I Diari della motosega di Javier Milei
Pareggio di bilancio e crollo dell’inflazione. Dopo nove mesi di tagli e austerity il presedente anarco capitalista resta popolare in Argentina
Solo un anno fa, di questi tempi, nel pieno della campagna elettorale per le presidenziali in Argentina, in pochi pensavano che il populista libertario Javier Milei, che i sondaggi davano attorno al 20%, sarebbe riuscito ad arrivare al ballottaggio contro il centrodestra tradizionale o la sinistra peronista. Dopo il primo turno, in pochi pensavano che questo strano personaggio che prometteva il liberismo più sfrenato sventolando una motosega sarebbe riuscito a sconfiggere al ballottaggio il favorito Sergio Massa, ministro dell’Economia. Dopo la vittoria al secondo turno, con il maggior numero di voti nella storia dell’Argentina, in pochi pensavano che Milei avrebbe attuato il suo programma di durissima austerity, liberalizzazioni e privatizzazioni e, soprattutto, che sarebbe durato più di un anno se mai l’avesse fatto. La via democratica all’anarcocapitalismo? Le riforme dei Chicago boys, ma senza i generali? Non può reggere.
E invece, dopo quasi nove mesi di governo, Javier Milei non solo ha realizzato una delle restrizioni fiscali più forti che si siano mai viste ma mantiene un livello di consensi incredibilmente elevato: nei sondaggi resta di gran lunga il politico argentino più popolare, con i pareri positivi che sono nettamente superiori a quelli negativi. Gli argentini hanno eletto presidente un populista anticasta (una sorta di Beppe Grillo) che propone un programma di aggiustamento fiscale ortodosso (una sorta di Agenda Monti agli steroidi) e continuano ad apprezzarlo. Com’è possibile che questa formula politica funzioni? Quali risultati sta producendo?
Per rispondere bisogna lasciare da parte tutti gli aspetti più folcloristici del personaggio, che ne hanno determinato la popolarità e hanno dominato le cronache (la motosierra, la capigliatura, i cani clonati con i nomi di economisti, i medium, le posizioni a favore della vendita di organi), per guardare di più alla sostanza dell’azione politica. In particolare all’economia. Come seconda premessa, bisogna tenere presente l’eredità economica lasciata dal governo peronista di Alberto Fernández e Cristina Kirchner: recessione (-1,6% del pil nel 2023), inflazione più alta al mondo (211% nel 2023; 25% nel solo mese di dicembre 2023, con un’inflazione implicita di migliaia di punti percentuali), povertà dilagante (oltre il 40%), riserve negative record (-11 miliardi di dollari), saldo delle partite correnti negativo (-3,5%), un accordo con l’Fmi da 44 miliardi di dollari impossibile da rispettare. Insomma, un paese fallito con un’economia disastrata e socialmente devastato. È questo il “miracolo economico” argentino che a inizio 2022 preannunciava Joe Stiglitz, premio Nobel dell’Economia progressista e no global, ispiratore della politica economica del governo peronista.
Agli argentini Milei ha indicato un ritorno ai fasti di fine Ottocento, quando il paese era uno dei più ricchi al mondo e gli europei che emigravano in America sceglievano tra New York a nord e Buenos Aires a sud il posto dove costruire il proprio futuro. Ma non ha fatto promesse populiste sul piano economico. Anzi, ha avvisato la popolazione che il percorso per il ritorno all’Eden liberale sarebbe stato duro e doloroso. Una “shock therapy” di tagli alla spesa pubblica, smantellamento dell’apparato statale costruito dai tempi di Perón e disboscamento della fitta regolamentazione che si è stratificata a partire dalla dittatura militare di Onganía. Le cose sarebbero andate peggio prima di andare meglio, ha avvisato Milei. E così è stato.
A dicembre, appena insediato, dopo una forte svalutazione, la rimozione di molti prezzi controllati e amministrati e il taglio dei sussidi all’energia e ai trasporti, l’inflazione è aumentata al 276% annualizzato e la povertà è salita al 50%. L’aggiustamento fiscale per arrivare immediatamente al deficit zero è stato impressionante: circa 5 punti di pil in pochi mesi. Molto di più di quanto l’Italia dovrà fare in sette anni per rispettare il piano di rientro europeo.
