Cristo si è fermato a Brescia
Ha una crescita record in Europa. Ha trasformato in un punto di forza il suo alto tasso di immigrati. Ha fatto dei rifiuti una ricchezza. Ha dimostrato che il popolo ha bisogno dell’élite (e della Tav). Reportage da un miracolo italiano, dove le ombre del Cambiamento fanno ancora più paura
Ci sono altri posti in Italia in cui vedi terzetti di amici misti, un bianco e due di colore, che girano per i vicoli di una città pulita e ben illuminata, con negozi per altospendenti senza bottiglie rotte a terra? Come si mette insieme il più alto tasso di immigrazione in Italia e la crescita industriale, pur in un momento in cui il resto del paese ristagna comme d’habitude? Si era già stati a Brescia, a indagare l’augusto modello che rende la città di Papa Paolo VI e di Giuseppe Zanardelli quasi incomprensibile. Quando il Pd qui aveva trionfato alle ultime comunali (unicum, ancora una volta, percentuali da trionfi renziani). I numeri sulla ruota di Brescia: più 2,9 per cento di produzione industriale; immigrati al 18,5, esportazioni più 7. E ancora: disoccupazione al 5,2 per cento (la metà rispetto a quella nazionale, 10,6); e disoccupazione giovanile pure dimezzata, 16,3 per cento contro 32,2).
Se questa provincia fosse uno stato, dicono gli industriali, con il suo pil verrebbe prima di Slovenia, Lituania, Lettonia
Il sindaco Del Bono (Pd): “Salvini è un disastro come attenzione al sistema produttivo. Qui il lavoro è un’etica”
Se questa provincia fosse uno stato – dicono all’Aib, l’Associazione degli industriali bresciani – con quasi 1 milione e 263 mila abitanti, sarebbe davanti a Cipro, Lussemburgo e Malta. Per il pil (39,3 miliardi di euro) verrebbe prima di Slovenia, Lituania, Lettonia. Brescia potrebbe essere un principato, e però ha un sindaco.
Nel palazzo della Loggia, Emilio Del Bono è raggiante. E non per la rielezione al primo turno, che è ormai lontana. “Ti do un dato di oggi, in particolare nella manifattura gli immigrati occupati sono il 17 per cento, contro il 12 per cento della precedente rilevazione. Il tema è quello del governo del fenomeno migratorio, e non della sua demonizzazione. Questo gli imprenditori del nord ce l’hanno ben chiaro. Se noi domani avessimo un collasso dal punto di vista dei flussi migratori, chiuderemmo bottega. Questo dicono. Quando diventeremo meno ipocriti? Quando la sinistra smetterà di trattare l’argomento in termini di accoglienza indiscriminata, e quando, nel campo avverso, invece, in termini di chiusura dei porti?”.
“Trentottomila immigrati regolarmente residenti su 200 mila abitanti”, recita tipo mantra il sindaco. E’ chiaro che tutto funziona finché l’economia tira. E gli ultimi dati, anche se “cinesi”, registrano una frenata (più 2,9 di produzione industriale nel 2018, contro il 3,3 dell’anno precedente). “Risentiamo anche noi del rallentamento nazionale. Il mondo produttivo è in stato di insofferenza nei confronti del governo”, dice poi, più serio. “Fino a qualche tempo fa ti dicevano che la Lega se non fosse per i Cinque stelle sicuramente farebbe bene. Adesso però qualcosa è cambiato: Salvini è un disastro come attenzione al sistema produttivo. Reddito di cittadinanza e quota 100 sono figlie della stessa logica, parlando a quella parte del paese non produttiva, non mettendo al centro al lavoro. E a Brescia il lavoro è anche più importante della ricchezza prodotta. Qui il lavoro è un’etica. Quello che non lavora è un lazarù, un lazzarone, non importa se locale o immigrato”.
