Il mondo spiegato con dieci figli

Annalena Benini

Sono scrittori e figli, a volte genitori. Hanno raccontato sulle pagine settimanali del Figlio non solo che cos’è l’infanzia, ma come cambia, come sparisce, e che cosa porta con sé nella vita adulta e in quella di genitori. Storie d’autore da leggere e ritagliare

Scrittori, figli, a volte genitori

Il Figlio ha compiuto da poco tre anni. Tre anni di storie, racconti, libri, tormenti, lettere, disegni. Tutte le settimane, una dopo l’altra, ho raccolto le confessioni sui figli che siamo o che abbiamo, o quelli che credevamo di non desiderare e che una mattina ci hanno trafitto il cuore. I padri cambiati, cresciuti, invecchiati, e poi la guerra con le madri, le telefonate di notte, e dirsi addio cento volte per non dirselo mai. I ricordi, che all’improvviso ci vengono a cercare e non ci lasciano più. La felicità dentro un messaggio, dentro una stanza, dentro una culla. La voglia di scappare. Un giorno in cui avevo perso il filo mi sono seduta davanti al computer, ho infilato la chiave nella porta dell’archivio, ho aperto queste stanze e ho riletto tutto. Le storie di tutti, i momenti di tutti. Mi sono divertita e commossa: in quello che ho ritrovato di me, ma soprattutto in quello che hanno scritto gli altri, mi è sembrato che fosse custodito anche il tempo che abbiamo passato scrivendo. Il tempo della vita, quindi, e anche se tre anni sono pochissimi, sono un minuto o due, sono una domenica pomeriggio al massimo, un tempo che assomiglia a volte alla giovinezza.

  

Ho raccolto le confessioni sui figli che siamo o che abbiamo, su quelli che credevamo di non desiderare e che una mattina ci hanno trafitto il cuore

Fatta di estati al mare con i bambini ancora piccoli, quando tutto il mondo sta dentro una buca nella sabbia e nelle gambe appiccicose di crema solare, e fatta di altre vite che non abbiamo vissuto ma che allora, da dentro quella buca nella sabbia, erano ancora possibili e desiderabili. Il divertimento, la stanchezza, l’amore. Tutti quegli sbagli, e poi lei che dice: mamma. La colazione insieme. La paura del buio, poi la paura di invecchiare, e la scoperta che non si diventa mai grandi. La paura che i figli muoiano. Il momento in cui una donna di fronte ai vestiti nell’armadio pensa alla bambina che non ha.

 

E poi la Seat Ibiza, la Russia, Bologna, il Perù, Roma, il mare, i film di Nanni Moretti, il treno, Messina: tutti i posti in cui una storia è cominciata. Questo tempo fatto di istanti e di lampi e anche di malinconia mi è tornato addosso per aver letto tre anni di vita del Figlio, e allora abbiamo pensato di cucirlo insieme, di mettere un po’ di lampi uno accanto all’altro: aprire a tutti lo scrigno dei ricordi, e oggi cominciamo, per continuarla anche il mese prossimo, questa piccola rassegna con Francesco Piccolo, Edoardo Albinati, Rosella Postorino, Nadia Terranova, Ilaria Macchia, Alessandro Piperno, Claudia Durastanti, Giuliano Ferrara, Giacomo Papi, Silvia Avallone.

  

Scrittori, figli, a volte genitori.

 

Hanno raccontato non solo che cos’è l’infanzia, ma come cambia, come sparisce, e che cosa porta con sé dentro le vite adulte, o dentro il confronto con i figli.

 

I figli, appunto: averli o non averli, desiderarli, sgridarli, le madri, i padri, le vecchie zie, le domande idiote, i litigi, e anche i pensieri segreti, il rimpianto. E’ uno spazio immenso perché contiene tutto quello che siamo e gli dà vita anche per contrarietà, per senso di fuga. Scappare di casa, e poi ritornarci e pretendere che sia rimasto tutto identico ad aspettarci e che nessuno abbia perso la propria forza, che la tavola sia ancora apparecchiata allo stesso modo, con la stessa tovaglia a quadretti, con gli stessi piatti gialli.

  

Passare notti insonni, lanciare i bambini in aria e un attimo dopo ritrovarli grandi, che ti guardano con sospetto. Tutto cambia, tranne le notti insonni

Passare notti insonni, lanciare i bambini in aria e un attimo dopo ritrovarli grandi, che ti guardano con sospetto. Tutto cambia, tranne le notti insonni. L’eco delle voci altrui, i ricordi, il presente, la concretezza degli oggetti e delle abitudini, e quel che succede fuori e ci costringe a pensare, a chiederci che cosa avremmo fatto noi, che genitori siamo noi, che figli siamo diventati noi. Qualcuno a cui dare la colpa, qualcuno da tradire per riuscire a cambiare. E lo struggimento che ci prende, appena ci allontaniamo da lì. Forse il segreto di tutto è proprio lo struggimento: questa forza che ci spinge a desiderare sempre, ancora e ancora. Nelle telefonate, ma soprattutto nelle lettere con cui ho tormentato le persone perché scrivessero un racconto per il Figlio, ho chiesto una cosa soltanto: che fosse vero.

  

Vero non significa per niente verissimo, cronachistico, biografico, con testimoni oculari e documenti di identità. Significa mostrare un mondo, e quindi un io, che non importa se sia reale o immaginario: è invece importante che sia vero. Non è il teatro, non è il cinema, è un foglio di carta, e la sua unica possibilità è essere vero. Le parole scritte devono muoversi insieme e costruire delle storie a cui noi possiamo consegnarci con fiducia, a cui possiamo credere: l’illusione di una realtà più reale della nostra stessa vita. E che cosa c’è di più reale, e di più illusorio, del movimento degli esseri umani, avanti e indietro nel tempo?

  

Ecco a voi questi dieci scrittori, queste dieci storie. Credo che ci troverete un pezzo della vostra.

Con l'anima alla prova

Una bella esperienza in Perù, l'ardore umanitario, i comfort romani. Padre e figlia occhi negli occhi e una precisa domanda: tu li aiuteresti, vero?

di Francesco Piccolo


   

Sono andato all’aeroporto a prendere mia figlia che è stata un mese e mezzo in Perù per fare volontariato in un paesino sperduto nelle Ande, a venti ore di autobus da Lima. Tutti mi dicevano: ma che bella esperienza. Io pensavo che non era una bella esperienza almeno fino a quando non fosse tornata di nuovo qui davanti a me, e dopo avrei pensato che era una bella esperienza. Invece per un mese e mezzo ho pensato soltanto a come sarei potuto mai arrivare in questo paesino sperduto se mia figlia mi avesse chiamato per dirmi: devi venire, ho bisogno di aiuto. E per un mese e mezzo ho tenuto il cellulare sul comodino con la suoneria al massimo e ho scoperto che la gente di notte ha una grande attività di messaggi e di mail, e si ricorda di scriverti le cose quasi sempre intorno alle tre. Comunque mia figlia non mi ha chiamato e soprattutto a un certo punto è tornata. Quando è uscita al terminal degli arrivi ci siamo abbracciati a lungo, commossi. Era qui davanti a me, le ho detto: che bella esperienza che hai fatto.

  

Poi per tutto il resto della giornata mi ha raccontato quello che è successo in questo mese e mezzo, tutte le cose che ha fatto e tutte le persone che ha conosciuto.

