’omino che, sorridendo, ci ripete quella parola, aggiungendo due brevissimi avverbi: “i negri. Qui. Ora.”. Poi si alza e se ne va. I negri – al plurale. Qui. Ora. In un cinema poniamo di Prato, in un pomeriggio qualsiasi del 1974, mentre si sta guardando Papillon. Non è che venga facile continuare a seguire il film. Quell’omino ha catturato la nostra attenzione, con quelle quattro parole l’ha rubata nientemeno che a Steve McQueen: i negri qui, ora. Che significa? Qui dove? Ora quando? Perché? E chi sono questi negri? Cosa vogliono? E soprattutto, quanti sono?
Ecco, potremmo fermarci qui. Il senso si è già colto – è chiaro dove si finisce. Ma andiamo avanti, invece, andiamo fino alla fine, e la fine è qui, ora, nel 2019. Negri, dunque, maschile plurale, era una parola spaventosa già negli anni 70, quando ancora si poteva pronunciare. E non lo era solo in Italia ma in tutto l’occidente bianco e democratico, nell’Europa continentale, in Gran Bretagna, e ovviamente in America. I negri, maschile plurale, erano una minaccia, per la stessa ragione per la quale Jean Genet ha scritto la sua commedia nel 1958: perché laggiù, nel limaccio del nostro inconscio collettivo, i negri sono le vittime, e hanno subito ogni forma di vessazione, e hanno tutte le ragioni per vendicarsi, anzi – molto peggio – vendicarsi per loro è una vera e propria missione. Qui, dinanzi allo spettro della punizione, poco conta che nel 1974 nessuno fosse direttamente responsabile di quello che i bianchi avevano fatto ai negri una, due, quattro, sei generazioni prima. Poco conta che noi italiani, per giunta, non avevamo fatto proprio nulla, che gli schiavisti fossero stati gli americani, semmai, gli inglesi, gli olandesi, e a sfruttare indegnamente le colonie fossero stati i belgi, i francesi, i portoghesi, gli spagnoli, i tedeschi, mentre noi alle nostre colonie “avevamo fatto solo del bene”, “avevamo costruito le strade” eccetera. Poco conta tutto, visti i pensieri che anche noi maschi italiani avevamo avuto e continuavamo ad avere nei confronti delle loro donne – le negre: pensieri nostri, non degli americani, attuali, non di tre o quattro generazioni prima. Poco conta anche che alcuni di noi, individualmente, questi pensieri non li avessero mai nemmeno avuti. I negri, maschile plurale, poteva voler dire solo che si erano riuniti, fomentati, organizzati, e venivano a punirci qui e ora per il male che gli avevamo fatto e per il desiderio che continuavamo ad avere di fargliene. Questo, quaranta e passa anni fa.
Oggi è tutto cambiato, ma sui negri è la stessa identica cosa. Il termine negro è stato bandito perché dispregiativo – ma anche, ora sì che lo dico, perché ci faceva paura, per l’appunto, molta più paura dei termini che ne hanno preso il posto dato che è ai negri che è stato fatto il male, non certo agli afroamericani o alle persone di colore. Molti tuttavia continuano a farlo risuonare, in pubblico e in privato: provocatoriamente, si dice, per una ribellione da scemi del villaggio contro la dittatura del “politically correct”, in realtà per nutrire con la paura che quella parola incute l’odio che cova dentro di loro. La solita vecchia incapacità del carnefice di perdonare la sua vittima. Ma come, odio addirittura? Sì, odio. Ma come, anche noi italiani? Sì, anche noi italiani.