L’integrazione bresciana è dop, ormai celebre, forse poco imitabile: si fa con una massiccia dose di sicurezza, il pugno di ferro con gli estremismi, il bando a quartieri-ghetto e alla moschea ribalda che infatti non ci sono. Così la Lega non sfonda, né il Movimento 5 stelle, che alle ultime comunali si è fermato al 5 per cento. Il rione più multietnico è il Carmine, vecchio agglomerato medievale nel centro della città che poteva diventare una bomba di kebab e sciamannati ideologici, e invece è presidiato da una bella caserma della polizia, e da tante bollicine.
Piazza Duomo (foto LaPresse)
A Brescia si beve soprattutto Franciacorta. Maurizio Zanella comanda su Cà del Bosco, uno dei marchi più famosi di questo “champagne” bresciano, anche se lui si offende se lo si chiama così. Secondo Giacomo Malvezzi, storico quattrocentesco, il nome Franciacorta deriva dal breve soggiorno che qui ebbe Carlo Magno prima di conquistare Brescia; altro etimo forse più attendibile afferma essere stato il territorio una curtis franca, cioè una zona di libero scambio. Zona delle più belle, peraltro: già lady Mary Montagu, gran sciura settecentesca, qui residente dopo una vita alla corte di San Giacomo e dopo il declino politico del marito, nelle sue lettere alla figlia dice che qui si sta meglio che a Londra. Oggi il Franciacorta, che è di un secolo più antico dello champagne, comprende 99 viticultori e 188 imbottigliatori. E una vendemmia che non si farebbe senza immigrati. “Per la vendemmia arriviamo a dare lavoro a 350 persone. Dove le troveremmo?”, dice Zanella. “Oltretutto il protocollo Franciacorta, di altissima qualità, vieta l’uso delle macchine, “con una sola che è in grado di sostituire 40/45 persone. Ma da noi non se ne parla”.
Si torna a Brescia. Si passa da piazza della Vittoria, architettura piacentiniana muscolare, tra i cari marmi alla patria, una vineria con barista del Ghana. “In questo locale si segue una dieta religiosa” avverte un cartello. “Mangiamo ogni ben di Dio pregando di non ingrassare”. Si prende la metro: Brescia ha una avveniristica metropolitana senza conducente, ben prima della Lilla di Milano, stesso modello di quella di Copenhagen ma con in più un tocco napoletano: ci sono infatti opere d’arte in tutte le stazioni. Nei primi sei anni della sua esistenza col resto dei trasporti bresciani ha avuto 15 milioni di utenti. 17 milioni di euro il ricavo annuo dai biglietti staccati del trasporto pubblico, 800 mila controlli che scoraggiano sempre più i “portoghesi” (modello Brescia).
Foto di Andrea Bonassi via Wikipedia
Si scende alla stazione ferroviaria: molti immigrati, molta polizia. Nessun senso di insicurezza. Un supermercato bio. Ascensori funzionanti. Car sharing elettrico. Suv e Range Rover a strafottere.
Giuseppe Pasini, presidente degli industriali bresciani: “Non sono contro il governo, ma con una crescita zero non si va da nessuna parte”. “Se penso ai miei lavoratori dei prossimi vent’anni so che non saranno i figli dei miei operai attuali… ma potranno essere immigrati. E li dovrai formare”
Orde di pendolari che vanno a lavorare a Milano e poi tornano a Brescia, collegata sull’alta velocità con Roma ma soprattutto con Milano: 32 minuti per coprire gli ottanta chilometri dalla capitale morale. Adesso da Brescia si tratta di proseguire verso est. La Tav Brescia Verona è la continuazione della Torino-Lione nel suo simmetrico. Anche qui polemiche e proteste, perché si tratterà di passare su zone pregiate, come quella vinicola del Lugana veronese. Anche qui commissioni costi-benefici, anche se Toninelli proprio a Brescia è cresciuto. Si va a Lonato, paesotto di sedicimila abitanti. Qui c’è il più grande fan della Tav bresciana, che è anche, accidentalmente, il presidente degli industriali.