È la fase in cui ha funzionato a pieno regime la motosega, con tagli simbolici come quello dei ministeri e di agenzie statali, ma soprattutto sostanziali: licenziamento di una decina di migliaia di dipendenti pubblici, sospensione delle opere pubbliche per un anno, riduzione degli ampi sussidi per l’energia e i trasporti, taglio dei trasferimenti discrezionali alle province, riforma dei programmi di spesa sociale, aumento di alcune tasse come l’imposta Pais sulle importazioni. Naturalmente la stretta fiscale ha avuto una forte ripercussione sull’attività economica, aggravando la recessione già presente nel 2023, con un pil che l’Fmi prevede in calo del 3,5% nel 2024. Lo scenario peggiore, niente affatto improbabile, per il governo di Milei dopo un ajuste così feroce era di ritrovarsi a metà anno con un’economia in crisi, senza buone notizie da dare ai cittadini, con la popolarità a picco, i piqueteros nelle strade e in forte minoranza nel Congresso (il suo partito, La Libertad Avanza, ha appena il 15% dei seggi alla Camera e il 10 per cento al Senato).
Invece i dati del Fmi, pubblicati a giugno nell’ottava revisione dell’accordo con l’Argentina, sono lusinghieri. Già da gennaio, e per tutti i mesi successivi, è stato raggiunto per la prima volta dopo 16 anni il surplus di bilancio (il superávit, che Milei ripete come un mantra). “Il superávit di bilancio è il punto principale dell’azione di governo, l’àncora del programma economico – dice al Foglio Pablo Guidotti, economista dell’Università Torcuato Di Tella a Buenos Aires –. Nei primi mesi dell’anno c’era qualche dubbio sul fatto che quel risultato fosse sostenibile, ma ora si può dire che ha una certa solidità”. L’inflazione è crollata dal picco del 25,5% mensile di dicembre 2023 al 4% dello scorso luglio, che secondo le proiezioni del Fmi vuol dire passare dal 211% d’inflazione del 2023 al 150% del 2024 al 45% del 2025. In realtà, le cose sembrano andare meglio delle previsioni, dato che l’Fmi stimava che l’inflazione mensile scendesse al 4% a fine anno, mentre l’obiettivo è stato raggiunto a metà anno, con un trend che dovrebbe arrivare sotto il 2% a dicembre. A fianco alla chiusura del deficit fiscale, il governo Milei ha anche annullato il deficit quasi-fiscale: ha azzerato il finanziamento monetario del disavanzo da parte della Banca centrale e ne ha rafforzato l’indipendenza dal Tesoro ripulendo il bilancio dal debito. Sono state ricostruite le riserve internazionali. La bilancia commerciale è tornata in terreno positivo, in parte per effetto di un aumento delle esportazioni ma soprattutto per un crollo delle importazioni. Così, in pochi mesi, l’Argentina è passata da un twin deficit a un twin surplus.
I risultati sono notevoli e “migliori del previsto”, come certifica l’Fmi, ma come ha fatto Milei a mantenere così elevati i consensi? Una prima risposta è l’inflazione. Si tratta della tassa più devastante per l’economia, la più odiata dagli argentini, anche perché pesa di più sui poveri: vedere mese per mese che i prezzi aumentano sempre più lentamente rispetto ai ritmi vertiginosi e incontrollati dell’anno passato trasmette nella popolazione l’idea che la terapia, per quanto dura, stia funzionando. Il governo ha inoltre appena tagliato l’imposta Pais sulle importazioni, cosa che verosimilmente da settembre dovrebbe spingere in giù l’inflazione. Un altro aspetto è la spesa sociale, che è il capitolo delle uscite toccato di meno. Come segnala anche l’Fmi, il governo argentino ha incrementato notevolmente alcuni sussidi universali e diretti come l’Asignación universal por hijo (simile al nostro Assegno unico per i figli) e la Tarjeta Alimentar (trasferimenti per l’acquisto di beni alimentari), due programmi particolarmente importanti in un paese con una povertà minorile diffusissima; mentre ha tagliato tutti programmi inefficienti che in Argentina venivano intermediati da sindacati e organizzazioni sociali.