  

Tra le altre questioni, ho scoperto che anche il Perù ha il problema dell’immigrazione, e perfino questo paesino sperduto nelle Ande. I venezuelani, come alcuni sanno, stanno scappando via dalle loro terre perché il paese precipita in una povertà rapida e inarrestabile. Molti di loro attraversano il confine del Perù. E alcuni di loro sono arrivati in questo paesino. Mia figlia è diventata amica di due giovani venezuelani, pieni di passione per la vita, per la politica, per l’arte. Fanno lavoretti per mantenersi e sono clandestini. In Italia, ha detto all’improvviso mia figlia, deviando il discorso e piantandomi gli occhi negli occhi, avrebbero il visto come lo avrebbe qualsiasi venezuelano. Quindi papà – ha detto – con lo sguardo che dava per scontato il comune sentire e l’apprensione per le sorti del mondo, se noi accogliessimo questi due ragazzi per qualche tempo a casa e poi tu trovassi loro un lavoro, potrebbero rifarsi una vita. Sarebbe bello, vero?

  

Ho capito che mi stava chiedendo una cosa che aveva già elaborato da tempo e di cui aveva evidentemente già parlato con i due clandestini venezuelani. Le ho risposto: poi vediamo. Poi vediamo vuol dire andiamo avanti, ne riparleremo, casomai quando il tuo ardore umanitario si sarà un po’ abbassato con il cibo e i comfort romani. Ma lei mi ha detto: tu lo faresti vero? Li aiuteresti vero?

  

E ho capito che faceva sul serio (lo avevo già capito, ma avevo preferito dire: poi vediamo). E quindi ho detto: beh sì, potremmo ospitarli e loro in cambio di vitto e alloggio potrebbero fare i nostri camerieri, tipo che si occupano di tutto e con un po’ di istruzioni potrebbero dire presto la frase che sogno da quando ero bambino che qualcuno mi dica quando mi alzo e prendo il caffè: “Signore, cosa vorrebbe mangiare oggi?” (in realtà, ho riflettuto, non mi alzerei per prendere il caffè, ma me lo porterebbe a letto uno dei due venezuelani). Mia figlia mi ha guardato e ha riso, poco, ha detto che ho sempre voglia di scherzare anche sulle cose serie. Io non stavo scherzando per niente, ma sono abbastanza intelligente da capire che a quel punto era meglio dire che stavo scherzando. Così lei ha continuato e ha detto: sarebbe bello ospitarli per qualche tempo (non ha specificato quanto), fargli vedere Roma, intanto cercare per loro un lavoro bello, tu con le tue amicizie potresti trovarglielo, e poi quando saranno sistemati li aiuteremmo a trovare una casa o una stanza tutta loro. Che dici, papà, sei d’accordo? Lo facciamo, li aiutiamo? E’ bello se lo facciamo, no?

  

A quel punto i suoi occhi nei miei occhi sono diventati dritti, guardavano nel fondo dell’anima di suo padre, un po’ aspettando che dicessi un sì entusiasta un po’ pretendendo che dicessi un sì entusiasta, e in fondo essendo sicura che avrei detto un sì entusiasta.

  

Io ricambiavo lo sguardo, e intanto pensavo ai due venezuelani che venivano a stare a casa nostra per qualche tempo ma non si sa quanto, che poi loro visitavano la città e io intanto cercavo un lavoro molto più che dignitoso e poi dopo un po’, ma non subito, cominciavo a cercare anche un posto confortevole dove potessero trasferirsi. E poiché lei stava cercando di scrutarmi nell’anima, io ho cercato di mettere qualcosa davanti alla mia anima per nascondergliela, perché lei non la vedesse, mentre le rispondevo un debole: sarebbe bello, sì – e intanto dentro di me pensavo soltanto due parole semplici e nette e risolutive, che non potevo pronunciare davanti allo sguardo convinto di mia figlia e però non riuscivo a pensarne altre.

 

Pensavo: col cazzo.

Saga di Nano, cioè io da piccolo

“Mi raccomando, cara Marcella, le bozze in tipografia”. Genitori distratti che si fanno i cazzi loro, ecco cos'è la felicità. Un'educazione culturale

di Giuliano Ferrara


   

La saga di Nano, che poi sarei io da piccolo, comincia con me figlio. Poi verrà il papino. Per i figli di adesso è una galleria degli orrori, ma la racconto con soddisfazione, sono vivo, pare, sono amato e ho amato e amo, come persona ho passabilmente fallito ma non proprio tutto tutto. Mamma e papà si sono sposati in chiesa, atei o così pensavano di essere, su indicazione conforme di Togliatti e del partito. Uso nazionalpopolare, un prolungamento della Resistenza patriottica e “proletaria”. Anche se di ceppo liberale e borghese romano, i comunisti non erano liberal, erano comunisti. Nel 1947 ebbero mio fratello, Giorgio. Felice, mia madre lo disse a Togliatti, in redazione a Rinascita, qualche giorno dopo il parto, si lavorava parecchio per la causa. Lui, secondo quanto lei mi raccontava, la guardò, le disse “complimenti cara Marcella”, e dandole come sempre del voi aggiunse: mi raccomando le bozze in tipografia, sorvegliate il tutto. Bè, maternità e paternità non erano una specialità retorica del vecchio Pci, sebbene facessero figli e si amassero, anche molto, gli uni sugli altri (la battuta è del papà). E questo per Dodino.

  

Nano arriverà cinque anni dopo, nel 1952. Concepito in primavera, comme il faut, figlio del mese di aprile che è il mese più crudele secondo Eliot, poeta preferito di mio padre, nacque di gennaio nel gran freddo. Mamma non ricordava bene dove sono nato, in quale clinica romana, né a che ora, forse di mattina, e mi raccontava di aver abortito parecchio prima di accettarmi e darmi il via libera. Clandestinamente, va da sé. Povera Marcella, poveri nanini. L’aborto allora era un segno di indipendenza morale delle élite. Una conquista. Da trent’anni è un segno di indifferenza morale per tutti e tutte. Diceva la mamma che doveva proteggersi da un forte mal di schiena, pericoloso in gravidanza. Le ho sempre creduto sulla parola, perché l’amavo e la amo perdutamente a quattordici anni dalla morte. E mia moglie, una femminista mezza americana e mezza pugliese, per di più ebrea di madre, con cui litigo da trent’anni felicemente, la adorava e ne era adorata. Ma non l’ho mai veduta, nemmeno per sbaglio, lamentarsi della sua schiena.

  

Nacqui grasso e col pisellino. Una tremenda delusione. Da grandicello, non avendo mai fatto analisi, mamma mi disse che dovevo chiamarmi Francesca e che il suo solo desiderio era dare una sorellina a Giorgio. Cazzo, dev’essere per questo che mi sono sempre piaciute le donne, ma non solo loro. Sul battesimo si è sempre fatto un gran mistero. Forse ti ha battezzato la nonna, mi dissero. Io non sentivo il bisogno di approfondire. Finché Andrea Monda, un caro amico cattolico dell’epoca ratzingeriana, fece una sua inchiesta e si presentò un giorno da me con il mio certificato di battesimo. Nella chiesa romana di Sant’Emerenziana, a luglio, con la data sbagliata dell’8 gennaio, quella civile è il 7. Nonna Matilde, ché l’altra, nonna Elvira, madre di mio padre e sposa del nonno massone Mario, era una mangiapreti e non mi avrebbe battezzato nemmeno sotto tortura, era famosa per la sua bellezza infinita, una bionda pianista napoletana da sballo, e per la sua distrazione. Vabbè. Sono venuto fuori libero e sboccato, e forse anche violento almeno nei sentimenti, perché non ho avuto un’educazione borghese tradizionale, non ho proprio avuto, e per scelta, altro che un’educazione culturale ed etica. Il libro di Albinati, “La scuola cattolica”, mi affascinò perché era il racconto dell’altro da me. E ringrazio Iddio di esser stato sottratto, per poi eventualmente tornarvi da laico devoto, alle grinfie dei preti, anche i migliori.