Giuseppe Pasini, presidente della potente Aib, è il più felice espropriato d’Italia. Per arrivare da lui, si scende sotto un cavalcavia e si presenta l’enorme Feralpi, l’azienda di famiglia, 1,3 miliardi di fatturato annuo, che produce il sacro graal dei bresciani: il tondino d’acciaio. I suoi stabilimenti producono 2,4 milioni di tonnellate d’acciaio l’anno. Adesso gliene vogliono espropriare un pezzo, perché sulla sua proprietà passerà la Tav Brescia-Verona. Sarà imbestialito. “Ma no, non ci creerà molti problemi, nonostante sarà uno dei cantieri più grandi della Brescia-Verona”, la prosecuzione verso est della famigerata Torino-Lione. “Gli espropri stanno andando avanti. Io sono convinto che a livello nazionale la Tav si farà. Coi numeri che fa la nostra città, come si fa a non volere la Tav?. Brescia è una città europea per esportazioni”. E’ entusiasta.
Secondo l’Aib, sempre, Brescia è il primo distretto in Italia per i prodotti in metallo e per la metallurgia, con 52 mila addetti. Il manifatturiero ha fatto più 16 per cento negli ultimi cinque anni. Si entra nell’ufficio e lui è intento ad aggiustare una tenda della finestra (imprenditori bresciani). A un certo punto si sente una scossa, lo stabilimento vibra tutto. Saranno già le ruspe? No, è il tondino che scalpita: a oltre mille gradi, l’acciaio viene fuso e riversato nel famoso rivetto d’acciaio, indispensabile per il cemento armato. Però, si obietta, i contrari alla Tav lamentano che rispetto al progetto originario il traffico delle merci è calato. “Ma quale calo?” si chiede Pasini: “Le esportazioni della provincia di Brescia sono salite del 7 per cento a 16,9 miliardi”. “L’alta capacità tra l’Italia e la Francia è fondamentale, noi abbiamo degli uffici anche a Lione. E stiamo usando ancora le ferrovie che ha fatto Cavour”.
E il pregiato Lugana coi suoi vigneti? “Guardi, il tracciato prevede che una sola cascina verrebbe espropriata. Ma la smonterebbero e rimonterebbero com’era prima solo qualche chilometro più in là”. E la commissione costi-benefici? “Quando abbiamo fatto l’Autostrada del Sole secondo lei abbiamo fatto l’analisi costi-benefici? L’abbiamo fatto per unire il nord al sud, con una strategia. Adesso dobbiamo unire l’Europa. Il nord dell’Italia lavora con l’Europa”.
Braccianti di colore vendemmiano in Franciacorta (foto LaPresse)
Pasini in passato ha detto cose molto dure. “Sulle questioni economiche ci sentiamo abbandonati a noi stessi”, ha detto quando è andato a Torino coi Sì Tav (altro che madamine). Preparandosi a scendere in piazza. Oggi è più riflessivo, ma non troppo. “I Cinque stelle si stanno un po’ avvicinando alle nostre posizioni, di noi imprenditori dico. Ma non mi illudo molto, credo che sia dovuto al fatto che siamo vicini alle elezioni. C’è una parte del governo che non è vicina al mondo dell’impresa”. E la Lega? “Con la Lega ci dialoghi. Il fatto è che è come in azienda: se hai un socio al 50 per cento che vuole fare una roba diversa da te, come fai?”.