Un fattore fondamentale del consenso di Milei, però, è strettamente politico. L’opposizione è in crisi profonda, lacerata dalle faide e senza credibilità nell’elettorato. Gli scandali politici e di corruzione stanno travolgendo tutta la classe dirigente peronista. L’ultimo, quello più clamoroso, riguarda il presidente uscente Alberto Fernández, accusato dalla ex compagna di averla picchiata e indotta ad abortire. Il processo in cui Fernández è imputato è nato da una denuncia del governo Milei per un caso di sospetta corruzione sulla compravendita di assicurazioni statali, da cui sono emerse le foto dell’ex first lady con i lividi e le sue richieste d’aiuto, ignorate dal ministero delle Donne che Milei ha poi chiuso. Un ex importante ministro del governo di Néstor Kirchner, Guillermo Moreno, è stato condannato a tre anni per la manipolazione al ribasso dei numeri sull’inflazione dell’Indec (l’Istat argentina). L’ex presidente Cristina Kirchner, vera leader dell’opposizione, è stata condannata a 6 anni per corruzione ed è in attesa del processo di appello che si concluderà nei prossimi mesi. Ma sono numerose le inchieste per corruzione e malversazione anche nei confronti dei dirigenti sociali e sindacali per la gestione dei programmi di spesa assistenziale chiusi da Milei.
Gli scandali giudiziari hanno delegittimato i movimenti e i piqueteros che si presumeva avrebbero paralizzato l’Argentina in risposta alle dure misure di austerity del governo. Ma oltre al mancato supporto popolare e al taglio del flusso finanziario che arrivava dalle casse statali, il governo è intervenuto con il ministro della Sicurezza Patricia Bullrich (candidata del centrodestra tradizionale battuta da Milei e poi alleatasi con lui) con un provvedimento che sanziona le manifestazioni non autorizzate e i blocchi stradali. A parte qualche importante manifestazione nei primi mesi, i piqueteros sono praticamente scomparsi.
Questo è un altro aspetto rilevante del populismo di Milei. A dispetto di una retorica “anti casta”, ancora molto efficace, il presidente libertario ha incorporato nel suo team gente con esperienza di governo, che sa dove mettere le mani nella stanza dei bottoni. Oltre alla popolare Patricia Bullrich, un pezzo fondamentale è il nuovo capo di gabinetto, Guillermo Francos, che ha una lunga esperienza politica e ha il compito di trovare accordi e compromessi con i governatori delle province e con un Congresso frammentato. L’uomo del programma di aggiustamento macroeconomico è il ministro dell’Economia Luis “Toto” Caputo, già ministro sotto la presidenza di centrodestra di Mauricio Macri, e con esperienza in Jp Morgan. C’è poi il ministro della Deregolamentazione, Federico Sturzenegger, economista e già governatore della Banca centrale argentina, che ha il compito di usare il bisturi anziché la motosega: Sturzenegger aveva preparato per la Bullrich un lunghissimo piano di taglio di regole e burocrazia in tutti i settori dell’economia, che poi ha offerto a Javier Milei ed è diventata dopo una trattativa durata sei mesi con il Congresso la Ley Bases (Legge delle basi e punti di partenza per la libertà degli argentini).
Qualche effetto delle riforme strutturali è già visibile. Ad esempio è stato immediatamente liberalizzato il mercato degli affitti, superando una legge del governo precedente (Ley de Alquileres) che con i suoi rigidi paletti aveva distrutto il mercato immobiliare: soprattutto con l’esplosione dell’inflazione, i proprietari hanno ritirato le case dal mercato a causa dell’incertezza sui prezzi bloccati, gli inquilini non trovavano case da affittare e solo con prezzi più alti. Con la liberalizzazione dei contratti, in pochissimi mesi l’offerta di appartamenti è aumentata del 211% e i prezzi sono scesi del 26% in termini reali.