  

A sei anni Nano era a Mosca, papà faceva il corrispondente dell’Unità, con Ronchey e Livi e Garritano e altri giornalisti di grido. Erano una coppia felice. Mangiavano pane, cipolla e spaghetti portati da Reichlin in valigia. Io andavo all’asilo, mangiavo zuppe, polpette, e poi a casa spaghetti, sono parecchio ingrassato, l’incubo di mamma, imparai il russo e la Russia in pochi mesi, a cinque anni dalla morte di Stalin. Gente magnifica e molto dura: in classe pare mi comportassi male, diceva la profia, stavo sempre a guardare dalla finestra per sparare agli uccellini. Mi menavano perché ero straniero. Mi dicevano sporco ebreo, e mamma mi spiegava la faccenda. Erano convinti che Hitler e Napoleone fossero due fascisti, e io gli spiegavo la differenza a mie spese. Però mi divertivo un mondo nella neve, come succederà alle mie bassottine a New York in un Natale di tormenta. A proposito del Natale, e dei compleanni, eravamo conformisti ma trascurati. Poca roba. Con tenerezza, ma senza sforzi erculei. Io non ne soffrivo, credo. Essere diverso mi è sempre piaciuto immensamente. Il resto, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia, è relativamente meno interessante. Almeno per questa meravigliosa pagina di Annalena che Cerasa è riuscito a strapparle perché è più bravo di me in molte cose.

  

Noi figli degli anni Cinquanta eravamo diversi da quelli di adesso, credo si sia capito. La famiglia si mescolava con una storia pazza e disperata, ma avvincente, avventurosa, esposta all’errore e al destino come poche in poche epoche. Educazione musicale, no. Educazione fisica, ridicolo. Scuola pubblica, chiavi di casa a tredici anni, gran pacchetti di Kent con i soldini rubacchiati a mamma e papà, cinema e cose varie intuibili. Fummo oggetto d’amore, ovvio. Non fummo consumati e consumavamo poco. Tutti fumavano sempre e felicemente. Oddio, mamma una volta passò dal droghiere per protestare per i conti e seppe che io lì mi recavo ogni giorno a mangiare ciriole intrise di maionese, e le mettevo nel conto di casa, il che costicchiava. Papà era un genio poetico, a suo modo un viveur e credo un grande amante, come il nonno. Anche lui era distratto. Mi regalò la Lambretta 50 a tredici anni e mezzo, quando il limite legale era quattordici. Divenni un capo in quella circostanza. Capite che cos’è la felicità? Genitori distratti, che ti amano e si fanno i cazzi loro. Baci. Alla prossima.

“E tu, figli?”

La mia paura più grande: vedere la morte dentro la vita. Alle mie nonne è successo, e anche a me

di Nadia Terranova


   

Dev’essere cominciata con le mie nonne. Avevano entrambe perso un figlio: per la nonna materna era stata la quintogenita, una ragazza di diciannove anni morta in un incidente, per la paterna un ragazzo di trentasette, mio padre, morto di malattia; la prima volta avevo quattro anni e la seconda undici, e per due volte durante l’infanzia, durante l’età in cui soffrire dovrebbe essere vietato dalla legge, io avevo sofferto in modo smisurato. Avevo provato il lutto e il dolore miei e degli adulti che mi circondavano. Soprattutto avevo visto da vicino il dolore di due madri, il più durevole, il più straziante, diverso nelle forme e nelle espressioni come diverse erano fra loro quelle donne di un’altra tempra e di un altro secolo, ma identico nella forza e nella persistenza. Sì, dev’essere stato guardando le mie nonne che ho saputo cosa significa mettere al mondo un altro essere umano: la possibilità di vederlo morire.

  

In questo preciso momento della discussione le persone che sono diventate genitori sentono una fitta, si voltano dall’altra parte come avendo sentito qualcosa a cui non vogliono pensare e mi odiano un po’. Hanno ragione ed è per questo motivo che questo punto della discussione non arriva mai. E’ per evitare di infliggere la mia risposta che lascio correre quando mi tocca la più imbecille delle domande, in certe discussioni che provano a triturare tutto, ma un po’ di più si accaniscono sulla vita delle donne: “E tu, figli?”. Una risposta sola, ovviamente, non esiste. Invidio chi non ha avuto figli per scelta, con consapevolezza ideologica, perché ha qualcosa di roccioso da rispondere. Invidio meno chi non li ha avuti per problemi di salute, quelli a cui non sono arrivati nemmeno quando hanno provato ad andarseli a prendere: la vita è spesso ingiusta, e nessuno dovrebbe essere chiamato a renderne conto davanti a un estraneo. Di nuovo, non una risposta sola: i figli non arrivano, non li vuoi abbastanza oppure li vuoi moltissimo, ti ritrovi a esplorare i confini di quel “moltissimo” e di quell’“abbastanza”. Nessuno sa davvero perché alcune persone hanno figli e altre no, e continua a sembrarmi la domanda più scema che esiste, continua a sembrarmi più scema che maleducata, più scema che sgradevole, quindi taccio o rispondo a caso. Non dico mai una delle mie verità: “Perché ho paura che muoiano”. Non tollererei di affrontare un dibattito condotto dalle stesse persone che hanno posto l’avventata domanda, di solito evito di perdere tempo con i maleducati, gli sgradevoli e gli scemi, e questa scelta crea nella mia vita una discreta quantità di tempo libero a cui tengo molto. Un tempo che poi trascorro leggendo e scrivendo della vita e della morte – saranno gli effetti di un carattere incline alla malinconia, o di aver visto cadere genitori, amici, parenti e compagni di strada senza mai farci l’abitudine. Sarà che Guccini non mi ha mai convinta che la morte etica sia un po’ peggiore di quella del corpo, così come religione e spiritualità non mi hanno persuasa che le persone continuino a vivere nei nostri cuori: io voglio che vivano nei loro appartamenti, voglio poter telefonare loro e andare a bere insieme quando spunta l’alba magica in collina.

  

Forse sono stata sempre così, ci sono nata ed è cominciata prima delle mie nonne, le cui stesse sopravvivenze ai lutti mi hanno insegnato anche l’opposto: nessuna persona coincide interamente con la sua ferita, nemmeno se è la più spaventosa, una ferita senza nome. A tutti i genitori è data la possibilità che ha Demetra, dopo aver perso la figlia Proserpina ed essersi seduta sulla “pietra che non ride”, di fare ancora un pezzo di strada, vivere altri inverni e primavere e trovare un equilibrio con l’alternarsi delle stagioni. Guardando le mie nonne ho imparato anche che il tempo trasforma il dolore, schiarisce gli abiti neri e rende i figli presenze vive nelle case di chi li ha generati. Ma so anche che può passare molto tempo prima che accada, e per qualcuno può non accadere mai.

  

Quindi non so se è cominciata con le mie nonne. So che qualche sera fa ero a una cena molto allegra fra donne intelligenti, e ho pensato a tutte queste cose. Quattro avevano lasciato i figli a casa. Una desidera diventare madre. E poi c’ero io, perfetta per il ruolo della disinteressata o della sfortunata a cui i figli non sono arrivati. Perfetta per un ruolo che però, purtroppo, non è il mio, perché nessuna vita è riassumibile in così poco. Nessuna mi ha chiesto: e tu, figli? (Ho già detto che era una cena fra donne intelligenti). Allora per la prima volta sono stata io a dirlo: sapete, ho paura di mettere al mondo qualcuno che potrebbe morire. Sì, voi siete molto più coraggiose di me, però per favore non toccatemi la mia codardia: ho imparato a volerle bene, è una creatura mortale pure quella.

