Un'opera di Giulio Paolini con il Foglio

Francesco Stocchi

Sabato 20 giugno il giornale uscirà con un numero da collezione: sarà avvolto in un’opera d’arte dedicata all’Europa disegnata in esclusiva per noi. Ecco chi è il nostro artista della settimana

La copertina che avvolge il nostro giornale sabato 20 e domenica 21 giugno fa parte della serie di opere dedicate all’Europa disegnate in esclusiva per il Foglio da grandi artisti internazionali. L’autore dell’opera è Giulio Paolini, che ringraziamo. Qui il nostro Francesco Stocchi ci spiega chi è.

  
Giulio Paolini nasce a Genova nel 1940. All’età di otto anni partecipa al concorso nazionale di disegno infantile, conseguendo il primo premio. E’ il primo, inconsapevole, successo “artistico” di una carriera precoce, prolifica e devota alla ricerca. Nel 1952 la famiglia Paolini si trasferisce a Torino, città che l’artista adotterà e dove attualmente risiede. Si forma come grafico, coltiva esperienze sia nel campo tipografico che in quello fotografico, conoscenze che si riveleranno fondamentali nella formazione di un linguaggio unico, che mette in discussione l’idea, la manifestazione e la visione dell’opera d’arte attraverso l’uso della parola scritta, dell’immagine e della geometria.

 
Nel 1960, a soli vent’anni, Paolini realizza Disegno geometrico, non solo un’opera prima ma la manifestazione di un gesto originario: una tela senza immagine dove l’artista disegna la squadratura della superficie, spostando l’attenzione dalla rappresentazione alla visualizzazione. “Non un quadro ma una proposizione” di un’opera come catalogo delle sue stesse possibilità, contenitore di tutti i quadri passati, presenti e futuri. Per non diventare feticcio il quadro non viene esposto, assurgendo a modello paradigmatico delle tematiche affrontate da Paolini nelle opere successive. L’assunto iniziale di “non poter far oltre il mio primo lavoro” è determinante nell’atteggiamento paoliniano che lo guiderà verso una concezione di tempo sospeso, in un’attesa dai tratti messianici di rivelazione ultima dell’opera.

 
Con lucida ossessione l’artista pone quale oggetto della sua ricerca le questioni fondanti dell’essere artista, indagando la figura dell’autore rispetto al rapporto subordinato nei confronti dell’opera d’arte che esiste prima e va oltre lui. La presa di coscienza di un ideale celato dall’opera non porta Paolini ad abbracciare la teoria pura, ma lo indirizza a un esercizio complementare: sondare il non visibile. Ovvero, la negazione come ottica potenziale. La sua opera offre l’apertura a una prospettiva mentale che non si occupa di ciò che è manifesto ma esplora il possibile.

 
Nel 1964 Paolini realizza la sua prima personale presso la galleria La Salita di Roma, dove espone pannelli di legno grezzo appoggiati o sospesi alla parete che fanno pensare a una mostra in allestimento piuttosto che all’esposizione di un pittore. Nel 1967 partecipa a “Arte Povera-Im Spazio” alla Galleria La Bertesca di Genova, mostra fondante del movimento poverista. Ma Paolini non si trova interessato all’idea di guerriglia e alla conseguente de-esteticizzazione dell’esperienza artistica. Lui guarda altrove, abbracciando una dimensione atemporale. L’identità dell’autore, il primato dell’opera, il ruolo del museo, lo statuto dell’arte e il suo contesto, questi sono i temi che accompagnano la ricerca dell’artista da oltre cinquant’anni, nel corso dei quali ha portato le sue opere nelle più importanti collezioni internazionali ed esposto nei principali musei in giro per il mondo. Ha partecipato a quattro edizioni di Documenta a Kassel e a ben dieci della Biennale di Venezia, realizzando anche scene e costumi per rappresentazioni teatrali.

 
Sin dai suoi inizi, Paolini ha nutrito un particolare interesse per il campo editoriale e per la pagina scritta, accompagnando la sua ricerca artistica con riflessioni e testi, raccolti in volumi che ha curato in prima persona. Parole che meglio di qualsiasi altre descrivono il problema insito all’enigma dell’opera e che quindi riportiamo:

 
L’autore abdica, rinuncia all’amplificazione sociale del suo ruolo, per attribuire valore primario e assoluto all’opera, alla dinastia che la precede nel tempo (la storia dell’arte) e che avrà seguito dopo di lui. Dunque l’imperativo è liberare il linguaggio dalla sottomissione a essere operativo, referenziale.

 
Sono sempre più convinto che la verità corrisponda al silenzio: posto di fronte a ogni sua nuova opera, l’artista prova ogni volta l’impressione di essere pervenuto alla conoscenza della verità, fino ad allora nascosta e ora rivelata all’istante. Non è vero. Proverà altre volte la stessa impressione (la stessa illusione), credendo ogni volta di essere pervenuto alla verità, che continuerà invece a non conoscere finché non vorrà ammettere che la verità non è sua, ma dell’opera. E neppure di quell’opera, ma di quell’altra.

 
Semplice. Essenziale… Questo dev’essere e non altro, S. E. (Sua Eccellenza) l’Opera d’arte. Ma al tempo stesso ermetica, oracolare… Intraducibile, immediata ma non improvvisata, nessun doppio senso o allusione umanitaria, niente di riduttivo o riassuntivo. L’Opera “ci riguarda” ma non ci comunica alcunché di comprensibile. E’ una forma impercettibile (forse è soltanto un punto) sospesa nello spazio del tempo.

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