Il piano di liberalizzazione e sburocratizzazione di Sturzenegger, dopo il forte aggiustamento fiscale, dovrebbe aumentare la competitività e la dinamicità dell’economia argentina, attraendo capitali e investimenti dall’estero specialmente nel settore minerario e oil & gas. Proprio nei giorni scorsi, nella squadra di Caputo è entrato come viceministro l’economista cileno José Luis Daza, che ha lavorato nel privato sui mercati internazionali e, verosimilmente, dovrà appianare alcune divergenze con l’Fmi: Milei è entrato in aperto contrasto con il direttore del Fondo che supervisiona l’Argentina, Rodrigo Valdés, accusato di essere troppo di sinistra per i suoi precedenti come ministro del governo Bachelet in Cile, e il cileno Daza potrebbe ricucire questo strappo
Guardando i dati economici, sembra che il peggio sia passato. I conti sono in ordine, l’inflazione scende, l’economia inizia a dare segni di ripresa e, secondo le proiezioni del Fmi, nella seconda metà dell’anno ripartirà la crescita che nel 2025 si attesterà al 5% del pil. Ciò vuol dire che Milei arriverebbe alle elezioni legislative del 2025 con il vento in poppa, riuscendo a consolidare il controllo su un Congresso in cui ora è in minoranza. Una condizione che lo costringe a continue e a volte estenuanti trattative con gli alleati di centrodestra e i settori più dialoganti dell’opposizione radicale e peronista. Tutto sembra, insomma, mettersi su un sentiero buono per Milei.
Ma restano alcune incognite. La prima riguarda la tenuta della politica fiscale, che negli ultimi cento anni di storia segnati da nove default è stata – come ha ricostruito l’economista Vito Tanzi nel libro “Questione di tasse. La lezione dall’Argentina” – il fattore costante e determinante dell’instabilità macroeconomica argentina. La scorsa settimana, il Senato ha approvato a larghissima maggioranza (con il solo voto negativo dei pochi parlamentari del partito mileista) una riforma delle pensioni che aumenta la spesa di 1 punto di pil. Vuol dire addio al pareggio di bilancio, ma è soprattutto un segnale ai mercati di debolezza del governo e di ritorno alle vecchie abitudini. Milei ha già dichiarato che imporrà il veto presidenziale, che può essere superato solo qualora il Parlamento riapprovi la riforma con i due terzi dei voti. “Non mi pare un grosso problema – spiega al Foglio l’economista Pablo Guidotti –. Il veto dovrebbe reggere, ma è probabile che dopo il governo darà qualche aumento ai pensionati che può essere assorbito dall’attuale situazione fiscale”.
Il vero problema, secondo Guidotti, riguarda invece la parte monetaria: “Quando l’Argentina sarà in condizione di eliminare i controlli cambiari e unificherà i cambi multipli? Questo tema è abbastanza centrale nelle discussioni con l’Fmi”. Nella relazione del Fondo, come nelle dichiarazioni della direttrice Kristalina Georgieva e della vicedirettrice Gita Gopinath, ci sono solo elogi per come stanno andando le cose: “Meglio del previsto”. D’altronde il successo del piano macroeconomico di Milei è l’unica possibilità per vedersi restituire i 44 miliardi prestati all’Argentina (il più grande programma della storia del Fmi). Ma sottotraccia restano i dubbi sul regime monetario, sulla “dollarizzazione” promessa da Milei in campagna elettorale, poi archiviata e ogni tanto ritirata fuori nelle dichiarazioni. “Tutti credono che l’Argentina debba liberalizzare il mercato dei cambi – dice Guidotti – ma il governo ha un po’ paura, teme da un lato che possa aumentare il tasso d’inflazione, ma soprattutto teme di esporsi a qualche attacco speculativo come è accaduto in passato. Così il miglioramento dell’economia può rallentare le riforme. Ma la chiarezza sul regime monetario è un problema che andrà affrontato e che può portare a tensioni con il Fondo”.
Le incognite sono tante e la situazione argentina è molto fragile, esposta a choc esterni (si pensi solo all’andamento sui mercati del prezzo della soia) e a instabilità politica interna, ma se dovesse avere successo l’esperimento Milei, che è già un fenomeno mediatico globale, avrà ricadute politiche su tutta la regione latinoamericana.