Non è il primo figlio del mondo

Meglio morire che ricominciare. Non auguro l'infanzia a nessuno ma mi identifico ancora con un bambino, non con un adulto. tra Nanni Moretti e Montaigne, e con la paura della scuola

di Alessandro Piperno


 

Cara Annalena,  ricordi il finale di “Bianca” di Nanni Moretti? Dopo aver confessato i suoi spaventosi delitti al commissario, Michele Apicella viene caricato sul cellulare della polizia presumibilmente diretto a un carcere di massima sicurezza. Si volta verso i poliziotti in borghese che lo stanno scortando e chiede loro se per caso hanno figli. Alla risposta affermativa di entrambi  Apicella, in odore di ergastolo, se ne esce con quella battuta che da ragazzo mi faceva palpitare di commozione, come se custodisse chissà quale presagio di sventura: “E’ brutto morire senza figli”.

  

Già, è proprio così che dice. E’ brutto morire senza figli. Sebbene la prima volta che vidi “Bianca” (era il 1986, tre anni dopo la sua uscita) io avessi da poco superato la pubertà e la mia verginità fosse ben lungi dall’essere minacciata, la frase mi sembrava di una verità tragica e inoppugnabile. Pochi giorni fa, imbattendomi in “Bianca” su Sky, ho fatto aspettare alcuni amici che mi attendevano per cena, per sentire ancora una volta Michele pronunciarla per me in quel modo inconfondibilmente morettiano. Immagina la mia sorpresa nel constatare che stavolta non mi scaldava il cuore, lasciandomi perplesso e indifferente.

 

E dire che ormai avrei avuto ogni diritto a sentirmi implicato, parte in causa.  Visto che oggi non si tratta più di un semplice presagio, ma di una prassi consolidata. Dopotutto sono più vecchio del Moretti di allora, e sebbene almeno per il momento non gravi alcuna condanna penale sulla mia testa, è probabile che morirò senza figli. Ma ecco che, avendone ormai la ragionevole certezza, tale destino non mi pare più così disgraziato. Semmai trovo brutto morire, ma d’altronde ogni tanto trovo brutto anche vivere. E’ andata così, poteva andare altrimenti ma che posso farci? Ricordo che Moravia diceva sempre che i suoi figli erano i libri che aveva scritto. Potrei dire altrettanto? Bah, Moravia era un uomo di grande talento ma  disponeva di un’intelligenza assai limitata.

 

Il guaio nel non avere figli è che, in una parte molto seriosa di te stesso, senti di non aver compiuto fino in fondo il tuo destino biologico, ammesso che ce ne sia uno. E’ come mancare una tappa nello sviluppo, come quelli che a scuola fanno tre anni in uno. Una sera vai a letto giovane per svegliarti vecchio il giorno dopo. La paternità mancata ti preclude la chance (non so mica se così allettante) di essere adulto. Rimani figlio per tutta la vita; e quando i tuoi genitori vengono meno, invecchi in un secondo, diventando uno di quei patetici malmostosi vegliardi da ospizio che intervistati per strada da qualche inviato de L’aria che tira dicono cose amare, nostalgiche e qualunquiste.

 

Ciononostante mi ostino a considerarmi renitente alla paternità.  Non solo, ma arrivo a dirti che guardandomi intorno vedo parecchi genitori che avrebbero fatto meglio a usare il preservativo quella fatidica volta. Padri che non hanno alcuna stoffa, nessuna vocazione, privi di tatto e magnanimità, autentici cazzoni da batteria. Madri che credevano che i figli avrebbero risolto ogni problema, che in nome di questa sciocchezza hanno mollato carriere floride, e che ora si sentono tradite dai loro stessi sogni incarnati: questi adolescenti musoni, ingrati e rompipalle.

 

La categoria che proprio non digerisco è quella assai cospicua  di genitori fieri, quelli che ti parlano dei loro marmocchi come novelli Einstein, illuminati dalla grazia dell’ironia precoce e di una sensibilità ferita o fin troppo precocemente esacerbata. I padri e le madri che farneticano su Eton, Harvard o l’Mit! Senti i loro peana incongrui rivolti a un grullo qualunque e ancora una volta ti viene in aiuto Nanni Moretti con una delle sue battute più celebri e felici: “Non è il primo figlio del mondo! Non è il primo figlio del mondo!” (“La messa è finita”, 1985). Come a dire: l’universo è pieno di coglioni, perché tuo figlio non potrebbe far parte della categoria?

 

Non vorrei che fraintendessi, non ce l’ho con i bambini, né con i ragazzi. Anzi, come ti dicevo, il mio problema è che non smetto di essere figlio. Ancora oggi, con la barba canuta come quella di Ulisse il giorno del suo ritorno a Itaca e la pancia di Arpagone, mi è più facile identificarmi in un bambino che in un adulto. Provo una grande pietà per i miei studenti smarriti. Certe volte, in un empito retorico che non mi fa onore, mi illudo che spiegare loro una poesia di Baudelaire possa schiudere chissà quali orizzonti di piacere e consapevolezza. E’ evidente che non è così. Sarei più onesto se spiegassi loro che l’arte è tutt’al più una pausa corroborante tra una bolletta da pagare e una moglie da compiacere.

 

Ti racconto questa. L’altro giorno ho accompagnato i miei nipoti a scuola. Lei è alle medie, lui ancora alle elementari. Mi piacciono parecchio. Li trovo divertenti, spiritosi e per niente rompipalle. Mi diverto a metterli in guardia dalla cultura, auspicando per loro un futuro da centravanti o da starlet. Abbasso libri e musei, viva cheeseburger e videogame! Faceva un freddo polare. Erano imbacuccati come eschimesi, per non dire di quelle gigantesche cartelle. Quando li ho mollati lì, intirizziti e perplessi, di fronte all’istituto assediato da mamme, ragazzini e minicar, ho provato un disagio che avevo dimenticato. Non hai idea la pena che mi hanno fatto. In un attimo mi sono ricordato quanto detestassi andare a scuola: levatacce, mattine trascorse ad ascoltare sciocchezze destituite di ogni interesse, sotto la minaccia di umilianti interrogazioni, il compagno prepotente, la bella della classe, il professore frustrato, i brutti voti, le pagelle, i compagni della Fgci, i camerati del Fronte della gioventù, Ippolito Nievo, i compiti per le vacanze, La ragazza di Bube… Che orrore! La scuola è un posto spaventoso, da abolire. Altro che Eton e Harvard. Sogno per i miei nipoti un istitutore come quelli auspicati da Montaigne: gentili, complici, per niente autoritari. Se un genio della lampada mi offrisse l’opportunità di ricominciare da capo, tornare ragazzo, gli direi di non rompere e di togliersi dai piedi. Meglio morire che ricominciare. Allora, cara Annalena, ho capito perché non ho mai voluto figli. E’ che  non auguro l’infanzia a nessuno, figurarsi a un figlio.

La luce accesa di notte

Abbiamo litigato tantissime volte per tutte quelle chiamate senza risposta. Per vedere se ero viva. Io ora ho compreso lo strazio e lei ha imparato a scrivere i messaggi

di Ilaria Macchia


 

Ho insistito molto con mia madre perché imparasse a scrivere messaggi con il cellulare. I primi anni che ero andata a vivere fuori, mi chiamava tre volte al giorno. Anzi, mi chiamava molto di più. Abbiamo litigato tantissime volte: se io non rispondevo alle sue telefonate, lei invece che demordere si accaniva. Quando uscivo da una lezione, o dal cinema, mi ritrovavo sul cellulare venti chiamate perse e mi veniva un colpo. Pensavo subito che doveva essere successo qualcosa, che mio padre era finito in ospedale, che i miei nonni erano morti. Poi la richiamavo e lei sembrava arrabbiatissima, anche se le sentivo la voce incrinarsi per il sollievo, per il pericolo scampato: ero viva.  Lei urlava e urlavo anche io. Una volta, per spiegarle quanto avevo ragione, le dissi: se durante la notte sono morta, o se in metro sono morta, stai sicura che l’informazione ti arriva prestissimo, molto prima di quello che ti aspetti. Ti arriva prima che ti venga in mente che forse sono morta. Quella volta pianse per la mia volgarità. Ero ricorsa alla paura, l’avevo condita e colorita, giusto per farle venire il prurito.