La settimana scorsa poi il Corriere della Sera ha organizzato a Brescia il “Family Business Festival” dedicato alle imprese familiari (forse perché a Milano tra MiArt e Salone del Mobile non c’era più posto). Sul palco, piccolo battibecco tra il Pasini e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Conte: “Non sempre la ricchezza di un’impresa si traduce nella ricchezza della comunità. Ci sono imprenditori che qualche volta hanno pensato ai dividendi e non a investire nell’impresa”, ha detto il premier. “Prima di ridistribuire la ricchezza bisogna crearla e l’impressione è che il governo sia miope”, ha risposto il presidente degli industriali. “Non sono contro il governo, ma con una crescita zero non si va da nessuna parte”.
“Negli ultimi dieci anni abbiamo perso il 13-15 per cento di pil rispetto alla Germania, una montagna di crescita”, continua il boss degli industriali bresciani. “E guardiamo alla disoccupazione: nel 2009 a Brescia la disoccupazione era uguale ai migliori land tedeschi, intorno al 3,2 per cento, adesso sta tornando a quei livelli ma faticosamente. Loro invece non sono mai scesi”. Pasini si considera un po’ tedesco perché ha uno stabilimento in Sassonia, “siamo andati su che era il 1992, c’era il disastro, tutto da ricostruire. Siamo andati a produrre nel più grande mercato europeo, sia come produzione che come consumo, con uno stabilimento passato da 350 dipendenti a 650. Quando dici Feralpi in Sassonia vedi che siamo considerati persone serie. E non era facile fare l’acciaio per i tedeschi”. Il confronto con questa seconda patria lo appassiona. “La Merkel ha tirato dentro 700 mila siriani, vuol dire che anche la Germania si pone il problema su chi saranno i nostri lavoratori di prossimi anni. Io se penso ai miei lavoratori dei prossimi vent’anni so che non saranno i figli dei miei operai attuali. Quelli andranno a scuola, all’università, all’estero. Ma noi abbiamo bisogno di operai, e quelli potranno essere immigrati. E li dovrai formare, li dovrai istruire. I miei bisnonni sono andati uno in miniera e uno in Argentina. E non è questione di buonismo. E’ questione di opportunità”.
Il termovalorizzatore dei rifiuti, il torrione azzurro che scorre accanto alla Tangenziale e che brucia senza sosta la monnezza non solo bresciana, ha vinto premi di bellezza in tutto il mondo: nel 2006 la Columbia University l’ha eletto “miglior impianto del mondo”. Ma non è solo bello, fa risparmiare
Una cosa che accomuna Lonato alla Sassonia è anche il teleriscaldamento: “Col calore recuperato dai circuiti di raffreddamento dell’acciaieria scaldiamo gli edifici pubblici del comune di Lonato. Ma questo impianto è piccolo rispetto a quello che abbiamo in Germania, dove è stato realizzato il primo impianto al mondo di recupero di calore da forno, capace di generare 3 MW di potenza elettrica”.
Del resto Brescia è stata la prima città in Italia a dotarsi di un sistema di teleriscaldamento: nel 1972, prima della grande crisi energetica seguita al 1973 (previdenza bresciana) si costruì la grande centrale in grado di riscaldare tutta la città risparmiando; all’inizio la centrale era alimentata a metano, ma poi negli anni è “powered by” il termovalorizzatore dei rifiuti, il torrione azzurro che scorre accanto alla Tangenziale e che brucia senza sosta la monnezza non solo bresciana. Il torrione ha vinto premi di bellezza in tutto il mondo: nel 2006 la Columbia University l’ha eletto il “miglior impianto del mondo”. Ma non è solo bello, fa risparmiare: a Brescia la Tari per le famiglie è la più bassa in assoluto in Lombardia. E oltre a smaltire i rifiuti e a produrre energia elettrica, recupera il calore generato e lo convoglia, attraverso una rete di teleriscaldamento di oltre 630 chilometri, fino alle abitazioni dei singoli utenti. Il torrione segna anche l’apice della relazione coi milanesi: infatti l’impianto è in capo alla A2A, la mega utility lombarda che vale 5 miliardi in Borsa, e ha inglobato dieci anni fa la Asm, potente municipalizzata bresciana, con la milanese Amsa, facendo storcere il naso a molti. In cambio però i bresciani siedono in parità, 50 per cento delle quote, nonostante la differenza di stazza delle due città. (Altrove, il genio bresciano del riuso si esprime a livelli più micro: a pochi chilometri da Lonato, a Calvisano, vecchie cave sono riempite d’acqua sempre d’acciaieria, acqua ricca ovviamente di ferro, che ora serve ad allevare gli storioni per il Calvisius, il caviale bresciano).
