GranMilano
La Sanità riveduta e corretta si prepara alla seconda ondata
Monitoraggio, sistema degli ospedali e territorio. Parla il direttore Trivelli. Come va la ricerca
La “terra promessa” del vaccino è lontana, i contagi crescono di poco ma costanti (ma ascoltate cosa ha detto Merkel) e la Sanità lombarda si prepara ad affrontare la fase 6: ovvero il ritorno di Covid-19, mai scomparso. Non che in Lombarda non si sia rinunciato al vaccino: al San Gerardo di Monza sono più di 600 i volontari che stanno sperimentando quello messo a punto dalla Takis e dalla Rottapharm Biotech, in collaborazione con l’Università di Bicocca. Si tratta di un vaccino basato sul Dna, innovativo anche dal punto di vista clinico. Ma non bisogna farsi trovare impreparati. E la Regione si sta attrezzando per contenere la nuova ondata. “Penso che prima di giugno il vaccino non arrivi”, dice al Foglio Marco Trivelli, nuovo direttore generale della Sanità lombarda. “Continuo a pensare che il virus non lo conosciamo, non siamo in grado di dire con certezza come si comporta ma è vero che ora sappiamo riconoscerlo. Eparina, cortisone e ossigeno oggi sappiamo usarli bene, mentre a marzo no, oggi siamo molto più solidi, sarà un’altra partita. Però non è vero che il virus è sotto controllo, anche se sappiamo ostacolarlo, curarlo”.
Il punto critico (e letale) della terapia intensiva oggi sembra superato. Ma cos’è successo la primavera scorsa? “Le terapie intensive sono andate in difficoltà perché c’era un bisogno di letti superiore all’offerta. Noi abbiamo delle regole di gestione dei letti che si sono dimostrate insufficienti. Il Piano ospedaliero nazionale aveva previsto un numero insufficiente e nessuno sapeva esattamente quanti letti erano necessari. Ora non c’è sintomatologia grave, siamo a 30 pazienti in terapia intensiva, io presuppongo una crescita nei prossimi due mesi di pazienti prevalentemente asintomatici. Immagino non si debba arrivare alle situazioni di marzo-aprile. A febbraio eravamo totalmente inconsapevoli”, spiega Trivelli. A marzo-aprile, oltre al cortocircuito nelle terapie intensive, si è aperto un buco nero a livello territoriale, cos’è successo? “Mentre le aziende ospedaliere erano attrezzate per affrontare Covid, chi invece è rimasto solo, come i medici di base, non ha potuto fronteggiare la pandemia, perché non aveva le forze per farlo”, ammette il dg della Sanità. “Un medico di medicina generale, nel suo studio, pensa al rapporto diretto col paziente. Queste persone si sono trovate nell’impossibilità di gestire i pazienti Covid. Oggi invece abbiamo cercato di creare connessioni, adesso le nostre Ats hanno fatto piani territoriali, con l’ipotesi di come si svilupperanno gli scenari nelle prossime settimane: sorveglianza, diagnosi, contatti, isolamenti domiciliari, quanti letti per i pazienti sintomatici, quanti per i pazienti gravi, ogni territorio ha fatto il suo piano, costruito con tutti gli attori del territorio. La novità è che c’è un sistema di relazioni più efficiente, un passaggio in avanti rispetto a marzo. Non solo la Regione e le aziende ospedaliere, ci sono tanti soggetti che sono coinvolti nei piani territoriali. L’inizio di una Sanità diversa, che vede i soggetti che fanno cura più legati alle persone”, dice Trivelli. Anche “la collaborazione pubblico privato, a livello ospedaliero, è stata buona fin dall’inizio della pandemia. Non c’è stato un freno da parte delle strutture private ad accogliere pazienti Covid. ”, conclude Trivelli.
Dal Gruppo San Donato fanno saper al Foglio che “se dovesse arrivare una seconda ondata, tutti i nostri ospedali sono già pronti. I nostri protocolli organizzativi ci consentono di riconvertire velocemente i reparti in unità Covid. Inoltre, abbiamo stoccato i dispositivi di protezione necessari che ci consentono un’autonomia di tre mesi”. Ma cosa avete imparato dalla dura esperienza di marzo? “Nella prima ondata abbiamo preso in carico 6.000 pazienti Covid. Questa esperienza ci ha consentito di individuare i protocolli di trattamento più efficaci che tengono conto delle ultime evidenze scientifiche presenti in letteratura, alla quale i ricercatori e clinici del Gruppo San Donato hanno contribuito con 200 studi osservazionali. Stiamo collaborando con la medicina del territorio perché i malati siano individuati e inviati tempestivamente negli ospedali. Solo così eviteremo che in una eventuale seconda ondata si arrivi alla congestione delle terapie intensive”. L’IRCCS Ospedale San Raffaele lavora a uno studio internazionale che svela le predisposizioni genetiche e immunologiche nei pazienti con forme gravi di Covid-19. Più del 10 per cento dei pazienti sani che sviluppano una forma grave di Covid-19 posseggono anticorpi disfunzionali che attaccano il sistema immunitario invece del virus, rendendolo meno efficace nella lotta all’infezione. Mentre il 3,5 per cento è portatore di una mutazione genetica predisponente. In entrambi i casi il problema sembra risiedere in una ridotta funzionalità dell’interferone di tipo I, che nel primo gruppo di pazienti viene neutralizzato dagli auto-anticorpi, mentre nel secondo viene prodotto in quantità ridotte. “Riteniamo che gli auto-anticorpi contro l’interferone possano spiegare una parte rilevante delle forme più aggressive di Covid-19 e del modo in cui queste forme si distribuiscono nella popolazione, ovvero colpendo maggiormente le persone di sesso maschile e di età avanzata – spiega Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute del San Raffaele e professore all’Università Vita-Salute San Raffaele, tra gli autori del lavoro. Non a caso, dei pazienti che presentavano gli auto-anticorpi, il 95 per cento erano uomini e più del 50 per cento aveva più di 65 anni di età”.