 

 Aveva ragione lei. E le sue ragioni le ho capite solo l’estate scorsa. Eravamo sul terrazzo di una sua amica, un posto dove si parla sempre di tutto, spesso delle cose di cui non si parla dentro casa. “Le figlie bisogna lasciarle libere, se no se ne vanno”, diceva la sua amica. In effetti, sua figlia è rimasta e io invece sono andata via. Nessuno lo dichiara, ma chi ci conosce pensa che io e mia madre non abbiamo un buon rapporto. Invece, dentro casa nostra c’è una materia che negli ultimi anni è lievitata, e io, mia madre e mio padre stiamo a guardarla un po’ stupiti. Noi tre, questo amore non lo esibiamo mai. Non lo celebriamo mai, non lo diciamo mai. Non ne abbiamo bisogno, lo sentiamo e basta.

  

Ma mia madre, quella sera, aveva iniziato la sua battaglia, da sola, anche contro di me. Disse, con l’aria (rarissima per lei) di una che ne sa di più: sai qual è il pensiero che ti tormenta? E’ la notte. Ti svegli all’improvviso e non sai se tua figlia è tornata a casa oppure no. E non la chiami perché lo capisci che non è giusto, e rischi pure di svegliarla. E a volte non sai niente di lei sino alla sera del giorno dopo. E’ straziante non trovartela in casa quando ti svegli al mattino, e sapere in quel momento che è viva. Da quella sera io ho smesso di dire che non mi doveva chiamare più.  Però ho ricominciato a insistere perché imparasse a scrivere i messaggi. Lei si rifiutava, diceva che era stupida, impazziva con quel coso. Le spiegavo che così ci saremmo potute sentire sempre, e senza disturbarci. Le promettevo che le avrei scritto ogni due ore, ogni ora! Ma non le interessava, a lei bastava che io facessi solo una cosa: quando non potevo rispondere, dovevo mettere giù il telefono. Così capiva che ero viva. Mi ricordava un obbligo che avevo da adolescente: tornavo a casa di notte e dovevo spegnere la luce dell’abat-jour che i miei avevano lasciato accesa. Il segnale del mio ritorno, sana e salva.  

 

Mi stavo rassegnando, poi mio padre le ha regalato uno smartphone. Le ha spiegato che più il telefono era buono, più sarebbe stato facile usarlo. E infatti, con questo telefono buono ha iniziato a mandare messaggi. Qualcosa come C.i.a.o.s.o.n.o. l.a.m.a.m.m.a. Oppure “c.i.a.o.c.h.e.f.a.i.” Ha cominciato con uno alla settimana, poi sempre di più. Ora quasi ogni giorno. Mi scrive quando è sola in casa e sta aspettando di andare al lavoro, oppure ha il pomeriggio libero. Non usa i messaggi per controllarmi, per accertarsi che io sia viva, come avevo immaginato che avrebbe fatto. Mi scrive per passare il tempo.

 

Ora sono in treno, torno a Roma. Mi ha appena scritto: “Stavo penzando che quando finiscono i contenitori c’è solo l’alluminio per i panini, che ne penzi?”.  Le ho risposto di fare meno la spiritosa (la sua era una battuta sul mio furto di un contenitore di plastica, un argomento delicato per la mia famiglia), e soprattutto che pensare si scrive con la s. Alla fine del messaggio ci metto una risata, perché sono stronza ed è il mio modo di dimenticare che questi errori mi fanno torcere lo stomaco. Lei mi risponde che mio padre, tempo fa, la s di pensare gliel’aveva già corretta ma lei se ne era scordata. Poi aggiunge che si sarebbe messa a ricopiare il mio messaggio per imparare a scrivere la risata. Mia madre è una delle persone più allegre che io conosca. Se non si fosse ritrovata in casa quel marito e questa figlia, la sua vita sarebbe stata una giostra. 

  

Io intanto penso a mio padre. Sta lì in piedi, alle spalle di mia madre che è seduta al tavolo. Lui con gli occhiali sul naso e lei, che per certe cose lo imita, pure. Mio padre serio, attento, le ricorda che pensare lo deve scrivere con la s, e lei dice: ah sì, come fosse una dimenticanza qualsiasi.  Per tutte le ore che viaggio in treno, lei continua a inviarmi messaggi, e in questo pomeriggio ha deciso di imparare a scrivere ahahah, la risata appunto. Tutti i suoi sms finiscono così. E io rido, mi diverto perché lei fa ridere davvero, è buffa. La adoro. Le faccio notare che ormai ha imparato a scrivere i messaggi, e che prima faceva tante storie, quante storie… “Eh sì, sto diventando grande”, mi ha risposto.

Tu sei l'indiano

L'unica volta che ho fatto la barba a mio padre, l'ultima volta che dormo con io figlio. L'accensione dei geni a catena

di Giacomo Papi


 

Quando un padre muore, i suoi geni si risvegliano nel corpo dei figli. E’ come in quei film tipo Ghostbusters, Ghost o Alien, in cui un poveraccio viene posseduto e incomincia a comportarsi in modo diverso, però dall’interno, senza cambiare aspetto esteriore. La cosa inquietante – o tranquillizzante, dipende – è che quando muore tuo padre non arriva ad abitarti il fantasma di un estraneo o di una creatura extraterrestre, ma qualcuno che conoscevi bene, meglio di tutti. All’improvviso riconosci il suo piede nel tuo che spunta dall’acqua del bagno, o capisci che quando è a disagio il tuo corpo si contrae come il suo, e che nelle mani, zigomi e naso tuoi rimane una traccia delle mani, zigomi e naso suoi. Non sono uguali, ovvio, anzi, ma è come se da dentro la forma di lui, o la sua assenza, cercasse di modellare la tua presenza. E’ una sensazione strana, di familiarità ed estraneità, che ti fa capire che tu non sei soltanto tu, ma anche chi è venuto prima e chi arriverà poi. O forse è soltanto autosuggestione e nostalgia, o è l’età del tuo corpo che, ormai, è quella che aveva tuo padre quando eri bambino, o forse è che l’assenza provoca sempre un desiderio da riempire di sensazioni reali. Oppure per davvero i geni di chi non c’è più si accendono in chi resta, perché appena un individuo si dissolve le sue briciole incominciano a scoppiettare dentro le cose che ha fatto da vivo, quindi dentro i suoi figli, e l’individualità è solo un confine che passa.

 

