(foto LaPresse) 

GRANMILANO

Milano è una città riformista

Piero Borghini

Ne capoluogo lombardo riformismo non è parola della politica, ma il Dna stesso della città. Quali scelte fare

Milano è stata oggetto, in questi mesi di lockdown, di molte attenzioni, non tutte benevole e talune persino compiaciute per la supposta caduta di un mito. Più di un ditino si è alzato per intimarle di cambiare, sfidando il ridicolo, non solo per il pulpito da cui veniva la predica, ma anche per il fatto che dire a Milano di cambiare è come dire a un uccello di volare o a un pesce di nuotare. E’ il suo Dna. Per convincersene basta fare il confronto non solo con altre città italiane, ma anche con le grandi città industriali del nord Europa, ancora oggi alle prese con le conseguenze della grande crisi degli anni 70-80 mentre Milano, non solo ne è uscita rapidamente, ma sta vivendo da alcuni anni una nuova fase di trasformazione da capitale del terziario avanzato a capitale dell’economia della conoscenza. Il punto di fondo qual è? Che quando si dice che Milano è una città “riformista” non ci si riferisce affatto, almeno in prima battuta, alla sua politica, ma alla sua società e alle dinamiche di cambiamento.

 

La politica “riformista” è poi quella che asseconda queste dinamiche, governandone gli impatti sociali e territoriali e badando che non mettano in discussione i fondamenti della libertà e della prosperità cittadina: l’apertura incondizionata al resto del mondo, la coesione sociale e il rispetto del patto civile ed economico che la lega alla sua grande area metropolitana. Si pensi, ad esempio, alla ricostruzione postbellica, in cui Milano seppe creare, accanto a un modello industriale, anche un modello di accoglienza e di integrazione sociale tuttora insuperato. Oppure alla grande crisi di ristrutturazione dell’industria italiana degli anni 70-80, che ebbe proprio a Milano il suo epicentro e che cambiò ogni cosa, dalle gerarchie produttive alle esigenze abitative e formative ai comportamenti sindacali e politici alle esigenze di consumo. Con il sovrappiù della minaccia terroristica, che trovò a Milano il suo primo insormontabile ostacolo nella piazza del Duomo gremita e silente dei funerali per le vittime di piazza Fontana.

 

Milano uscì da tutta questa situazione cambiando letteralmente pelle, valorizzando le filiere produttive (scambiate all’inizio per decentramento al risparmio), creando il legame tra industria e design, facendo leva sulla Brianza industriale, inventandosi il Salone del mobile, raddoppiando il sistema universitario e cominciando a chiudere il gap internazionale nell’offerta di servizi avanzati. Il disastro di Tangentopoli, per altro seguito da un immediato e drastico ricambio politico, indusse molti a considerare tutto ciò alla stregua di un ingannevole slogan pubblicitario: “Milano da bere”. Era invece l’inizio di quella fase di cambiamento che che stiamo vivendo ancora oggi. Cambiamento consacrato dal successo globale di Expo 2015. In questi ultimi anni Milano ha compiuto due importanti raddoppi, quello delle sue linee metropolitane e quello delle aree a verde. Non solo, secondo una recentissima ricerca dell’Università Bicocca, Milano è al primo posto in Italia, e tra i primissimi in Europa, in tre ambiti distinti: l’economia circolare, la mobilità sostenibile e l’uso efficiente delle risorse. Non vuol dire che Milano, specie dopo il Covid, non abbia molte cose da cambiare, ma semplicemente che lo sta facendo.

 

Così come, ma è l’esempio più facile, dovrà porre mano con più energia al grande tema dell’assistenza agli anziani, che per alcuni è competenza della magistratura, mentre invece soltanto l’umanità e la saggezza che ispirano da sempre il welfare ambrosiano possono farlo, incrementando l’assistenza a domicilio e creando sempre più strutture protette. Oppure dovrà correggere l’impostazione di una urbanistica forse troppo sbilanciata sulle esigenze degli immobiliaristi, come anche i migliori tra loro hanno già capito. Per il resto, basta ascoltare le voci del volontariato o leggere le dichiarazioni di tanti presidi e rettori di Università per capire quanto Milano stia già cambiando e sempre più cambierà. Un cambiamento anche politico che, come la carità, deve cominciare a casa e deve riguardare in primo luogo il patto civile ed economico che lega Milano alla sua grande area metropolitana.

 

Giuseppe Berta della Bocconi, nel suo “La via del Nord”, parlando appunto dell’economia della conoscenza sottolinea il fatto che i knowledge worker traggono dalle risorse condensate nei sistemi urbani le attitudini professionali per offrire i propri servizi al mercato e che è dunque “nel crogiolo metropolitano” che le occasioni di lavoro si generalizzano con un’efficacia ineguagliabile da parte di qualsiasi organizzazione d’impresa. Ebbene, proprio per questo motivo i knowledge worker ( ma anche i futuri smart worker) sono portatori di un nuovo tipo di diritto che la sociologa Saskia Sassen ha definito “diritto alla città”, ossia il diritto di godere, ovunque si abiti nella realtà metropolitana, della medesima “qualità urbana” fatta di connessioni rapide, servizi efficienti e accessibili, ambiente pulito, ordine urbanistico, bellezza architettonica, socievolezza, cultura e infine lavoro. Ecco il nuovo programma del riformismo milanese, al quale non basta più, oggi, chiedere di fare, ma bisogna chiedere anche di guidare il cambiamento necessario al paese.

 

Nel 1924 Gramsci scriveva su l’Unità un articolo intitolato “Il problema di Milano”, che per lui era il “riformismo”. Questo, però, prima della sconfitta e della grande riflessione autocritica dei “Quaderni”, con la scoperta del concetto di egemonia. Prima, cioè, che potesse cambiare la parola “problema” con la parola “risorsa”.

 

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