Anche noi, italiani brava gente, che siamo emigrati a milioni e abbiamo conosciuto la zanna della discriminazione, anche noi siamo razzisti e lo siamo sempre stati. Lo eravamo già nel dopoguerra con i terroni, cioè con noi stessi; e in realtà lo eravamo già stati anche con i negri, a casa loro, fin dal tempo della prima guerra d’Etiopia, alla fine del XIX secolo, e poi durante il fascismo e la seconda guerra d’Etiopia, quando non siamo andati a costruire le strade, ma a compiere anche noi i nostri misfatti coloniali; e lo eravamo anche quando la parola negro non era utilizzata con disprezzo e di negri nelle nostre strade italiane non ce n’era ancora neanche uno. Poi però hanno cominciato a venire. Prima pochi, e potevano ancora sembrare un negro alla volta; poi sempre di più, centinaia, migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia – cioè sempre pochi, in confronto a sessanta milioni, ma visibili, impossibili da ignorare, e in moltitudini. Finché sulle nostre strade italiane, sui nostri autobus e sui nostri treni italiani, nei nostri pronto soccorso italiani e in tutti i nostri spazi comuni italiani, i negri che nel frattempo non venivano più chiamati negri hanno cominciato a esser di casa, a sentirsi a casa. E qui gli italiani, come tutti gli altri bianchi prima di loro, si sono spaccati in due: da una parte quelli che hanno lavorato sul proprio senso di colpa, e hanno affrontato quella paura atavica, e si sono impegnati a cambiare forma mentale, a censurare i propri impulsi razzisti, a sublimarli, magari, sforzandosi di sentirsi a proprio agio in questo cambiamento, così da mettere al mondo una generazione che non dovesse fare più quella fatica per convivere coi negri; dall’altra quelli che non ci hanno nemmeno lontanamente pensato, a impegnarsi, né sono stati aiutati a concepirlo, e sono rimasti soli a sguazzare nella colpa, nell’odio e nella paura, e hanno preferito rimanere scioccati, scandalizzati, indignati, e quel cambiamento hanno preferito subirlo come un insulto, e quella convivenza hanno preferito viverla come un’umiliazione, giorno dopo giorno, anno dopo anno, soffrendo in silenzio. Già, perché non potevano nemmeno dirlo poiché insieme alla parola negro era nel frattempo stato messo al bando anche il razzismo, e quindi quello scandalo immane doveva essere addirittura taciuto. Stavano zitti, dunque, ma l’odio nei confronti dei negri li dilaniava, perché i negri a casa nostra, semplicemente, per loro non andavano bene e non vanno bene e non andranno mai bene: non vanno bene se non si integrano, e perciò delinquono, e spacciano la droga che rovina i nostri ragazzi, e violentano le nostre donne, ma non vanno bene nemmeno se si integrano, e studiano, e lavorano, e pagano le tasse e giocano nella nostra nazionale di calcio, di basket, di pallavolo o di atletica leggera – perché tolgono il posto agli italiani; non va bene ritrovarseli davanti nelle graduatorie per le case popolari, o nei concorsi, ma non va bene nemmeno averli subito dietro. Dovunque si radunino, in realtà, i negri per loro non vanno bene. Le negre possono anche andare bene – là, sugli stradoni, o chine sul mocho a lavare le scale –, ma i negri no. E’ quel maschile plurale che non va bene. I negri a casa nostra non vanno mai bene. Era razzismo, e non si poteva dire.
E siamo all’oggi. E siamo all’omino che non ha studiato e che ha frequentato brutti ambienti, e che un bel giorno ha pensato a quanta energia da liberare ci fosse in quel non poter dire, a quanto consenso era lasciato lì a guastarsi, a quanta utile paura veniva sprecata. L’omino che mentre eravamo lì a pensare all’allargarsi della forbice tra poveri e ricchi, al debito che cresce, al pil che non cresce, al riscaldamento globale, ai giovani che emigrano, alle coppie che non fanno figli, alla corruzione, alla mafia, all’evasione fiscale, al dissesto idrogeologico, ai ponti che crollano, ai monumenti che si sbriciolano, al modello stesso della nostra civiltà che non funziona più, ci è venuto vicino e ci ha sussurrato nell’orecchio: “I negri. Qui. Ora”.
Ed è diventato stocazzo (8).
DISSOLVENZA IN NERO
1) Luigi Freddi, “Bandiere nere, contributo alla storia del fascismo”, Libreria del Littorio, 1929.
2) Umberto Eco, “Il fascismo eterno”, La nave di Teseo, 2017.
3) Angiolo Mazzoni (1894-1979). Architetto ingegnere del ministero delle Comunicazioni, Skira, 2003.
4) Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”, Oscar Mondadori, 1997.
5) “Totò, Peppino e la malafemmina”, regia di Camillo Mastrocinque, 1956.
6 “Fratelli di sangue” (“Thicker than water”), cortometraggio con Stan Laurel e Oliver Hardy, regia di James W. Horne, 1935.
7) Jean Genet, “I negri”, Einaudi Collezione Teatro, 1982.
8) Francesco Piccolo, “L’animale che mi porto dentro”, Einaudi, 2018.
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