E’ un’accensione a catena: all’improvviso riconosci nel modo in cui figlio adolescente sta nel suo corpo, nel modo in cui si contrae se è a disagio e si espande se è felice, nei movimenti delle sue mani, nella forma del collo e dello sguardo, qualcosa del corpo che era tuo alla sua età. Le sue mani ti fanno ricordare com’erano le tue a quindici anni, il suo sguardo assomiglia a quello con cui guardavi, riconosci quant’erano forti i tuoi muscoli e come lui deve sentirsi fragile ora. Lo intravedi adulto, come una persona distinta, anche perché lì dentro ormai trasporta anche te. Jim Morrison, che ascoltavi alla sua età, era convinto di essere abitato dallo spirito di un indiano che aveva visto morire un giorno in autostrada. Solo che tu sei l’indiano, e tuo figlio è Jim Morrison. Ma forse quelli che riconosci come tuoi sono i geni di tuo padre che si sono accesi anche in lui. Oppure è solo un momento di equilibrio, un’età di mezzo, in cui il tuo corpo e le sue parti – le rughe sulle giunture delle dita, la linea del mento, la pelle dei gomiti – conservano un’ultima luce di com’erano quando eri giovane e annunciano la prima ombra di come diventeranno quando sarai vecchio. La cosa strana, e bella, è che quell’accensione in te dei geni del padre assomiglia a un ricongiungimento, ma anche alla presa di coscienza di una distanza. E’ grazie all’assenza che ritrovi in te qualcosa di lui. Lo stesso può capitare con il figlio: la tua presenza nel suo corpo segna il distacco, la sua possibilità di essere solo, il suo essere diventato davvero un altro e la tua fatica di prenderne atto e di lasciarlo andare via. Il momento in cui riconosci di essere figlio è il momento in cui diventi padre davvero, perché smetti di essere entrambi: lasci la presa e ogni pretesa sull’altro che hai fatto nascere, perché ormai nel suo corpo riconosci il desiderio e la paura che avevi tu quando hai incominciato a essere solo, a essere una persona distinta dai tuoi genitori, e ti ricongiungi con tuo padre perché finalmente riconosci nel te di oggi l’immagine di lui allora, accettando per la prima volta la debolezza di entrambi. Quando succede, e se succede, tutto si mischia e confonde. La gerarchia organizzata secondo il tempo scompare e le generazioni si affiancano. Attraverso il corpo del figlio riconosci quello di tuo padre da ragazzo, e il suo da uomo, e il tuo da vecchio; riconosci i corpi come vestiti che si trasformano, come cose vive, autonome che non sono date una volta per sempre come le scatole, ma crescono e muoiono. Le generazioni smettono di essere un criterio con cui mettere in fila l’umanità. Appaiono un accidente, un casuale prima e poi che lega e allontana. Nel momento in cui i geni si accendono, tuo padre e tuo figlio smettono di essere funzioni e ruoli in rapporto a ciò che sei tu, si staccano, diventano altri, non più personaggi, persone, cioè si rivelano uomini, quindi fratelli.

  

Una delle ultime volte che ho visto mio padre gli ho fatto la barba per l’unica volta, e mi sono ricordato di quando mi aveva insegnato lui come passare il rasoio. Ma era prima che morisse e che i suoi geni si accendessero. Questa notte, invece, dormo con mio figlio. Me l’ha chiesto lui, ha un po’ di febbre e la mamma non c’è. Ma ha quindici anni, quasi sedici, ed è probabile che sarà l’ultima volta in cui lo sentirò dormire al mio fianco. Lo ascolto respirare nel buio, forse sta sognando, e non saprò mai se il suo respiro da addormentato e i suoi sogni siano simili ai miei.

La Seat Ibiza

Il filo che lega madri e figlie: il posto dove tutto ha inizio, e dove si può sbagliare

di Silvia Avallone


Quando avevo l’età che oggi ha mia figlia, circa due anni, mia madre mi sistemava sul sedile della Seat Ibiza accanto a sé, in pieno dicembre, e ce ne andavamo a fare il giro degli alberi di Natale delle piazze di ogni paese, noi due sole. Miagliano, Sagliano, Andorno, Rosazza, piccoli comuni del Biellese che a metà degli anni Ottanta avevano appena cominciato a svuotarsi. Li attraversavamo senza fermarci, passando accanto agli abeti avvolti dalle luminarie. Nessuno avrebbe potuto aggiungersi alle nostre scorribande. Guardavo fuori dal finestrino e ridevo come una matta.

  

E’ un episodio che in realtà non ricordo: mi è stato raccontato di recente. Ascoltandolo, però, l’ho riconosciuto subito come il mio capitolo primo. Ne ho provato nostalgia.

  

Non avevo mai pensato di poter assomigliare a mia madre prima che mia figlia, Nilde, prendesse l’abitudine di sedersi di fronte a me, sul divano, e di imbastire storie su una grande varietà di animali del bosco, della palude e della Savana. Allora ho rivisto la stessa scena, solo capovolta.

  

Mia madre non ha mai scalpitato per cucinare, non ha mai cucito, non si è mai preoccupata più di tanto di farmi le trecce o i codini. Ha sempre amato, invece, parlare. Di politica, d’amore, di equazioni, di romanzi. Si è sempre seduta sul divano davanti a me ad ascoltarmi, lasciando che passassero le ore, si facesse tardi, si accumulasse il disordine, perché nulla era più importante delle cose che avevamo da dirci.

 

Così anche io, ora, faccio lo stesso. Non intenzionalmente o secondo un progetto, ma perché ho scoperto che mi piace, mi appassiona: ascoltare Nilde. Porle domande e prenderla molto sul serio quando racconta di aver incontrato un drago all’asilo nido, o di aver preparato una torta di mirtilli, lamponi e pasta in bianco. E’ mia figlia, sì, ma io devo ancora conoscerla. Sapere cosa le passa per la testa, cosa sogna, carpirle un indizio su chi vorrà diventare a vent’anni.

 

Mia madre, di sicuro, è ancora la mia prima lettrice. Inviarle via mail capitoli grezzi, di cui nessuno sa nulla, è per me come ripetere la magia dell’abitacolo della Seat Ibiza, attraversare al buio una valle impervia, lungo una provinciale piena di curve, alla ricerca di nuove luci natalizie.

 

Come fa tua madre a essere obiettiva? Mi viene domandato a volte. Come fai tu, a trentatré anni, a chiederle ancora di correggerti? Non la conoscevo, prima, la risposta. Ma adesso che trascorro ore a sfogliare libri illustrati, a vedere mia figlia sorridere quando impara un termine nuovo, intravedo in lei un frammento della mia infanzia e posso dirlo: continuo a mandare i capitoli a mia madre perché lei rimane il luogo dove posso sbagliare, essere ripresa ma non giudicata; dove posso iniziare.

 

Resta il fatto che non le somiglio. Né a Sara, che ha insegnato matematica alle elementari per tutta la vita e dei numeri possiede l’equilibrio, la ragionevolezza. Né a Nilde, che in fatto di cibi, colori e animali ha gusti lontani dai miei. Ci sono mio padre e suo padre a portarci l’altra metà della storia, l’altra visione del mondo di cui abbiamo bisogno. Sappiamo tenerci distinte, sedute di fronte. Proviamo a scalfire l’una il mistero dell’altra, e per fortuna non ci riusciamo.

 

Lo ha scritto Richard Ford in “Tra loro”  a proposito dei suoi genitori: “Quasi tutto se ne va, tranne l’amore”. Nel mio caso, credo siano proprio i dizionari, i frasari e le letture che hanno declinato questo amore a rimanere.

 

Quando arriva l’ora di dormire e viene spenta la luce, mia figlia mi tiene per mano perché ha paura del buio. Allora cominciamo subito ad affollarlo. “Voglio la storia del suricato” mi dice. E poi del tarabuso, del kiwi, del ragno d’acqua. Un bestiario che, prima di Nilde, non conoscevo. A ciascuno diamo un nome, Carla o Luigi. L’acme dell’azione coincide spesso con una torta di mirtilli, lamponi e pasta in bianco che viene rubata e restituita. Il primo finale è immancabilmente il suo: “La mangio tutta io”, che poi cerco di smorzare e allargare a un noi.

 

Non vedo niente perché la stanza è scura, sento solo le nostre parole che all’inizio squillano, poi si abbassano di tono, fino a un sussurro. So che durerà pochi anni, questo suo modo di addormentarsi, e poi ne sentirò la mancanza. So che Nilde non li ricorderà, però mi piace pensare che in segreto potranno guidarla: i nostri personaggi, i colpi di scena che inventiamo. Come hanno guidato me gli alberi di Natale che vedevo attraverso il finestrino.

 

Mi trovo in mezzo a mia madre e a mia figlia come a due città, familiari e sconosciute. Porto, dall’una all’altra, un carico di parole, e non c’è niente da fare: mi stupisce, mi emoziona, sentire Nilde che dice a mia madre: “C’era una volta, nonna Tara”. Mi rendo conto che sono loro le uniche persone che non riuscirò mai a raccontare. E questa impossibilità mi fa sentire bene: libera di scrivere tutto il resto.