Tondino e caviale, non sarebbe mica male. Qualcuno però è critico. Qualcuno scalpita. Sono i giovani. Lorenzo Maternini, cofounder di Talent Garden insieme a Davide Dattoli, probabilmente la realtà imprenditoriale più rilevante, a livello simbolico, che Brescia abbia sfornato negli ultimi anni. Trentenni globali, girano il mondo ad aprire i loro coworking che fanno concorrenza a gruppi come Wework in America (Dattoli è recentemente finito anche nei 100 leader under 30 della rivista Forbes).
I giovani che scalpitano: perché Brescia non prova a essere leader di un cambiamento nazionale? L’amore-odio per Milano. L’ossessione per le infrastrutture. L’autostrada fatta “dai privati per i privati”. Le élite illuminate e il calvinismo caritatevole, vaccini contro il populismo
“Brescia è una città che ha sempre avuto una classe dirigente di livello nazionale, sia a livello economico che politico”, attacca Maternini, al telefono da Vienna, dove è andato a inaugurare l’ennesimo spazio della loro espansione europea. “Oggi l’amministrazione funziona bene, la città è bella. Ma cosa vuole dire al Paese? Perché non prova a essere leader di un cambiamento nazionale?”. “Manca un ecosistema” sostiene Maternini. “Certo c’è qualcosa, il polo universitario fa cose eccellenti, ci sono aziende singole che fanno cose eccellenti, ma non riescono a fare il salto, e devono andare a Milano”.
Lorenzo Maternini: “Il polo universitario fa cose eccellenti, ci sono aziende singole che fanno cose eccellenti, ma non riescono a fare il salto, e devono andare a Milano”. Piero Gandini: “E’ l’unica vera città che c’è in Lombardia, a parte Milano, da cui la divide però un gap culturale immenso”
Milano è sempre il tema: Milano che è ormai tutta esaurita, che se “devi assumere qualcuno lo devi pagare il doppio”, Milano che rischia di “assorbirci completamente. Oltretutto se non hai una classe dirigente di livello nazionale rischi che anche le infrastrutture fai molto più fatica ad averli, a tenere la città più connessa a livello nazionale”. “Manifestazioni, eventi, mostre, iniziative, che attraggono persone da tutta Italia, e non solo da Brescia. Questo serve. Talent Garden del resto è nato da una serie di piccoli eventi e dall’esigenza di aggregare persone di talento, che poi sono partite e oggi lavorano a Google, a Facebook”. “Quello di cui ci sarebbe bisogno però è di mettere dei giovani in posti chiave, anche a livello culturale. Chiedersi cosa si può fare. Magari è una cosa che non avrà impatto sui dati economici. O forse sì”.
Ma non si chiederà un po’ troppo a questa povera ricca Brescia? “Lo so, non è che possiamo diventare Amsterdam”, dice Maternini. “Però se non punti a diventare Amsterdam non diventerai neanche Lille. Noi stiamo aprendo un altro Talent Garden proprio a Lille, che ha fatto un polo tech fantastico. Bisogna pensarci alla geografia, e la geografia non sarà più solo quella delle grandi capitali, di Berlino e Amsterdam. Sarà anche quella delle cosiddette città Pier 2? Perché non entrarci in questa nuova geografia?”
