CONTRO MASTRO CILIEGIA
Ricordare Rosario Livatino
Il giovane giudice, assassinato 30 anni fa dalla mafia, era un cristiano semplice e rigoroso, che ha elevato la carità a norma obbligatoria di condotta. Un giorno forse sarà beato
Ci sono storie e persone che vale la pena ricordare, pur nel tourbillon delle tornate elettorali seppure anche costituzionali, e non soltanto per adempiere alla funzione sussidiaria (nel senso del sussidiario di scuola) dei giornali, e a beneficio di quanti trent’anni fa non c’erano e non leggevano giornali e libri di scuola. Ieri erano i trent’anni dalla morte del giudice Rosario Livatino, che in una mattina del settembre 1990 stava andando in tribunale sulla strada di Agrigento, senza scorta come sempre, con la sua Fiesta amaranto destituita di simboli del potere. Quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina lo speronarono, lui tentò di fuggire a piedi nei campi, ma fu raggiunto e ammazzato. È rimasto nella cronaca, non nella storia, come “il giudice ragazzino”, perché aveva 38 anni e per una infelice esternazione di Francesco Cossiga, allora presidente. Anche se anni dopo il vecchio democristiano smentì decisamente e quasi con indignazione che quella definizione impietosa fosse rivolta al giudice assassinato. Meno si ricorda, di lui, che era un cristiano semplice, rigoroso, impegnato per una giustizia che non fosse mai spettacolo o peggio rappresaglia. Sono belli e profondi i suoi scritti, c’è una sua conferenza in cui disse, a proposito del suo lavoro ma non solo di quello: “Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere ‘giusti’, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano”. La chiesa lo considera Servo di Dio, un giorno forse sarà beato.