Quando i figli crescono

Ora siamo tutti adulti intorno al tavolo, e non lancerò più in aria i miei bambini per riafferrarli al volo. Lo squilibrio rimane, per fortuna, ma il riconoscimento è iniziato

di Edoardo Albinati


  

Ma quando i figli crescono e diventano grandi, continuano a essere figli? Figli di chi? In che modo il legame resiste al di là del fatto anagrafico e legale? E in che modo quello affettivo si trasforma? Me lo chiedevo durante le ultime feste, constatando con una punta di rammarico che accanto a quell’albero addobbato e intorno a quel tavolo, a cena, non c’erano più veri e propri anziani, del tipo che si vede sorridente con gli occhialetti cerchiati di metallo nella pubblicità del pandoro (il più avanti con l’età sono io, sessantenne) ma nemmeno bambini, cioè, nipoti. Eravamo tutti adulti, sì, adulti, chi un po’ più giovane chi decisamente più vecchio. Ma adulti. I miei figli sono grandi, uomini e donne, ed è parecchio tempo che non ne prendo uno in braccio. L’ho fatto l’ultima volta per gioco in un video, cantando la ninna-nanna e cullando tra le mie braccia un omone barbuto alto un metro e novanta che mi sovrastava. “Dormi, dormi… piccolino…”. Era una scenetta ironica e struggente al tempo stesso, un epicedio, un ovvio congedo. O forse un risarcimento goffo e tardivo. E allora mi chiedo se l’ansia invincibile (dove sono adesso? cosa fanno? sono felici o non sono felici? il loro amore è corrisposto? come stanno messi a quattrini?) che nutro nei loro confronti, persino maggiore oggi di ieri, sia in fondo di segno diverso da quella che provo nei confronti di chiunque mi sta a cuore, parente o amore o amico.

    

E’ solo una trepidazione un po’ più forte, un po’ più intensa? E la telefonata che ogni tanto qualcuno di loro mi fa, o il cuoricino che mi invia, ha qualcosa di peculiare e unico per il fatto che io sia il loro padre o si riconfonde nell’oceano delle relazioni umane e nell’intreccio vasto e libero delle comunicazioni? Il vincolo speciale, qual è? A tali retoriche domande qualcuno mi ha risposto che questi dubbi possono venire soltanto a un uomo, cioè, a un maschio, a un padre; che il legame materno di sicuro si attenua con il venir meno delle necessità di accudimento diretto, però non cessa mai o non muta mai di stato. E questo sarebbero per primi i figli a sentirlo. La loro emancipazione non è mai un distacco anche quando si esprime in modalità clamorose o drammatiche. Il debito (o il risentimento) per l’essere stati messi al mondo ha una qualità viscerale che non verrà cancellata dalla vita adulta, lacerata sì, ma non rimossa. Lo squilibrio permane. Una conversazione con la propria madre non si svolgerà mai tra pari effettivi. E questa tensione per così dire pre-emotiva, pre-linguistica, pre-umana, pre-tuttoquanto, fa sì che si resti figli della propria madre, e madre del proprio figlio o figlia, per l’eternità. Può darsi. Non lo escludo affatto. Ma nemmeno mi convince appieno, questa teoria asciutta e apodittica. Più modesta sebbene più mesta, un’altra teoria di stampo tradizionale prova a spiegare come verrà restaurato il rapporto grazie a un rovesciamento, il quale, come spesso accade, finisce per ristabilire esattamente ciò che ha capovolto.

    

Dice questa fin troppo saggia teoria che è vero, c’è un periodo di latenza e può durare se dio vuole anche decenni, quando i figli vanno nel mondo per conto loro e i genitori ancora ci stanno, in quel mondo, a pieno titolo. Gli uni hanno guadagnato la loro indipendenza gli altri l’hanno riconquistata. Nessuno in verità spodesta nessuno e la distanza non occorre a ogni costo colmarla: tra individui sovrani possono infatti mantenersi rapporti caldi o freddi, tempestosi o sereni o pressoché inesistenti, non importa. Ma arriverà il momento in cui l’accudimento si ripresenterà appunto in forma simmetricamente rovesciata, cioè quando toccherà ai figli prendersi cura dei genitori vecchi e malati. Sotto forma di pietà o devozione amorosa o puro e semplice dovere, il rapporto filiale verrà di nuovo riconosciuto come tale, in forma privata e pubblica, e con questo rinsaldato. Certo, rispetto a lanciare i propri bambini in aria e riafferrarli al volo mentre gridano di piacere e spavento, il rinnovato legame che prende avvio dal declino di una delle parti ha ben poco di festoso. E vede tagliato fuori l’elemento che da solo è capace di infondere grazia a ogni gesto: la giovinezza. Ma non vi è nulla in effetti che somigli a un reciproco riconoscersi come lo sguardo incrociato con un genitore privo di forze e indifeso. (Be’, non è che io smanii perché questa nuova epoca abbia inizio).

Non morire

Marguerite Duras scrive che l maternità è un crimine. Io penso alla figlia che non ho

di Rosella Postorino


 

Ogni volta che faccio il cambio di stagione penso alla figlia che non ho. Ci sono vestiti che non indosso più, ma che negli anni ho conservato immaginando mia figlia frugare nell’armadio e appropriarsene, come me, che al liceo mettevo il cardigan di mia madre – maglia larga e bottoni grandi – sulla T-shirt di Jovanotti. Mia madre lo portava il giorno in cui sono stata battezzata, sopra un abito color ruggine di cui ho sempre avuto nostalgia. Il cardigan c’è ancora, appeso a una gruccia, mia figlia no, non è mai nata.

  

L’altra sera ho rivisto in tv La guerra è dichiarata, un film francese del 2011. Ero al computer e ne ho intercettato per caso un fotogramma, l’ho riconosciuto subito, e ho iniziato a piangere. Molto prima di quanto avessi fatto al cinema, perché adesso sapevo tutta la storia, e anche se il bambino di Valérie Donzelli – la regista, che ha trasposto sullo schermo la sua esperienza personale – alla fine guarisce dal cancro, il dolore di quei genitori non riuscivo a tollerarlo. Mi sono seduta sul divano per mezz’ora, poi ho spento la tv e sono tornata al computer, sollevata: Adam non era mio figlio, per fortuna. Ero salva.

   

Maria di Nazareth, per esempio, non l’ho mai capita; ha accettato di fare un figlio che nemmeno aveva voluto pur sapendo che glielo avrebbero ucciso. Al suo posto avrei protestato con rabbia, io che mi sento sollevata persino di non aver partorito quell’alunno di quinta elementare che non sa fare il tema sugli animali: ha gli incisivi in fuori, è tutto ossa, e non ha scritto una parola. Seduta accanto a lui, gli dico parla dei tuoi gatti. Lui alza le spalle, i denti gli mordono il labbro inferiore. Gli dico dammi il quaderno, te lo scrivo io – non sopporto di vederlo arreso, di sentirmi impotente, non sopporto che fallisca, proprio qui, di fronte a me, che ho solo nove anni. E’ il mio compagno di banco, non è mio figlio. Sono salva.

 

Marguerite Duras ha scritto che la maternità è un crimine. Chiunque nasca è condannato alla morte. Nel mio ultimo romanzo Gregor, il marito di Rosa, pronuncia una frase simile. Lui non vuole figli, lei sì. La faccio dire a un uomo, quella frase, ma sono io a pensarla, io che mi chiamo Rosa, come la protagonista de Le assaggiatrici, e come lei ho sempre creduto che non si può sprecare niente, della vita, che fare figli è un’opportunità immensa concessa dalla natura e non coglierla è un peccato, una perdita. Mi sconvolge l’idea che da te possa uscire qualcuno che non è te, che è un altro, mi pare un mistero, una magia, uno spettacolo pirotecnico, e insieme un ancoraggio alla realtà, un atto di fede verso il futuro, verso l’esistenza. Ho quarant’anni e non ho ancora smesso di provare a salvarmi.