Altra voce critica. A Bovezzo, sulla via Triumplina, uno stradone-highway che conduce alla Val Trompia sacra ai bresciani (fabbriche di acciaio, armi, pentole, fortune miliardarie, accenti gutturali talvolta incomprensibili). Piero Gandini, erede della Flos, che ha illuminato le case degli italiani-bene per il Novecento e oltre, l’ha rilanciata e poi venduta, inglobata in un polo dell’arredamento ganzo che si chiama Design Holding, coi denari globali di Carlyle e milanesi della Investindustrial di Andrea Bonomi. Bresciano globale, bresciano critico. “A parte Milano, Brescia è l’unica vera città che c’è in Lombardia, non lo sono certo, con tutto il rispetto, Bergamo o Varese o Como. O Mantova, son stato recentemente, è bellissima, ma è indietro di trent’anni, ci sono proprio anche negozi che da noi non esistono più. Però se il gap che c’è di efficienza tra Milano e Brescia è basso, rimane un gap culturale immenso. Distacco siderale. A Brescia ci sono solo due gallerie d’arte di livello, quella di Massimo Minini e quella di Chiara Rusconi. Da quel lato lì la città è rimasta molto provinciale. Ottanta chilometri di macchina ma entri in un altro ecosistema: Milano è ormai una repubblica a parte, sta vivendo un rinascimento nato da una serie di incroci, e dalla difficoltà di altre città in Europa molto in crisi come Parigi o Londra. Brescia invece ha un’identità forte, magari un po’ greve. Un bellissimo territorio. Qualche problema come l’inquinamento. Brescia dovrebbe avere un coraggio e una proposta culturale molto più alto” riflette Gandini. “Per esempio il Teatro di Brescia fa delle ottime cose, di alto livello, però non lo sa nessuno, forse neanche i bresciani. E non credo abbiamo problemi di budget. I soldi in questa città ci sono. Brescia da questo punto di vista è pigra. E’ più comodo prendere la macchina, e andare a Milano”.
Piazza Vittoria (foto LaPresse)
Milano, e le infrastrutture, un’ossessione. Trasformata in un’autostrada che meriterebbe il Rem Koolhaas di Junkspace o il Lévi-Strauss dei Tristi tropici. Forse non ce ne sono altre nel mondo, di autostrade per altospendenti. La A35, detta anche BreBeMi, con simpatico acronimo di Brescia-Bergamo-Milano, lunga solo 62 chilometri, costata 1,8 miliardi di euro, fatta “dai privati per i privati”, tutta in project financing senza finanziamenti statali, tranne un aiutino Cdp e banca europea degli investimenti, ha portato i bresciani ad avvicinarsi ancora di più alla amata-odiata Milano. C’era già la A4, ma loro ne volevano un’altra.
I cumenda che vogliono andare a cena da Cracco o sulla Torre Prada e tornare in serata, anche in assenza di frecciarosse notturne (i treni normali su quelle tratte sono ormai frequentati solo da “giargianesi” o “giargiana” o “giargia”, che nello slang padano poco inclusivo significa chi è straniero, non autoctono, magari di pelle diversa), si gettano infatti immancabilmente sul tragitto autostradale finalmente liberi di scaricare i cavalli. Costa di più della “povera” consorella, la parallela A4, detta “la Serenissima”, gloriosa antica autostrada, la più trafficata d’Europa.
“BreBeMi è un’autostrada di nuova concezione con tracciato dritto, manto perfetto, corsie più larghe (anche quella di emergenza)”, scrive il Corriere della Sera di Brescia, entusiasta, “e chicche come i sistemi antinebbia che permettono di guidare in sicurezza anche in condizioni avverse”. Oltre le chicche, il prezzo. Anche il doppio della Serenissima. “Cara? No, sicura”, dice una pubblicità, che offre sconti del 20 per cento per i frequent flyer che la usano spesso. Se scarichi la pratica App35, entri poi a far parte di un sistema tipo Millemiglia Alitalia, “BreBeMi che premi”. Poi prendi pure l’aereo: siccome Brescia ha il problema degli aeroporti (quello di Bergamo è appunto di Bergamo, quello di Montichiari-Brescia è feudo dei veronesi), la leonessa d’Italia ha fatto il bypass coronarico e arriva direttamente al cuore della macroregione.
