Il Figlio
Io e l'asino mio
Che bello il libro di Valentina Crepax. Che famiglia, che racconti. Che fortuna, Crepax
Nella mia famiglia c’è un litigio al semestre. Un litigio che è una guerra, con soldati, alleati, messi, fanti cavalli cani e un somaro, anzi molti somari. Non c’è modo di restarne fuori, d’esser Svizzera, o meglio c’è ma ha un prezzo alto e ammutolente, che è la prova della verità di quella frase di un sopravvissuto a Hiroshima che Elsa Morante pose in esergo a “La Storia”: “Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte”.
La settimana scorsa ho scritto un messaggio a tutti i miei parenti, ehi, torno a casa per il mio compleanno, vi offro una focaccia, venite, niente regali. S’è scatenato l’inferno, telefonate felpate, indagini su commissione su chi fossero gli invitati, ah ma se c’è quello io non vengo, ah ma se quell’altra io ho la scarlattina, ah ma perché non lo sapevi che con quello non ci parlo dal funerale di quella. Non sapevo, perdo sempre il conto dei fronti aperti, e così, volendo fare la Svizzera, ho annullato tutto.
Nella famiglia di mio padre ci si ama così tanto che odiarsi è una forma di contenimento del danno e sono tutti cocciuti, pazzi, meridionali permalosi privi di senso dell’umorismo ma convinti del contrario, e se allora tu ironizzi su un orrendo dessert che hai mangiato al matrimonio di uno di loro, fai la fine di Charlie Hebdo. È per gente come i fratelli di mio padre che i tribunali italiani sono ingolfati dalle questioni di principio. Natalia Aspesi, nella sua lettera a Valentina Crepax, che ha scritto un romanzo sulla sua famiglia (“Io e l’asino mio”, Bompiani) ed è morta poche settimane fa, le ha detto: “Mentre ricordavi, hai capito di essere stata molto fortunata?”.
Valentina Crepax è la nipote di Guido, il fumettista, il papà di Valentina, il disegno che migliaia di italiani hanno sognato di portarsi a letto. E’ la figlia di Franco, il discografico che aveva inventato la Cinquetti ed Endrigo, e decine di altri, e venduto trecento milioni di dischi. È la nipote di nonna Maria, che la preferiva sopra tutti ma non sopra le caramelle mentafernet e aveva “un cassetto vuoto che dentro inchiodato con le puntine da disegno aveva un foglio che dichiarava: cassetto vuoto”. “Io e l’asino mio” glielo diceva sempre sua madre, che si fece suggerire dalla maestra le domande che le avrebbe fatto così che superasse l’esame di quinta elementare, e che quando le telefonava, le diceva di mettere subito giù e lasciare il telefono libero, in caso chiamassero suo fratello o sua sorella.
Un’adulta nata trent’anni dopo Valentina Crepax, una mia cugina qualsiasi, in un romanzo sulla sua famiglia, costruirebbe a partire da questi dettagli una genealogia della disfunzionalità. Crepax era una Crepax e ne ha fatto un’autobiografia sorridente, dove ciascun suo parente spiega chi lei è, perché i parenti questo sono, le nostre spiegazioni. E sarà pure deresponsabilizzante, ma dalla crocifissione che sono le famiglie bisognerà pur prendere qualche vantaggio, no?
Ho letto questo libro lacrimando, a destra di gioia e a sinistra di dolore e anche di invidia. Io una famiglia come quella dei Crepax l’avrei tanto voluta, una famiglia piena di genio, talento, colore, spudoratezze, dove tutti sono andati “alla scuola di Maria Montessori che, nonostante i suoi meriti, aveva abbandonato l’ultimo figlio perché era illegittimo”. Avrei voluto una famiglia dove uno zio fumettista noto in tutto il mondo desse al suo disegno più famoso il mio nome, così che io passassi la vita da doppio di un cartone animato con più rilevanza e carne di me. Una condizione che per una trentenne d’oggi, o una mia cugina qualsiasi, sarebbe motivo di causa penale, e che invece lei così descrive: “Una volta scoperto il mio nome, i miei interlocutori viaggiano rapidi sul mio corpo e non trovando stivali di cuoio nero, calze a rete, chiappe in vista, si sentono defraudati di qualcosa”.
Avrei voluto una famiglia così per decine di ragioni, parecchie delle quali intellettuali, e forse trascurabili, legate a un’Italia smagliante, fantasiosa, borghese, spiritosa, che è l’Italia in cui i Crepax sono stati i Crepax. Avrei voluto una famiglia così perché è stata metropolitana e illuminata, ha amato i libri ma ancora di più le canzoni, e tutti si dicevano e facevano qualunque cosa senza farsela pagare mai. Così sognavo, da piccola, che fosse il nord, un posto dove i fratelli non s’azzannavano per una parola sbagliata, e la parola “onore” faceva ridere, mentre al sud ancora offusca una buona battuta, fa sguainare le spade, divide i fratelli, mi manda all’aria il compleanno. Che fortuna, Crepax. Grazie per aver tirato fuori ogni gioiello, compreso quel cassetto vuoto della nonna. E tu, Milano, ti prego, torna un pochino la città dove nascevano quelli che facevano ridere il paese senza insultarlo mai, mettendolo alla prova sempre.