 

Tenevo in braccio i piccoli detenuti di Rebibbia, ne portavo uno a casa, dormiva al centro del lettone, due cuscini per barriere, gli cambiavo il pannolino, lo imboccavo, lo accompagnavo al parco su un triciclo comprato per lui, rimasto poi a lungo nello studio, finché non l’ho regalato al figlio di un’amica, perché il figlio che non ho non può pedalare. Ho sognato di prendere in affido uno di quei bambini, e sembrava facile, con la sua guancia sul collo, sembrava possibile – voglio un amore così, dicevo al mio compagno, un amore totalizzante, e lo voglio per me. Non abbiamo un aiuto, rispondeva lui, non abbiamo lo spazio. In prima media dormivo in cucina, replicavo io, e mica sono morta. Vietato morire, è con questo comandamento che sono cresciuta, vietato soffrire, mia madre non lo reggerebbe, devo restare viva per lei. E’ a lei che penso, se il treno si ferma in una galleria e l’ansia mi investe. Penso a lei, arrampicandomi per le scale pur di evitare l’ascensore, devo preservarmi, devo difenderla. Non è mia figlia, e io non sono salva.

 

Rosi, te ricordi quanno sei venuta sull’ascensore co’ me?, mi domanda il parrucchiere. Nel 2003 ero la sua baby-sitter. No, non ricordo. Sì, ché t’ho ricattata: si nun sali sull’ascensore, nun faccio i compiti. E te ce sei salita. Ci sono salita: io, sull’ascensore. Con un bambino. Non era mio figlio. Ma l’avevo aiutato a non aver paura degli altri bambini, di pomeriggio ai giardinetti. La sua timidezza, la sua fragilità emotiva, mi spezzava il cuore, non volevo che stesse in un angolo, che si considerasse debole, rifiutato, escluso. Forse era l’energia della gioventù, forse è solo che da lontano le cose spaventano, se ci sei immerso ti dimentichi di spaventarti. Neppure per un attimo mi ero sentita impotente, con lui. Rosi, te ricordi come te lanciavi a tera quanno giocavamo al Far West? Te sparavo, e te morivi. Io invece non morivo mai.

  

Se il mio parrucchiere fosse una ragazza, gli regalerei gli abiti che non indosso più. Ma non lo è. Allora li lascio nell’armadio, vicino al cardigan di mia madre, almeno fino alla prossima stagione.

Le madri che non ho avuto

Le immaginavo androgine, colte e laiche. Una assomigliava a Cate Blanchett il quarto giorno dopo la messimpiega. Ingombranti. Per togliermi ogni desiderio, per uccidermi anche più di mia madre

di Claudia Durastanti


   

Di madri che non ho avuto ce ne sono state tante, le cercavo sempre androgine, istruite e laiche. Con una passione artistica, ma affrontata fino alle sue estreme conseguenze (in questa versione mia madre è Kim Gordon e si prende cura dei miei amici così come si è presa cura di Kurt Cobain, concede interviste in salotto senza mai trattare male i giornalisti che la venerano e non mi ha dato un nome stupido che significa “cerbiatta” in lingua magiara) oppure sacrificata per modestia ma mai rimpianta (questa madre non parla mai del suo talento da musicista o scrittrice, qualcuno glielo ricorda a cena e lei fa un gesto minimo come la mano, senza rancore). Lei non ha mai provato a sfondare senza riuscirci, il suo essere speciale non si è mai esaurito in un mancato riconoscimento da parte del mondo di cui sono costretta a essere prima spettatrice e poi complice. Io non assisto mai al declino di questa madre.

 

Un’altra madre che non ho avuto aveva passioni saltuarie per gli uomini, eppure ne aveva amato uno solo, ed era pure abbastanza vera e corrotta da averlo tradito quel grande amore (salvo poi riacciuffarlo), giusto in tempo per dimostrare che lei non credeva nella monogamia né nelle relazioni aperte, ma in tutta una serie di arbitrari compromessi. Questa madre non chiede mai quando verrà il momento di riprodursi o che fine fa una coppia, se non si sbriga a fare la fine che tutte le coppie fanno. E’ la mamma dell’“ognuno vive come gli pare”. Posso provare un leggero rancore per il fatalismo che governa la sua esistenza, ma lei ha trovato un modo per tenere insieme tutto – tenere insieme sé stessa – e se le sto abbastanza alle calcagna me lo rivelerà. Di solito somiglia a Cate Blanchett, ma con i capelli al quarto giorno dopo la messa in piega.

 

Un’altra madre che non ho avuto veniva da una ricca famiglia mitteleuropea con una storia di esilio e di persecuzione politica alle spalle, riverberata fin dentro le sue ossa, una storia che però non si è mai fatta tragedia e l’ha resa solo svelta e pronta al rischio, a tratti negligente verso i figli ma sempre per amore di una causa superiore, che fosse la politica o il nutrirsi bene: nelle mie fantasie questa madre cucina innanzitutto per sé stessa mentre parla di Iosif Brodskij e ribadisce sempre il concetto di gratificazione personale, ma appena mi offendo perché temo che non mi ami abbastanza mi concede una carezza e mi ricorda che per essere madre bisogna essere innanzitutto una donna. Snocciola aforismi sulla propria autodeterminazione che diventano sempre più stanchi con l’età, però non smettono mai di affascinarmi. E’ la madre di cui si innamorano i ragazzi che frequento anche se è ingrassata col tempo perché ha sostituito Marx con la lussuria a tavola; le regalano libri che ha già letto e quando ci lasciamo questa madre ride, nessuno di loro le è sembrato importante. (Quando vogliono ferirmi questi ragazzi mi chiedono se sono consapevole che neanche io, per lei, sono importante).

 

Un’altra madre che non ho avuto ha sempre preservato il suo ostinato distacco dalla religione, non si è fatta sedurre dagli spiritualismi e non mi ha mai nascosto un’ametista sotto il cuscino convinta che le proprietà guaritrici della pietra potessero rendermi una persona migliore. A differenza delle sue coetanee, pratica yoga per alleviare il dolore alla schiena e non per risolvere un rapporto complesso con sua madre (anche perché nessuna delle madri che non ho avuto si comporta da figlia, e non so nulla delle donne che sono venute prima di loro. Esistiamo solo io e queste madri, in una stanza degli specchi infinita). Questa madre che non si tinge i capelli e somiglia a Susan Sontag, non ha alcun cedimento mariano, ma non ha l’arroganza di chi vuole convertire le amiche con i principi della scienza. Ha troppa classe per quello. Ha molta empatia per chi si è avvicinato alla fede, le sue prese in giro sono sempre leggere, e prova tenerezza verso le donne che si definiscono “streghe”. Resta laica anche quando si ammala di una malattia che crediamo incurabile, non cede neanche alla fine; la sua coerenza mi esaspera, mi orienta e mi commuove.

 

Tutte le madri che non ho avuto mi avrebbero fatto finire in psicoterapia peggio di quanto non abbia fatto la mia; ogni madre che non ho avuto è una madre ingombrante, e neanche nelle mie fantasie so immaginare un legame che non sia ossessivo e orientato a un’intima lacerazione. Sono madri programmate a togliermi ogni desiderio e a vincere sempre, le madri che non ho avuto fanno di me una figlia amorfa per non dire morta; le cercavo androgine, istruite e laiche. La verità è che le cercavo assassine.

Di più su questi argomenti:
  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.