“Da Brescia a Linate ci metti 50 minuti” dice Pasini, un entusiasta della BreBeMi (è anche ecologica: presto sarà la prima autostrada d’Italia a essere elettrificata con tragitti di camion in fila. E avrà le stazioni di ricarica della Tesla, perché i cumenda pensano anche al pianeta, mica solo al fatturato). “La BreBeMi è una grande opportunità perché si avvicina a quella che sta diventando una grandissima città europea, Milano. Un tempo Milano era lontana da raggiungere, adesso è qua. Lì c’è tutto, professionisti, servizi”.
Insomma, Milano: amore e odio, i bresciani la vogliono sempre più vicina ma temono d’esserne inghiottiti. Il rischio per Brescia, par di capire, è di diventare come San José, capitale misconosciuta della Silicon Valley, per disgraziati che non possono stare a San Francisco (che sarebbe Milano). Tutti in Tesla sulla BreBeMi.
Di nuovo a palazzo Loggia: il sindaco risponde alle critiche. “Ma noi siamo in trasformazione”, risponde a chi accusa la città d’essere sazia di sé, e con poca “visione”. “Noi stiamo facendo il percorso che ha fatto Torino, siamo molto simili. Il 60 per cento degli occupati stava nella manifattura, oggi è il 25. La città ha cambiato faccia. Vogliono una eccellenza? Eccola: la sanità. La più grande azienda della città oggi è un ospedale, l’Ospedale civile, con ottomila dipendenti. Oltre a quello ci sono la Poliambulanza e il gruppo San Donato. In tutto la sanità bresciana si porta via ventimila occupati”. Però la sanità non è mica sexy come le startup. Anche Pasini il ras dell’acciaio: “Siamo tornati a fare quello bene che siam capaci a fare”, dice il signore dell’acciaio. E il sindaco: “gli imprenditori, dopo la sbornia finanziaria, hanno ricominciato a reinvestire nelle aziende e nella produzione. Questo è successo”.
Breve riassunto: fino agli anni Ottanta Brescia aveva il tondino, con Lucchini, presidente di Confindustria. Poi c’è stata la finanza allegra: i capitalisti coraggiosi, i furbetti, col Chicco Gnutti, la Hopa, la Telecom. Oggi la sede della Banca Popolare di Brescia, la Bipop che tentò di giocare a Wall Street, è lasciata lì - in mezzo a un centro storico iper restaurato - ad arrugginire, a perenne monito. “Quando si parla di Brescia che deve fare la finanza, che deve porsi come alternativa a Milano, son tutte palle”, dice il Pasini animandosi molto. “Milano ha bisogno di Brescia perché noi siamo una grande piazza del manifatturiero. E Brescia ha bisogno di Milano perché è una grande piazza finanziaria”. Basta.
Milano, sempre Milano: a fine marzo fa il sindaco Beppe Sala è venuto in visita pastorale a incontrare il suo omologo in un meeting che pare però un po’ storico, perché ha portato quasi un’investitura. “E’ finito il tempo delle rivalità”, ha detto Sala. “Offro l’idea di avere intorno a me città non da trattare come ancillari, ma come complementari. Brescia è quella che sento più vicina e pronta, per certi versi ancora più di Torino. Io sono disponibile, anche per l’amicizia che mi lega a Del Bono”. “Brescia ce l’ho anche nel cuore” ha detto Sala, per via della compagna, Chiara Bazoli, rampolla del nume tutelare bresciano, Nanni, presidente emerito di Intesa, figlio di un deputato del partito popolare, costituente, famiglia ottocentesca vicina ai Montini; una cognata morta nella strage di piazza Loggia, il dramma identitario della società civile bresciana. Insomma Kennedy più elettrificazione: Bazoli era celebre per fare ogni giorno il tragitto Brescia-Milano in treno, andando a salvare il capitalismo nazionale in seconda classe, alzandosi per far sedere eventuali signore (lo si incontrò).
