RIPA DEL NAVIGLIO
Senza applausi
Il Piccolo Teatro è ancora senza direttore, e stavolta c’entra il brutto sgarbo politico della Regione
Come in una pièce di Ionesco, o come un Beckett buttato in grottesco, i due consiglieri di nomina della Regione, dunque centrodestra, non si sono presentati. Mercoledì la riunione del Consiglio di amministrazione del Piccolo Teatro doveva essere una semplice formalità o quasi, dopo mesi di tensioni e complicazioni. Tensioni interne alla maggiore istituzione teatrale italiana: il direttore di lungo corso Sergio Escobar aveva deciso a fine giugno di terminare il suo mandato escludendo proroghe anche a causa delle critiche aperte dei lavoratori del Piccolo. E complicazioni, vuoi di natura palesemente politica, pur con i non-detti tipici del sistema pubblico-culturale italiano, e vuoi legate alle scelte da compiere. Trovarsi, al 31 luglio, nel pieno dell’estate della pandemia, senza un direttore era già per sé una situazione non facile, e un segnale negativo per la città e per tutto il mondo del teatro, in grave sofferenza. Inoltre l’eredità di Escobar è pesante, e l’idea più o meno condivisa e suggerita era trovare un vero uomo di teatro, un regista-organizzatore, per sostituire un manager culturale ma non uomo di palcoscenico come Escobar. Considerando poi che dopo la morte di Luca Ronconi il ruolo di “consulente artistico” era stato volutamente affidato a uno scrittore come Stefano Massini. Ora, secondo i più, era opportuno scegliere una direzione artisticamente forte, innovativa. Il Piccolo è una Fondazione (presidente è Salvatore Carrubba) nel cui cda sono rappresentati il Comune di Milano, la Regione Lombardia, la Camera di Commercio e il Mibact. In totale sei membri. Chi conosce almeno un po’ le dinamiche dei teatri pubblici italiani sa che sarebbe giunto il momento, non solo per il Piccolo e per tutte le altre fondazioni di questo tipo, di modificare le modalità di rappresentanza e controllo, e liberare le scelte propriamente artistiche e programmatiche dai desideri della politica di dire la propria: non sui bilanci, ma sull’arte. Poiché il momento non è ancora venuto (ma mai disperare: in fondo i grandi musei un cambio di organizzazione lo hanno avuto) sulla scelta del nuovo direttore la politica almeno locale, in questo caso soprattutto dal lato Regione, si è fatta sentire. Così Angelo Crespi ed Emanuela Carcano non si sono presentati. Più che Beckett o Ionesco, un pasticcio di poco garbo istituzionale.
Eppure, la soluzione era stata trovata. Dopo che in una laboriosa estate i membri del cda si erano accordati per un sistema di selezione di una cinquina di candidati, da sottoporre a screening e poi da votare a maggioranza (presenza richiesta di cinque membri del cda), erano stati “auditi” in quattro: Antonio Calbi, Filippo Fonsatti, Marco Giorgetti, Rosanna Purchia. Perché il quinto, Claudio Longhi, attualmente direttore dell’Ert (Emilia-Romagna Teatro) aveva rinunciato. Nessuno dei quattro aveva ottenuto i voti necessari, per opposti veti non tutti di cristallina motivazione scenica. E così, dopo l’invito di Beppe Sala a rifletterci, si è tornati a bussare a casa di Longhi. Il direttore del’Ert, universalmente stimato, stavolta si è dato disponibile e ha ricevuto il gradimento di quattro (su sei) consiglieri. I consiglieri della Regione non hanno invece dato l’assenso. Ma a quel punto, in qualsiasi cda non determinato da interessi estranei al core business, sarebbe bastato convocare una riunione con il numero legale, e i membri di minoranza non avrebbero messo in campo tecniche da ostruzionismo extraparlamentare. Lo scontro tra Regione e Comune di Milano (i “pacchetti di voti”) è da molto tempo ai minimi del garbo istituzionale, e la cultura è diventata un punto di contesa. Ma a memoria di milanesi non s’era mai visto da parte di una istituzione, in questo caso la Regione, tanto disposta a travalicare il suo ruolo in chiave di scontro politico combattuto su un altro palcoscenico. Ora si aspetterà il nuovo, e forse ultimo, atto.