Il sindaco: “Dopo la sbornia finanziaria, gli imprenditori hanno ricominciato a reinvestire nelle aziende e nella produzione”. Orgoglio con juicio. “Siamo cattolici-liberali. Liberali ma temperati dai valori sociali, è una bella mescolanza no? Efficienza produttiva e solidarietà”
“La tenuta della Lombardia è possibile solo se Milano esce dall’isolamento”, gongola il sindaco di Brescia fresco di investitura. “Milano rischia di essere vista come isola felice ma appunto sola, senza punti di riferimento fuori da sé. Noi siamo la città che fa anche da cerniera con la Lombardia orientale. Certo, è chiaro, noi giochiamo una partita diversa, con le grandi città europee, ha detto Sala, ma dobbiamo pensarci anche come sistema, nel rapporto col territorio. Sai, Brescia ha sempre avuto una relazione complicata con Milano: noi siamo Lombardo-Veneto, le grandi famiglie bresciane se dovevano scegliere tra i Visconti e la Serenissima stavano con Venezia. E’ anche vero però che noi siamo da sempre attratti da Milano. Siamo la naturale prosecuzione di Milano. Bergamo, che paradossalmente è più vicina, è fuori dall’alta velocità, è più decentrata”.
E questo rischio dell’assorbimento? Non c’è il rischio di venire risucchiati dalla grande madre/matrigna? “Credo che abbiamo gli anticorpi. Noi non siamo come Como o come Varese, che sono quasi dei sobborghi di Milano”. Quanto orgoglio, quanti simboli. Magari non una foresta, ma un albero sì. Nell’epopea che ha trasformato la grigia e sfigata Milano di dieci anni fa nell’emirato del benessere che è oggi, il suo simbolo, quell’alto micidiale Albero della Vita, palo della cuccagna che irradiava di luci la Macroregione e il suo Expo, era notoriamente fatto qui, ci fu anche l’hashtag: #orgogliobrescia.
Orgoglio con juicio. “Siamo cattolici-liberali” conclude la pastorale bresciana il sindaco. “Cattolici ma non integralisti – non si sarebbe mai potuto avere da noi un congresso come quello di Verona. Ricordiamoci che a Brescia sulle barricate risorgimentali c’era un prete, don Boifava, insieme ai mazziniani. Un cattolicesimo non pontificio. Montini. Liberali ma temperati dai valori sociali, è una bella mescolanza no? Efficienza produttiva e solidarietà. Pensa a Zanardelli” (Giuseppe Zanardelli, ministro di Grazia e Giustizia del Regno d’Italia che dette il suo nome al codice penale; poi presidente del consiglio); “abolisce la pena di morte, ma è anche quello ai primi del Novecento pensò a tutta l’infrastruttura che arrivava sui laghi bresciani, era una metropolitana ante litteram”. Di nuovo le infrastrutture. Tondino e tornello.
“Sai un’ultima cosa sull’immigrazione?”, dice il sindaco. “Non abbiamo perso le nostre radici, come qualcuno paventa. Anzi. Abbiamo brescianizzato loro”. E Brescia, forse perché ci son state queste élite illuminate, forse per il calvinismo caritatevole, sembra naturalmente vaccinata contro i populismi. Alla decrescita felice non ci ha mai creduto nessuno: di sicuro non le seconde generazioni miste che si aggirano per la città sognando, più che il reddito di cittadinanza, la fabbrichetta. E tutte concentrate a non apparire mai, neanche per un minuto, dei “lazarù”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano